1Timoteo 6

1 Sez. D. 1Timoteo 6:1-2. LE ISTRUZIONI CONCERNENTI GLI SCHIAVI.

Quando il cristianesimo cominciò a spargersi nell'Impero romano, la schiavitù non solo esisteva negli usi e nelle leggi sociali, ma essa era in uno dei suoi peggiori stadii. Gli schiavi formavano i due terzi della popolazione ed il mercato n'era rifornito sia colle migliaia dei prigioni fatti in guerra, sia colle scorrerie fatte all'unico fine di dar la caccia all'uomo. Erano in vigore le leggi e gli usi più barbari. Lo schiavo poteva essere non solo comprato e venduto, ma benanco adoprato dal padrone per i suoi piaceri e pei suoi vizii, poteva esser torturato ed anche ucciso. Il sangue degli schiavi scorreva al Colosseo nei combattimenti dei gladiatori fra loro e colle fiere. Nelle campagne lavoravano e talvolta dormivano incatenati, nè era raro, ai tempi d'Augusto, di vedere un portinaio colla catena. Il Senato romano aveva stabilito che fossero messi a morte tutti gli schiavi di una casa quando il padrone fosse stato ucciso e nel 61 quattrocento schiavi di Pedanius Secundus furon fatti morire ad onta delle proteste mandate al Senato. L'eccesso dei mali trattamenti aveva fatto scoppiare occasionalmente delle sommosse, ma erano state spente nel sangue.

In mezzo a codesta società il Vangelo depone un lievito nuovo e potente. Esso non considera lo schiavo come un essere inferiore al padrone, ma proclama tutti gli uomini uguali innanzi a Dio, oggetto ugualmente della Redenzione in Cristo ed egualmente capaci di eredare la gloria di Dio. Schiavo e padrone che sono fratelli per la comune origine e natura, diventano in Cristo fratelli in fede, e in isperanza, uniti dal vincolo reciproco dell'amor fraterno. Ma, deponendo cotali germi nel suolo, l'Evangelo lascia al loro lento sviluppo il maturare i rivolgimenti sociali ch'essi contengono in principio. Non eccita alle violente rivendicazioni, non procede per via di rivoluzioni, ma per via di evoluzione. La libertà data da chi vi fosse costretto dalla forza materiale anziché dalla convinzione morale, e data a chi non fosse educato ad usarne come si conviene, non tarderebbe a mutarsi in una nuova forma di servitù. Quindi è che Paolo, nei molti passi dei suoi scritti ove tratta dei doveri reciproci dei padroni e degli schiavi - i quali ultimi formavano una parte considerevole delle chiese - non ingiunge ai padroni di mettere in libertà i loro schiavi, nè spinge gli schiavi a rivendicare od a prendersi la libertà cui, come uomini, avrebbero diritto; ma insegna loro a restare nella condizione in cui li ha trovati l'appello di Dio ed a compiervi fedelmente i loro doveri 1Corinzi 7:20-24; Efesini 6:5-9; Colossesi 3:22-4:1; Filemone 8-21; Tito 2:9-10. A questi stessi principii dovrà ispirarsi Timoteo nelle direzioni morali da dare agli schiavi cristiani d'Efeso.

Tutti gli schiavi che sono sotto il giogo, reputino i propri padroni degni di ogni onore, affinchè il nome di Dio e la dottrina non siano oggetto di biasimo.

Le parole che sono sotto il giogo non alludono ad uno speciale inasprimento della condizione di alcuni schiavi, ma descrivono questa condizione sotto l'aspetto suo più penoso ed umiliante, specialmente per chi si sente l'affrancato di Cristo, il figlio e l'erede di Dio. L'onore da rendere ai padroni include il sentimento del rispetto e le sue varie manifestazioni nelle parole, nel contegno e negli atti. Li devono reputar degni di ogni onore, non perchè siano moralmente migliori, o perchè siano loro superiori per natura, ma perchè sono collocati dalla provvidenza di Dio in una posizione più alta. Una tale situazione, gli schiavi cristiani la devono accettare come quella ch'è loro assegnata, a meno che si offra loro l'occasione di acquistare onestamente uno stato di maggiore indipendenza 1Corinzi 7:21.

I motivi che devono spingere gli schiavi credenti a mostrarsi coscienziosi nel compiere i loro doveri sono di due ordini: l'uno generale, indicato in 1Timoteo 6:1, l'altro speciale, 1Timoteo 6:2, valevole solo per quelli che avessero dei padroni cristiani. Nel caso più frequente di schiavi aventi un padrone pagano, se essi che hanno creduto nel vero Dio e nel Signor Gesù, mostrassero poco rispetto nei loro padroni, questi ne trarrebbero occasione di bestemmiare il nome di Dio e di sparlare dell'insegnamento cristiano tacciandolo di sovversivo, di pericoloso. Cf. Tito 2:10; 1Pietro 3:1-2 ov'è questione delle mogli di persone non credenti. I fedeli devon tenersi lontani da una linea di condotta che avrebbe cotali conseguenze. Di fatto, la condotta cristiana degli schiavi nella Chiesa primitiva, dimostrò la eccellenza del cristianesimo e contribuì a scalzar le basi della schiavitù più che non l'avesse fatto una rivoluzione. Man mano poi che il lievito cristiano penetrò nella, società, le leggi e le consuetudini relative agli schiavi vennero facendosi più miti e più giuste. Sotto gli Antonini fu abolito il diritto dei padroni di dar la morte ai loro schiavi e Giustiniano arrivò al punto di raccomandar l'emancipazione degli schiavi. Il progresso, ritardato dalla tirannide maomettaua e dalla decadenza medievale della Chiesa, riprese il suo cammino colla Riforma, ed i paesi penetrati dai principii evangelici furono i primi ad abolire la schiavitù.

2 Coloro poi che hanno dei padroni credenti non li sprezzino perchè sono fratelli; li servano anzi con maggior zelo poichè coloro che ricevono il beneficio [del loro servizio] sono fedeli e diletti.

Mentre chi aveva un padrone pagano poteva esser tentato di mancargli di rispetto dalla coscienza della sua dignità come uomo e della superiorità della sua condizione spirituale di fronte a un adoratore degli idoli, lo schiavo cristiano che aveva per padrone un suo fratello, poteva anch'egli esser tentato di sprezzarlo, cioè di usare con lui soverchia familiarità, di non mostrargli il dovuto rispetto, nè la dovuta ubbidienza, sapendolo suo fratello in fede. Invece, Paolo insegna agli schiavi cristiani i quali trovansi in questa condizione più fortunata, che devono trovare in ciò, non un motivo di rilassatezza nel dovere, ma dei motivi speciali di prestare un servizio più zelante e volonteroso. Dice lett. Li servano maggiormente, il che può tradursi "piuttosto", o meglio, come il Diodati, "molto più" "con vie maggior zelo". Il fatto che i loro padroni sono fedeli, ossia credenti in Cristo, e diletti cioè oggetto dell'amore, della dilezione di Dio che li ha adottati come suoi figli, ed anche dell'amore dei loro fratelli, deve spingere gli schiavi cristiani a servirli con tanto maggior devozione. Il servizio che si presta a una persona a noi unita dai legami del sangue si presta con animo più volonteroso; non si dovrà far lo stesso verso quelli che sono a noi uniti da un legame spirituale più profondo di quelli naturali? Non ha Gesù insegnato che servendo ai suoi, si serve a Lui? Se va servito un padrone idolatra e vizioso, non si dovrà servire molto più chi è credente e lotta contro il male? All'espressione che ricevono il beneficio (non: hanno ricevuto come il Diod.) sono stati dati varii sensi. Chi ha veduto nel beneficio significata la grazia di Dio di cui sono partecipi i padroni credenti, ma l'idea sarebbe espressa in modo molto vago e non conforme al linguaggio di Paolo. Chi traduce: "che prendono parte alla beneficenza" occupandosi di far del bene anche ai loro schiavi. Sono interpretazioni più o meno forzate. Più semplice e più confacente al contesto è il senso che risulta dalla versione che diamo, con parecchi moderni. Considerino gli schiavi cristiani che i padroni i quali ricevono il beneficio del loro servizio, che fruiscono del loro lavoro e delle loro cure, sono credenti nel Signor Gesù e oggetti dell'amor di Dio, e troveranno il loro servizio meno umiliante e più gradito.

AMMAESTRAMENTI

1. Le istituzioni, le leggi, i costumi che rappresentano gli amari e tristi frutti del peccato nell'umanità non mutano nè spariscono magicamente come per una raffica di vento che li spazzi nell'abisso. Essi mutano e spariscono a misura che la società ch'è quanto dire a misura che le menti, i cuori; le coscienze degli uomini che la compongono è compenetrata di principii e di sentimenti opposti a quelli da cui uscirono quelle istituzioni. Queste cadono allora come cadono i segni esterni d'un male quando è risanato il corpo. È in virtù di questa legge del progresso umano o meglio del regno di Dio, che la schiavitù si è mitigata ed è sparita dai paesi civili sotto l'antica sua forma. Il cristianesimo la scalzò coi principii di uguaglianza, di fratellanza e di amore che insegnò, coll'ideale di perfezione che fece splendere dinanzi alla coscienza, colla dimostrazione pratica che i cristiani diedero della dignità umana, delle infinite possibilità morali che anche l'anima d'un umile schiavo racchiude in sè e che lo Spirito feconda. Perciò Paolo inculca agli schiavi di glorificar Dio e di onorare il Vangelo nell'adempimento fedele e giulivo dei doveri della situazione in cui si trovano.

Con mezzi analoghi cadrà la guerra coi suoi gravosi armamenti e cadranno altre iniquità sociali. Coi mezzi odierni di propaganda dei principii, coi mezzi più diretti d'influire sulla preparazione e sulla promulgazione delle leggi, colla virtù dell'esempio dato dai credenti, è più rapida la maturazione dei frutti... a condizione però che i cuori si lascino rigenerare dallo Spirito di Cristo. Senza di ciò il male muterà forma, ma non muterà natura e i suoi frutti seguiteranno ad avvelenare la vita umana. Rigenerare la società rinnegando la potenza rinnovatrice del Vangelo di Cristo è vana pretesa di demagoghi.

2. Finchè durerà sulla terra la società umana esisteranno delle disuguaglianze derivanti da diversità di capacità naturali, di forze, di attitudini, di coltura, di attività e in una forma o nell'altra l'uomo presterà l'opera sua per l'uomo e sotto la direzione d'un altro uomo. Quindi l'ubbidienza, la sottomissione, il rispetto, la fedeltà, la rettitudine dei dipendenti saranno virtù sempre necessarie, al pari della giustizia, della bontà dei superiori. Quando regni la giustizia, quando sia rispettata la dignità della persona umana, quando non sia impedito lo sviluppo intellettuale, morale e spirituale dell'individuo, poco monta per la sua felicità che uno compia le funzioni del direttore o del subordinato.

3. È mirabile ed è benedetto il sursum corda che il Vangelo sussurra al cuore del cristiano anche quando si accinge a compiere i più umili doveri nella più umile delle condizioni. Al povero schiavo che serve dei padroni pagani, ei dice: Coraggio! Facendo il tuo dovere fedelmente, tu onori la dottrina che tu professi, tu impedisci che il mondo ne dica del male, tu sei un testimone della Verità. Allo schiavo che ha un padrone cristiano, il Vangelo mormora dolcemente: Non venir meno ai tuoi doveri verso lui; ricordati che servendolo tu fai del bene a un tuo fratello che Dio ama al par di te e che ha da glorificare anch'esso Iddio nella condizione in cui lo ha collocato la Provvidenza. Compiere così i doveri quotidiani considerandoli alla luce di Dio ed avendo il cuore volto a lui, è cosa che trasforma e nobilita la vita più oscura e i doveri più penosi alla carne.

3 

PARTE SESTA

ISTRUZIONE SULLE ASPIRAZIONI SANTE E CELESTI CHE DEVONO CARATTERIZZAR L'UOMO DI DIO DI FRONTE A QUELLE GUASTE E TERRENE DEI FALSI DOTTORI

1Timoteo 6:3-19.

La lettera dell'apostolo volge al suo termine; ma prima di chiuderla, egli ritorna all'argomento principale che gli ha fatto prender la penna, quello dei falsi dottori; il cui insegnamento egli nuovamente caratterizza come privo di sana verità evangelica, come pernicioso e terreno nella sua tendenza morale che, d'altronde, si rivela nel carattere stesso dei dottori. Di fronte alle brame interessate di costoro, Timoteo deve presentare il modello del vero uomo di Dio che, invece di mirare alla terra ed ai suoi beni, mira alla santità ed alla vita eterna, e cerca d'infondere nei suoi fratelli cotali elevate aspirazioni. Dopo quest'ultima istruzione ch'è, in pari tempo, un potente appello, la lettera si chiuderà con brevi parole.

Quest'ultima parte si può dividere in tre sezioni:

A) 1Timoteo 6:3-10. La tendenza malsana e terrena dell'insegnamento dei dottori d'Efeso.

B) 1Timoteo 6:11-16. Le sante e celesti aspirazioni che devono distinguer Timoteo come uomo di Dio.

C) 1Timoteo 6:17-19. Le norme di condotta ch'egli deve inculcare ai cristiani ricchi.

Sezione A. 1Timoteo 6:3-10. LA TENDENZA MALSANA E TERRENA DELL'INSEGNAMENTO DEI FALSI DOTTORI D'EFESO.

Ingegna queste cose ed esorta ad esse.

La raccomandazione si riferisce alle direzioni date rispetto agli schiavi, agli anziani, alle vedove nel precedente. Cfr. 1Timoteo 5:7; 4:11. Ma, siccome di fronte al sano insegnamento cristiano di Timoteo e dei suoi colleghi, sta quello che i dottori giudeo-gnostici, spacciano come conoscenza superiore, l'apostolo stima di dover dare ancora un avvertimento sulla tendenza morale perniciosa di quell'insegnamento e di coloro che lo danno.

Se alcuno da un insegnamento diverso e non aderisce alle sane parole del Signor nostro Gesù Cristo ed alla dottrina ch'è secondo pietà...

Paolo ha in mente quegli stessi di cui ha parlato 1Timoteo 1:3 come di gente occupata di miti, di genealogie, di questioni curiose e futili, che lascia nell'ombra l'essenziale, cioè la dispensazione salutare. Qui caratterizza il loro insegnamento come diverso per sostanza e per tendenza pratica da quello dato da Cristo e dai suoi apostoli. Il verbo προσερχεσθαι (aderire) significa propriamente venir verso, accostarsi, quindi aderire colla mente e col cuore, dare il proprio assenso ad una dottrina, ad un principio morale. Da esso viene il termine proselita che vale letteralmente uno ch'è venuto verso, che si è accostato ad una data fede. Le parole del Signor Gesù di cui era saturo l'insegnamento orale sono dette sane perchè vere e sante in sè e atte a dare sanità alle menti, ai cuori ed alle coscienze degli uomini. Però siccome Gesù non aveva potuto svolgere completamente la verità dinanzi ai suoi apostoli, e ad essi avea promesso lo Spirito di verità per condurli, Paolo accoppia alle parole di Gesù, la dottrina o l'insegnamento apostolico ch'è secondo pietà, cioè che armonizza colla pietà, che cammina di conserva con essa così da esserne inseparabile. In 1Timoteo 3:16 ha chiamato la verità evangelica "il mistero di pietà" perchè essa fa nascere, e nutre e consolida la pietà ch'è lo stato normale di sanità dell'essere morale. Cfr. Tito 1:1.

4 è gonfio [d'orgoglio]

1Timoteo 3:6 poichè considera quel che gli esce dal cervello come cosa superiore all'insegnamento del Cristo. Altri interpreta: è offuscato dall'orgoglio come da un fumo che lo avvolga.

non sapendo nulla

(cfr. 1Timoteo 1:7), nulla di ciò che importa all'uomo di sapere per la sua salvezza, non sa nulla in realtà, sebbene vanti una conoscenza superiore 1Timoteo 6:20; 1:7. "Dicendosi esser savi, son divenuti pazzi". "La follia di Dio è più savia degli uomini". Per conoscere come si deve la verità religiosa bisogna diventar fanciulli, umili e sinceri.

ma languendo intorno a questioni e dispute di parole.

Come il malato rifiuta i cibi ordinari e sani e cerca invece quelli che meno gli si confanno, così costoro invece di appetire il latte puro, spirituale, nutritivo della verità, hanno la malattia delle questioni curiose, delle dispute di parole o logomachie nelle quali non è in gioco nulla di sostanziale importanza. Intorno a queste cose si affaticano ed appassionano. La storia della Chiesa offre più d'un esempio di cotali dispute senza pratica; utilità, le quali hanno gettato discredito sulla teologia. "Queste futili e sterili controversie, nota Ellicot, degenerano in vere contese che danno origine a sentimenti cattivi espressi con parole acerbe". In 1Timoteo 1:4 Paolo ha detto che l'insegnamento dei dottori metteva innanzi "delle questioni curiose anzichè la dispensazione di Dio ch'è in fede"; qui dice di coteste questioni:

da cui nascono invidia, contesa, maldicenze, mali sospetti, continui conflitti di uomini corrotti di mente e privi della verità.

Nelle dispute di parole chi ottiene una vittoria apparente è invidiato da chi par che abbia la peggio. Ognuno cerca di far valere la propria opinione, di mettere avanti qualcosa di nuovo a propria gloria, e contende perchè non vuol cedere in nulla e dice del male degli avversarii e ne sospetta i motivi ed i fini.

5 La parola composta che rendiamo continui confitti ( διαπαρατριβαι) è sostituita nelle edizioni critiche a quella del testo ordinario che significa "vane dispute". L'immagine che sta alla base della parola è quella dell'attrito di due corpi, per cui al morale, viene a designare gli attriti, i conflitti sempre rinascenti ( δια) fra gente di mente corrotta. La mente ( νους) è la facoltà per cui l'uomo conosce e comprende e giudica le cose. Trattandosi di verità morali e religiose, la mente richiede, per intenderle e apprezzarle, il concorso delle disposizioni morali senza le quali non è possibile una vera conoscenza di cotali verità. Quindi è che, ove manca la interna rettitudine, l'onesta disposizione a sottomettersi alla verità conosciuta, qualunque sia il sacrifizio che ciò possa costare, ivi la mente è corrotta (Cfr. 2Timoteo 3:8), non funziona normalmente, non è in grado di afferrare la verità. Avviene di conseguenza che cotali sono privi della verità perchè "resistono ad essa", "volgono gli orecchi lungi dalla verità" 2Timoteo 3:8; 4:4; Tito 1:14. preferendo dare ascolto ai miti. Il paganesimo, come Paolo espone in Romani 1:18 e segg., è giunto alle sue aberrazioni religiose e morali per non aver dato retta alla verità conosciuta.

i quali considerano la pietà come un guadagno

cioè come una fonte di lucro materiale. Incapaci come sono di apprezzar le cose spirituali, di elevarsi alla vita dello spirito, essi non vedono nella religione la soddisfazione delle più alte aspirazioni dell'uomo, ma una scuola filosofica, un nuovo campo aperto alla giostra delle opinioni, e quindi una professione lucrosa per chi si diletta nelle dispute. In Tito 1:11 Paolo denunzia coloro "che insegnano quel che non si deve per un turpe guadagno"; in 2Corinzi 11:26 parla di dottori che "divorano, che prendono", ed altrove di gente che "non serve a Cristo ma al proprio ventre" Romani 16:18. "il cui dio è il ventre e la cui gloria è in ciò ch'è la lor vergogna" Filippesi 3:19. È da notare solo come curiosità la versione siriaca seguita dal Bruccioli e dall'inglese: stimando il guadagno esser pietà". L'aggiunta del testo ord. "ritratti da tali" manca in tutti i Msc antichi ed è ritenuta inautentica. Chi considera la pietà come mezzo di lucro erra grossolanamente; ma ciò non vuol dire che la pietà non sia in un senso più vero e più alto, un prezioso guadagno.

6 Ed è invero un grande guadagno la pietà quando sia accompagnata dal sapersi contentare.

È un guadagno grande perchè ha le promesse non solo della vita avvenire, ma di quella presente 1Timoteo 4:8 ch'ella arricchisce di pace, di forza spirituale, di amore, di consolazione e di speranza. Ma la pietà non comunica questi suoi tesori se non ai cuori integri, sgombri di cupidigie terrene, e in ispecie dall'amor delle ricchezze. Paolo si serve qui di una parola che non è facile rendere senza una circonlocuzione. Autárkeia ( αυταρκεια) è lo stato di chi basta a se stesso. Significa quindi la sufficienza dei beni necessarii a soddisfare i bisogni della vita 2Corinzi 9:8; ma significa pure lo stato d'animo di chi sa contentarsi della propria sorte. In quel senso Paolo dice ai Filippesi 4:11. "Io ho imparato, ad essere contento (autárkes) dello stato in cui mi trovo". La disposizione ad esser contenti del proprio stato è lodata dai moralisti pagani ed esisterà talvolta senza la pietà; ma la pietà genuina e profonda dovrà essere sempre accompagnata da contentezza d'animo, poichè il sapere che il Padre celeste conosce i bisogni dei suoi figli e provvede ad essi secondo l'amore suo sapiente è la maggior sorgente di contentezza Matteo 6:25-34. "Gettate su lui, dice Pietro, ogni sollecitudine poichè egli ha cura di voi 1Pietro 5:7; cfr. Ebrei 13:5-6. E d'altronde i beni terreni non possono costituire il vero tesoro dell'uomo, poichè non servono che alla vita passeggera di quaggiù.

7 Difatti noi non abbiamo portato nulla nel mondo, perchè neppure ne possiamo portar fuori nulla.

L'anima separata dal corpo non porta seco, uscendo della vita terrena alcuno dei beni materiali che hanno servito ai bisogni della vita nel corpo. Quei beni restano indietro e passano ad altri. Secondo il testo ordinario si avrebbe a leggere "ed è manifesto che non possiamo..." Il testo emendato che poggia sui più antichi Msc e sulle versioni orientali legge invece perché non... Il fatto manifesto che non possiamo portar nella vita oltremondana alcun bene materiale è la ragione per cui non ne rechiamo alcuno con noi quando entriamo nella vita di questo mondo terreno. La loro utilità comincia alla culla e finisce alla tomba; essa è tutta ristretta negli angusti limiti della vita nel corpo. Ora, per chi crede che l'uomo porta seco, entrando nel mondo, dei bisogni spirituali ed eterni, e che l'esistenza terrena non è se non il vestibolo dell'eternità, è manifesto che i beni terreni sono cosa transitoria e secondaria il cui possesso non costituisce un tesoro permanente. "Che gioverà egli all'uomo d'aver guadagnato il mondo intero se perde l'anima sua? o che darà l'uomo in cambio dell'anima sua?" Matteo 16:26. "Se anche i beni abbondano ad alcuno, la sua vita non gli viene però dai suoi beni" Luca 12:15. Se dunque mentre attraversiamo l'esistenza terrena, abbiamo quel tanto di beni materiali che basti a soddisfare i nostri bisogni reali, abbiamo ragione d'essere contenti del nostro stato. La contentezza d'animo oltre all'essere una pia accettazione delle disposizioni provvidenziali è anche la sola attitudine ragionevole di fronte a quel ch'è provvisorio.

8 Ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di ciò contenti.

Letteralm. avendo cibi e vestiti. Il greco διατροφαι (cibi) accenna alla varietà ed al diuturno bisogno di cibi finchè dura la vita terrena. "Dacci a sufficienza il nostro pane di ogni giorno" Luca 11:3. "Non darmi nè povertà nè ricchezza", è la preghiera di Agur, "nutrimi col pane che mi è necessario" Proverbi 30:8.

9 Come contrasto alla pia contentezza di chi è pago delle cose necessarie alla vita terrena, l'apostolo descrive i pericoli ed i guai d'ogni genere cui vanno incontro coloro che sono dominati dalla passione di arricchire, dall'amor del denaro.

Ma coloro che vogliono arricchire, cadono in tentazione ed in laccio ed in molte concupiscenze insensate e nocive le quali affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione.

Il vogliono ( βουλομενοι) esprime il proposito, la risoluzione di arricchire, senza darsi pensiero dei pericoli morali cui vanno incontro Cadono in tentazione necessariamente, vi si cacciano dentro, mentre il Signore, conoscendo la debolezza umana, ha insegnato ai suoi discepoli a pregare: "Non portarci nella tentazione", ossia in situazioni ove correremmo pericolo d'esser sopraffatti dal male. Chi vuole ad ogni costo arricchire si espone alla tentazione di usare menzogne, frodi ed ingiustizie per accrescere i suoi guadagni; è tentato di rinnegare la sua fede, di porre il suo tesoro nei beni terreni ecc. La multiforme tentazione in cui cade è raffigurata poi come un laccio che gli è teso e nel quale incappa. Sebbene l'aggiunta che si legge a mo' di chiosa in alcuni codici: "laccio del diavolo" non sia da ritenersi autentica, essa esprime però un pensiero giusto poichè il cacciatore che tende il laccio davanti alle anime per farne sua preda è il gran nemico di esse. Oltre a ciò, la passione delle ricchezze trae seco un corteo di concupiscenze. La ricchezza infatti si appetisce perchè è il mezzo necessario di appagare altre brame e queste sono molte, perchè crescono col crescer della ricchezza, insensate perchè non si possono giustificare colle ragioni del buon senso, e nocive perchè sono perniciose al corpo e all'anima.

Chi pensi alle raffinatezze del mangiare e del vestire, alla smania dei titoli, a tutte le forme del lusso e della vanità, alla sete di divertimenti e di piaceri di cui dànno spettacolo tanti ricchi, troverà sobrio il linguaggio dell'apostolo. Ma il peggior danno però delle cupidigie che pullulano coll'aumentare della ricchezza non sta nell'offesa recata alle leggi della salute fisica ed a quelle della sana ragione, ma sta nell'offesa recata alla vita spirituale. Lungi dal favorirne lo sviluppo, esse "guerreggiano contro all'anima" assorbendo le sue energie nelle cose carnali e mondane e, per tal modo, gettano gli uomini nell'abisso ( βυθιζουσιν) della ruina e della perdizione. Nell'originale questi ultimi termini derivano ambedue dallo stesso verbo ( ολλυμι) che si applica nel N.T. così alla perdita di beni materiali Matteo 9:17, come a quella della vita del corpo e della vita superiore. I sostantivi si applicano del pari a rovina o perdita di cose materiali Matteo 26:8, della vita corporale 1Corinzi 5:5, e della vita eterna 2Tessalonicesi 1:9;2:3; Atti 8:20; Filippesi 3:19. L'uso delle due parole qui serve a caratterizzare come per ogni verso completa e definitiva la rovina in cui precipitano coloro che si lasciano prendere nel vortice delle concupiscenze mondane.

10 Se Paolo parla a quel modo dei pericoli gravi in cui incorrono coloro che hanno la passione delle ricchezze, gli è perchè i fatti della sua vasta esperienza ve lo autorizzano.

Infatti, radice di tutti i mali è l'amor del denaro.

La filarguria (amor del denaro o avarizia) include l'amor del denaro di chi brama acquistarne sempre più, come di chi conserva ad ogni costo quel ch'egli ha. L'assioma morale qui enunziato va inteso in senso relativo e in armonia col contesto. L'amor del denaro non è l'unica sorgente o radice da cui pullulino dei mali, ma è madre feconda di tentazioni, di concupiscenze di ogni sorta, di peccati e delitti, di rovine temporali e morali, di danni presenti e futuri. Gli esempi anche di cristiani che l'apostolo ha dinanzi alla mente confermano la massima dedotta dall'esperienza universale;

del quale (amore) essendo alcuni accesi si sono sviati lungi dalla fede e si sono trafitti di molti dolori.

Il verbo che rendiamo accesi contiene l'immagine dello stender le braccia verso un oggetto per appetirlo ed esprime l'idea di un desiderio ch'è diventato la passione dominante del cuore. Le conseguenze di siffatta passione tollerata dai cristiani cui allude Paolo, sono state disastrose. Si sono sviati dalla sana fede cristiana ch'era incompatibile colla loro passione e si sono dati all'errore. Non solo questo, ma per via dei rimorsi della loro coscienza, per le ansietà tormentose, per i crudeli disinganni, per tutti gli strazii inseparabili dalla loro passione hanno trafitto se stessi di molti dolori. Questi dolori materiali e morali sono assomigliati a spade o spine acute che trapassano loro l'anima da tutte le parti.

AMMAESTRAMENTI

1. La verità cristiana ha questi due caratteri:

a) è stata insegnata da Cristo e dai suoi apostoli;

b) essa crea e nutre una genuina e spirituale pietà. Le dottrine che portano l'etichetta cristiana vanno tutte saggiate con quella duplice pietra di paragone e quel che è spurio va relegato tra le scorie umane.

2. Il quadro che Paolo traccia dei dottori eterodossi di Efeso conferma l'osservazione già più d'una volta accennata che l'errore religioso non è mai solo, non è mai errore meramente intellettuale, ma va unito al traviamento morale: ne trae origine e a sua volta lo genera o per lo meno l'accresce. La vita dell'uomo interno è un tutto, un organismo vitale le cui parti non sono indipendenti l'una dall'altra, ma agiscono necessariamente l'una sull'altra e la verità religiosa interessa tutto l'uomo.

Mentre Gesù inculca la necessità dell'umiltà per i suoi discepoli e gli umili s'inchinano dinanzi alla sua perfezione morale, dinanzi alla sua sapienza e autorità divine ed esclamano: "Tu hai parole di vita eterna" - l'orgoglio umano pretende sostituire le proprie elucubrazioni alla rivelazione di Colui ch'è la luce del mondo. Con quali risultati è facile vederlo. Nonostante le sue millanterie, "non sa nulla", e una parola del Cristo contiene più sostanza di verità religiosa e morale di tutte le disquisizioni dell'uomo gonfio della sua scienza.

Mentre Gesù mira a destare la coscienza, a rinnovare il cuore, a educare i suoi discepoli alla pietà pratica che si compendia nell'amor di Dio e del prossimo, mentre gli apostoli insegnano la "dottrina ch'è secondo pietà" ed è pratica la loro religione, i dottori eterodossi hanno la malattia delle questioni e delle dispute di parole. Per loro la religione si riduce a delle questioni religiose intorno cui discutere e battagliare e far pompa del loro acume critico e della loro dialettica. La tendenza a far della religione una questione intellettuale od ancora un vaporoso ed inefficace sentimento, invece di farne una questione di coscienza e di vita, è tendenza di tutti i tempi contro alla quale dobbiam lottare ciascuno per conto proprio.

Mentre la norma fondamentale della vita cristiana è l'amore che s'ispira al sacrificio di Cristo, e che crea delle vite come quelle d'un Paolo o d'un Timoteo, i dottori eterodossi che falsano la natura del cristianesimo trasformandolo in giostre di logomachie, ne degradano per altro verso il fine santo e sublime quando ne fanno un mezzo di guadagnar denaro o di acquistare onori terreni, o di esercitare un dominio sui loro simili. Anche senza far mercato di atti religiosi e di indulgenze e di messe ecc., si degrada la religione quando la si fa servire a fini mondani ed egoisti.

3. Non sempre la pietà va unita colla moderazione nei desideri e colla, disposizione a contentarsi dello stato in cui uno si trova. Ma il contentamento d'animo dovrebbe essere uno dei distintivi dell'uomo pio poichè egli sa che Dio gli è Padre e conosce tutto ciò di cui egli abbisogna; egli sa che Dio dispone tutte le cose per il bene dei suoi figli con infinita saviezza; egli sa che i beni di quaggiù non servono che alla vita terrena e neppure ne possono assicurare la durata e la felicità; egli sa che dove abbondano i beni è di tanto maggiore la responsabilità.

Quando la pietà va unita al sapersi contentare del necessario, essa costituisce per l'uomo un gran guadagno - non materiale ma morale; dispone l'animo alla riconoscenza verso Dio per il pane quotidiano, il vestito e il tetto ch'Egli concede, per il lavoro ch'egli procura, per la salute ch'egli conserva, per le stagioni fruttifere che manda; contribuisce a mantener il cuore in pace, fiducioso in Dio. Vi sono a migliaia delle vite soleggiate e fidenti di cristiani a cui non abbondano i beni. Ed il maggior guadagno di una tale pietà sta nell'esser tenuta a riparo da una moltitudine di tentazioni e pericoli che ne potrebbero arrestare lo sviluppo e spegnere perfino la esistenza.

Basta infatti osservare quel che succede a chi si lascia dominare dall'avidità del guadagno. Dal lato spirituale cadono in molte tentazioni, aprono l'adito a nuove e crescenti cupidigie, si atrofizza la coscienza, si sviano gradatamente dalla fede, si affievolisce e spegne la vita superiore in loro e scendono verso l'abisso tenebroso di una esistenza senza Dio e senza speranza. Ed anche dal lato terreno si gettano in un turbinio di agitazioni, di tormenti, di crucci, di amarezze che mal compensano la soddisfazione e la gloria del posseder molte ricchezze.

11 Sezione B. 1Timoteo 6:11-16. LE SANTE E CELESTI ASPIRAZIONI CHE DEVONO DISTINGUER TIMOTEO COME UOMO DI DIO.

Ma tu, o uomo di Dio, fuggi queste cose.

Ogni credente è uomo di Dio in quanto che, redento da Cristo egli appartiene a Dio ed è "nato da Dio". In 2Timoteo 3:17 "l'uomo di Dio preparato ad ogni buona opera" può designare semplicemente il cristiano. Ma Timoteo è chiamato ad esser uomo di Dio in senso speciale perchè tutta la sua vita dev'essere spesa al servizio diretto dell'opera di Dio nel mondo. Così nel mezzo d'Israele ch'era il popolo di Dio, i profeti erano chiamati in modo speciale gli "uomini di Dio" Deuteronomio 33:1; 1Samuele 9:6; 2Pietro 1:21. Il ma tu è fortemente avversativo. All'opposto degli nomini di cui ha descritto le aspirazioni terrene, degli uomini del denaro, delle dispute vane, della malsana dottrina, Timoteo ch'è chiamato ad essere collaboratore di Dio deve informare la sua vita a moventi ben diversi e tendere ad un ideale più elevato. Le cose ch'egli deve fuggire sono l'avarizia e le cupidigie ch'ella fomenta, ed in genere le disposizioni malsane di cui ha toccato nei versetti 1Timoteo 6:3-10 come caratterizzanti i falsi dottori.

e procaccia invece giustizia, pietà, fede, amore, pazienza, mansuetudine.

Queste virtù sono il tesoro al cui acquisto ed accrescimento, Timoteo deve volgere l'energia, lo sforzo perseverante che altri consacra a cose men degne. Sono distribuite in modo da formar tre paia. Le due prime abbracciano l'insieme dei doveri umani. La giustizia morale è la conformità al volere di Dio specialmente per quanto concerne i nostri simili. La pietà ch'è inseparabile dalla giustizia comprende i sentimenti e la condotta dell'uomo verso Dio. Fede e amore sono le fonti da cui fluisce la vita cristiana. La fede riceve la grazia divina e unisce l'uomo a Dio. Per essa è rinnovato il cuore e riempito d'amore per Dio e per il prossimo. Nell'amore è l'adempimento della legge. La pazienza o perduranza e la mansuetudine sono le disposizioni che devono animare il cristiano di fronte agli avversarii, ai malevoli e persecutori.

12 Gareggia nella buona gara della fede.

L'apostolo usa qui una delle sue immagini predilette: quella delle gare atletiche tanto celebri in Grecia (Cfr. 1Timoteo 4:10; 1Corinzi 9:24-27; Filippesi 1:27,30; 2Timoteo 4:7). Diodati ha: "Combatti il buon combattimento"; ma quelle parole destano nella mente immagini guerresche estranee al nostro passo. Si potrebbe rendere: "Sostieni la buona lotta... "ma la lotta era solo una delle gare in cui si cimentavano gli atleti. La gara è buona perchè è la più nobile, la più giusta e la più utile che sia dato all'uomo di sostenere. È gara della fede, cioè non per la difesa della fede considerata obiettivamente; ma piuttosto gara propria della fede, ossia dei credenti, gara che ha per ragione ultima la fede e per arma la fede, lotta che si combatte perchè si crede, e credendo, e per entrare nel pieno possesso di ciò ch'è oggetto della fede. In 1Timoteo 4:10 diceva: "lottiamo perchè abbiamo sperato nel Dio vivente...'. Se la fede in Cristo fosse cosa vana, questo gareggiare che implica disciplina severa su di sè, rinunziamenti, fatiche e sofferenze in vista di un dato fine, non avrebbe ragione d'essere e "saremmo i più miserabili degli uomini" 1Corinzi 15:19.

afferra la vita eterna.

L'espressione si spiega bene quando la si connetta colla figura delle gare. La vita eterna nella sua finale perfezione e gloria è rappresentata come il premio riportato dal vincitore al termine del suo strenuo lottare. Si potrebbe quindi parafrasare: fa' di conseguire il premio della vita eterna. In senso analogo Gesù avea detto Matteo 19:29. "Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle... per cagion del mio nome ne riceverà molte volte tanto ed crederà la vita eterna". Ciò non contraddice alla dottrina della gratuità della salvazione insegnata da Paolo, ma pone in rilievo la natura della fede per la quale ci appropriamo il dono di Dio. Essa è l'atto morale più profondo, più decisivo, più fecondo di energie vitali nella esistenza dell'uomo. Per essa, ricevendo da Dio la salvezza, il credente rinunzia all'orgoglio ed alla volontà propria, accetta il corso che Dio gli traccia quaggiù e riesce vincitore del mondo e del peccato. Lasciando cader l'immagine della gara, Paolo aggiunge:

alla quale sei stato chiamato,

s'intende da Dio mediante l'Evangelo

e [ne] hai fatto la bella professione in presenza di molti testimoni.

A quale fatto l'apostolo vuol egli alludere? C'è chi pensa alla quotidiana professione del Vangelo fatta da Timoteo colla parola e colle opere; altri pensa ad una coraggiosa confessione della sua fede davanti alle autorità pagane in qualche circostanza a noi ignota, ed altri ancora alla di lui consacrazione al ministerio. È più semplice il veder qui ricordata la pubblica professione della propria fede fatta dal giovane Timoteo quando aveva ricevuto il battesimo cristiano in Listra ed era entrato risolutamente nell'arringo. È chiamata la bella professione perchè è moralmente grande e nobile lo spettacolo di un'anima che rinunzia all'errore ed al male per darsi a Cristo. Gli angeli ne hanno allegrezza in cielo. L'evocare il ricordo dei primordii della sua carriera cristiana poteva servire di eccitamento a proseguire con ardore fino alla fine.

13 Col 1Timoteo 6:13 l'esortazione si trasforma in ingiunzione solenne fatta alla presenza di Dio e di Cristo a perseverar santamente nel dovere che Timoteo ha come cristiano e come ministro del Vangelo.

Io t'ingiungo nel cospetto di Dio che fa vivere tutte le cose.

Il testo emendato porta qui il verbo ζωογονειν che letteralmente vale "partorir vivo", quindi anche far vivere, mantenere in vita. Così Luca 17:33: "...Chi perderà [la sua vita] la conserverà viva". Ripetutamente nella LXX (Esodo 1:17-22) è usato a significare la conservazione in vita dei fanciulli israeliti. Cfr. Giudici 8:19 LXX. C'è nel pensiero del Dio vivente, ch'è la fonte ed il conservatore della vita in tutte le creature dell'universo, in cui noi stessi "viviamo e ci moviamo e siamo" Atti 17:25-28, che crea la vita spirituale e ne assicura nei suoi figli, la perfezione e l'eternità, c'è un potente incentivo ad essergli ubbidienti e fedeli. Non è quindi necessario vedere in queste parole uno speciale accenno al potere che Dio ha di proteggere nei pericoli estremi ed anche di risuscitare i morti.

e di Cristo Gesù che fece la [sua] nobile confessione testimoniando dinanzi a Ponzio Pilato:

Gesù comparve una sola volta davanti al governatore romano Ponzio Pilato quando cioè vi fu condotto, la mattina stessa del suo supplizio, dal Sinedrio che voleva ottenere la conferma della sentenza di morte pronunziata poc'anzi contro di lui. Il fatto è narrato in Matteo 27:11 e seguenti e Giovanni 18:28-19:16. In risposta alle domande di Pilato, Gesù si professò Re ma di un regno che non è di natura terrena, ma sibbene spirituale. "Son venuto nel mondo per render testimonianza alla verità. Chi è per la verità ascolta la mia voce". È questa la bella professione o confessione ricordata da Paolo onde incuorare il giovane e un po' timido Timoteo a imitare l'esempio del "fedel Testimone", non solo nel difendere la verità contro l'errore, ma anche quando fosse chiamato a confessarla davanti alle autorità pagane e a costo della propria vita.

14 T'ingiungo... che tu osservi il comandamento [che ti do, mantenendoti] immacolato ed irreprensibile.

Il testo parla di osservare il comandamento senza dire altrimenti di che si tratta; per cui gli uni l'hanno inteso del comandamento di fuggire l'avarizia; ma sarebbe cosa troppo speciale e non richiederebbe la gran solennità usata qui dall'apostolo. Altri lo hanno inteso in senso generico dell'intera morale evangelica considerata come comandamento del Nuovo Patto; ma Paolo non adopera altrove una locuzione tanto concisa per significare tutti i doveri del cristiano. Meglio intenderlo delle ingiunzioni date a Timoteo nell'Epistola e riassunte in 1Timoteo 6:11-12. Viene a dire quindi: "questi miei ordini apostolici" ovvero "il com. che ti do". Diod. questo comand. Gli aggettivi che seguono sono connessi da alcuni interpreti con "il comandamento", ma il N.T. li applica sempre alle persone e d'altronde un comandamento giusto non si potrebbe dire che cessi d'essere "immacolato ed irreprensibile" quando non venga osservato. È Timoteo che deve osservare le prescrizioni comunicategli mantenendosi nel carattere e nella condotta immacolato ed irreprensibile come servo di Cristo. E ciò

fino all'apparizione del signor nostro Gesù Cristo la quale a suo tempo sarà prodotta alla luce dal beato e solo sovrano.

La seconda venuta del Signore, connessa col giudizio finale, segna il termine della storia per il mondo attuale e per la Chiesa nel suo stato imperfetto. Essa è chiamata di solito la sua parusia i. e. l'atto col quale si renderà visibilmente presente (Matteo 24:3; 1Tessalonicesi 2:19 ecc.); è chiamata pure l'apocalissi ossia rivelazione dei Signore 1Corin z i 1:7 perchè sarà allora rimosso il velo che ora nasconde ai fedeli ed al mondo la gloria di lui. Qui è descritta come una epifania cioè una apparizione o manifestazione piena e subitanea del Signore. In 2Tessalonicesi 2:8 Paolo la chiama "l'epifania della sua venuta" ed in Tito 2:13 "l'apparizione della gloria del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo". Cfr. 2Timoteo 4:1,8.

15 Il testo dice lett. in forma attiva: "la quale, ai suoi propri tempi, mostrerà il solo sovrano". Per evitare un equivoco che non esiste nel greco, traduciamo in forma passiva: sarà prodotta in luce, poichè chi mostra è Dio e quel ch'egli produce in luce è l'apparizione di Gesù. "Il fatto, la certezza della venuta del Signore, a suo tempo, è una verità assoluta sulla quale l'apostolo parla coll'autorità dello Spirito; ma l'ora ed il giorno, erano a lui nascosti come lo sono a noi. Da passi come questo vediamo come l'età apostolica mantenne l'attitudine che dovrebbe esser quella di tutte le età, cioè di una costante aspettazione del ritorno del Signore" (Alford). L'espressione a suo tempo che vale: nell'epoca e nel momento a ciò riservati ed opportuni ( καιροι) non contiene traccia di febbrile impazienza; anzi lascia piuttosto supporre che, a quel tempo, Paolo non aspettava più di veder personalmente il ritorno di Cristo.

Nel contemplare in ispirito l'apparizione del Signore che segnerà lo stadio finale nel compimento del disegno di Dio, stadio di cui Egli conosce ed ha fissato il tempo, Paolo è condotto ad enumerare con sentimenti di adorazione alcune delle perfezioni di Dio che sono indubbiamente connesse, nella sua mente, colla gloriosa Epifania del Salvatore. Mentova anzitutto la sua assoluta sovranità. Dio è il beato e solo sovrano dell'universo; beato perchè è santità ed amore ed esercita la sua sovranità per il maggior bene delle sue creature con sapienza perfetta; solo perchè è al disopra di tutto e di tutti e da lui emana, in ultima analisi, l'autorità che le creature esercitano le une sulle altre, entro determinati limiti. Egli resta

il re di quelli che regnano e il signore di coloro che signoreggiano.

Perciò sarà rotta l'opposizione di tutte le potenze mondane al regno del Cristo. Cfr. Salmo 2; Daniele 2; Apocalisse 19:16.

16 Il quale solo possiede l'immortalità

essendo per l'essenza sua immutabile ed incorruttibile 1Timoteo 6:17. Le creature possono avere l'immortalità solo per volontà e per comunicazione divina. Mentre sulla terra passano le generazioni umane e tramonta la breve gloria dei potenti, Dio resta l'Eterno e conduce a compimento i suoi disegni; e chi è unito a Lui nel Cristo mediatore della Vita, possederà la vita eterna ed avrà parte alla gloriosa risurrezione e trionferà della morte 1Corinzi 15; Apocalisse 21:4. Nella "apparizione del Salvatore nostro Gesù Cristo" intesa nel senso più largo ed includente la sua prima Epifania in carne insieme con la sua apparizione nella gloria (cfr. 2Timoteo 1:10). Dio ch'è per natura invisibile si è rivelato, si è in certo modo reso visibile nel Figlio ch'è "l'immagine del Dio invisibile" "l'impronta della di lui essenza", il mediatore della grazia e della verità. In Lui contempliamo il Padre per quanto è dato ad una creatura finita di contemplarlo, poichè egli rimane l'Iddio infinito ed inscrutabile

che abita una luce inaccessibile, il quale niuno fra gli uomini ha veduto nè può vedere.

Luce è simbolo di santità, di verità, di gloria. Perciò 1Giovanni 1:5 si dice che "Dio è luce" e 2Corinzi 11:4 gli angeli santi sono chiamati "angeli di luce". Come l'occhio fisico non può fissare lo splendore del sole, la mente non può investigare a fondo l'infinita essenza e le perfezioni di Dio Giovanni 1:18; 1Giovanni 4:12.

La breve dossologia si chiude colle parole:

al quale sia reso onore e sia riconosciuta potenza eterna. Amen.

Cfr. Apocalisse 4:11; 5:13.

AMMAESTRAMENTI

1. Uomo di Dio! È parola che dovrebbe risuonar sempre all'orecchio del ministro del Vangelo. Essa gli ridice che Dio lo chiama all'alto onore, alla sublime missione d'essere strumento, collaboratore suo nell'estendere fra gli uomini i beneficii della salvazione. Ma gli ridice in pari tempo che noblesse oblige e che l'uomo di Dio non può esser l'uomo del denaro, delle cupidigie, delle ambizioni e vanità mondane. "Fuggi queste cose!" Gli ridice quali sono le virtù di pietà verso Dio, di giustizia verso gli uomini, ch'egli deve procacciare, quali i sentimenti elevati, quali le disposizioni mansuete in cui deve svolgersi la sua vita. Tenga ogni ministro quell'ideale dinanzi a sè, e gioverà più alla causa di Dio che non colle più sottili distinzioni teologiche o con le più brillanti controversie.

2. La carriera dell'uomo di Dio è assomigliata ad una gara, ad una lotta sostenuta in vista d'un gran premio: il possesso della vita eterna. Paolo ricorda al suo discepolo il tempo in cui giovane Giudeo di Listra, egli era stato "chiamato" alla vita eterna dall'annunzio del Vangelo, e gli ricorda l'entusiasmo del suo primo amore, il coraggio con cui aveva allora professata pubblicamente la fede e più tardi, alla sua consacrazione dichiarato di volerne essere il banditore. In seguito erano venute esperienze più dolorose, avea dovuto provare la propria debolezza di fronte alle fatiche, ai rinunziamenti impostigli, di fronte alle lotte contro al male, contro al mondo e contro al maligno. Le difficoltà crescevano e Paolo l'incoraggia a proseguire la lotta fino alla fine. "Sostieni la buona lotta della fede, afferra il premio della vita eterna".

Tutti i credenti hanno bisogno di simili eccitamenti perchè mentre è di consueto bella, entusiastica la partenza, ed ai catecumeni par cosa facile il superare ostacoli e nemici, molti si stancano presto, rallentano la vigilanza e gli sforzi, diventano fiacchi e sfiduciati, indietreggiano e sono ripresi dal mondo. È necessario che altri li rianimi e li incuori a perseveranza; è utile rievocare dinanzi a loro i tempi del primo amore, delle sante promesse; è cosa buona l'additar loro di nuovo la vita eterna come il premio assicurato loro dall'opera di Cristo, ma legato alla condizione della loro fede perseverante.

3. Un antico espositore scrive: "Oh potessimo collocarci spesso come in presenza del grande e benedetto Iddio che da la vita a tutte le cose... e del Signor Gesù Cristo che giudicherà i vivi ed i morti! Possa il pensiero di una presenza tanto augusta destare le anime nostre a maggior diligenza nell'adempiere ai nostri doveri e riempirci di maggior coraggio nel professare francamente la nostra fede, senza esserne distolti da guai nè da pericoli".

La vita cristiana è ruscello che sgorga da fonte non terrena ma celeste; i moventi a cui ella si ispira sono in Dio com'è da Dio la sua norma suprema. - V'è infatti nel pensiero del Cristo che dinanzi a Pilato confessò la verità un esempio sublime per il discepolo chiamato a confessar la sua fede dinanzi al mondo, come v'è nel pensiero della sua esaltazione sul trono regale e della sua futura apparizione in gloria per coronare i suoi un potente incoraggiamento a perseverar fino alla fine. - V'è in ogni perfezione di Dio un incentivo ad osservare la sua volontà in modo irreprensibile. Egli è la fonte della vita per tutte le creature, in lui ci moviamo e siamo, la vita nostra individuale gli appartiene ed egli la può conservare in ogni pericolo; Egli è il solo vero sovrano che domina su tutte le potestà terrene e celesti avverse al suo regno e le sa e può infrenare e infrangere; chi lotta al suo servizio e per la sua causa lotta per una causa che non può esser vinta. Egli è l'Iddio solo immortale, l'Iddio santissimo, l'Iddio invisibile ed incomprensibile; qual meraviglia se noi creature imperfette e limitate non possiamo ora scrutare e comprendere tutti i misteri della verità e tutta la sapienza dei suoi disegni? Verrà il giorno della piena luce in cui lo conosceremo più appieno e lo glorificheremo; ora è il tempo di camminar nell'ubbidienza e nella fede in Lui.

17 Sezione C. 1Timoteo 6:17-19. LE NORME DI CONDOTTA DA INCULCARE AI RICCHI.

Di fronte alle tendenze terrene dei falsi dottori e dei lor seguaci, Timoteo deve mostrare nella sua vita le sante e celesti aspirazioni che si convengono all'uomo di Dio il quale mira ai beni veri ed eterni. Ma codeste disposizioni deve aver cura di inculcarle anche ai fedeli d'Efeso e particolarmente a quelli che sono in maggior pericolo di affezionarsi alle cose periture, cioè ai ricchi. Il pensiero svolto in 1Timoteo 6:17-19 si riconnette dunque senza difficoltà con quelli svolti nelle due sezioni precedenti: 1Timoteo 6:3-10;11-16, nè vi è bisogno di ricorrere all'ipotesi dei frammenti cuciti insieme alla meglio (Knoke). Si è trovato strano (De Wette) che vi fossero dei cristiani ricchi in Efeso, mentre si sa che le chiese primitive erano composte di poveri. Paolo però non dice se fossero molti o pochi nella numerosa chiesa di Efeso. Del resto anche dei cristiani di Corinto dice semplicemente che fra loro non erano "molti i potenti, non molti i nobili"; nè la chiesa di Gerusalemme sarebbe stata ridotta povera se la persecuzione non l'avesse dispersa e se chi possedeva non si fosse disfatto dei proprii beni sotto l'impulso di un amore grande sì ma non disciplinato dalla saviezza. Abbiamo d'altronde ammesso che l'Epistola ci porta in epoca posteriore al 63.

I ricchi devono essere posti in guardia contro un duplice pericolo cui li espone il possesso di beni terreni 1Timoteo 6:17 e devono essere istruiti dell'uso cristiano da farsi di questi beni 1Timoteo 6:18. Così soltanto potranno far servire alla loro eterna felicità ciò che di sua natura è incerto e perituro 1Timoteo 6:19.

Ai ricchi nel presente secolo, ingiungi che non sieno d'animo altiero.

È questo il primo pericolo. Il possesso di beni ereditati dagli antenati od acquistati colla propria industria espone l'uomo ad insuperbire di fronte ai suoi simili più poveri o meno privilegiati, e nutrire idee e sentimenti ( φρονειν) altieri, quasichè ogni cosa che abbiamo e che siamo non fosse dono di Dio e non traesse con sè la sua responsabilità.

Nè pongano in loro speranza nell'incertezza delle ricchezze.

Ecco il secondo pericolo accennato con espressione paradossale intesa a mostrare quanto inseparabile sia incertezza dai beni terreni che oggi son nostri e domani spariscono per uno di quei tanti casi che si vedono quotidianamente. È follia fondare speranze di vita, di pace, di felicità, sopra ciò ch'è terreno e tanto incerto. Gesù lo mette in rilievo nella parabola del ricco stolto Luca 12:16-21.

bensì in Dio che ci fornisce ogni cosa copiosamente perchè ne godiamo.

L'epiteto vivente manca negli antichi Msc. Anche per chi possiede molti beni, è questa la sola speranza ben fondata poiché Dio è il vero padrone e dispensatore di tutti i beni; e li provvede con grande varietà e larghezza non perchè l'uomo li sprezzi, o li accumuli avaramente per farsene un idolo, o li scialacqui nel lusso e nella follia, ma ne goda con allegrezza e riconoscenza.

18 Dai pericoli che i ricchi devono scansare, Paolo passa ai doveri che vanno connessi colle ricchezze. Queste non sono, in se stesse, cosa cattiva; sono un bene la cui amministrazione è da Dio affidata a chi le possiede onde le facciano servire all'utile loro e dei loro simili.

Che facciano del bene

in quegli svariati modi che un illuminato amore suggerisce,

che siano ricchi in buone opere,

che non sieno paghi di fare un po' di bene, ma come sono ricchi di mezzi, sieno ricchi in buone opere. Di Tabita è detto Atti 9:36 ch'ella era "piena di buone opere e di elemosine le quali ella faceva." Cfr. Giobbe 29:12-16; 31:16; 2Corinzi 9:8-11.

Che siano pronti a dare, a far parte [del loro].

Devono dare, ma non per forza, bensì con animo generoso e lieto. Romani 12:8; 2Corinzi 8:1-5; 9:7. "Dio ama un donatore allegro". Il termine κοινωνικους 'comunichevoli' è stato reso dal Martini: "umani nel convivere", dal Revel: "socievoli". Esso esprime la disposizione ad ammettere altri alla comunione, al godimento insieme con noi dei beni che abbiamo. In tal senso è adoperato spesso il sost. koinonía da Paolo Romani 12:13; 15:26-27; Galati 6:6; 2Corinzi 9:13. Far del bene, farne molto, farlo con allegrezza, farlo con quell'amore che affratella gli uomini, tale è il dovere di chi è ricco. L'adempierlo è fonte di benedizioni.

19 Tesoreggiando per se stessi un buon fondamento per l'avvenire affinchè conseguano la vera vita (testo em.)

"Chi dona al povero presta all'Eterno" Proverbi 19:17. Il consacrare dei beni terreni alle opere buone è un "collocarli alla banca del Signore", un farsi "degli amici che vi ricevano nei tabernacoli eterni", un esser "ricchi per Dio". Il far parte dei beni ad altri è pertanto l'unico modo di tesoreggiarli per sè facendoli servire alla propria santificazione e quindi al conseguimento finale della salvazione e della gloria. In parecchie circostanze Gesù ha dato un tale insegnamento: Cfr. Luca 12:16-21; 16:9 e segg.; Luca 18:22-30; Matteo 6:19-21 ove esorta a farsi dei tesori in cielo. C'è fra le due immagini del tesoro, che a poco a poco si mette da parte ( απο-θησαυριζω) e del fondamento una apparente incongruità. Per cui si è cercato di dare qui alla parola θεμελιον (fondam.) il senso di "deposito", di "capitale", ma l'uso non giustifica un tale significato. Piuttosto l'immagine del fondamento è da connettere con quella del verbo che segue: "affinchè afferrino (lett.) la vera vita". Per giungere a metter la mano sopra un così alto bene bisogna aver sotto i piedi una base salda su cui poggiare sicuramente. Il porre la loro speranza nelle ricchezze sarebbe pei ricchi un poggiarla sull'incertezza stessa; ma il trasformarle in opere buone abbondanti che siano il frutto e la dimostrazione della fede e dell'amore, è il convertirle gradatamente in un buon fondamento per l'avvenire, un farle servire al conseguimento di quella vita ch'è veramente tale, che risponde pienamente al concetto della vita perchè racchiude in sè la soddisfazione piena ed eterna di tutte le aspirazioni più profonde della nostra natura. In fondo abbiamo qui, a proposito dei doveri dei ricchi, non già la dottrina del merito delle opere, ma quella che S. Giacomo esprime nella sua Epistola, della necessità delle opere come estrinsecazione della vita nuova creata dalla fede, che ci unisce al Cristo. Dove le opere fanno difetto, manca ogni garanzia della realtà della fede quindi ogni certezza di salvezza; ma dove abbondano, l'anima ha il giocondo senso della vita nuova e la certezza intima che "le sarà riccamente fornita l'entrata nell'eterno regno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo" 2Pietro 1:11.

AMMAESTRAMENTI

1. Il Cristianesimo non condanna il possesso della ricchezza. I ricchi cui Timoteo deve rivolgersi sono cristiani e non ha da ingiunger loro di disfarsi dei loro beni. Sono ricchi di beni materiali, terreni, appartenenti al "presente secolo", e lo sono per un tempo molto limitato; ma lo sono e il loro diritto di proprietà, per quanto non assoluto, non è contestato, a meno che le loro ricchezze non abbiano origine nel furto e nell'ingiustizia. In tal caso devono restituire, se possibile, ciò che fu male acquistato come devono negli affari e traffici procedere con rettitudine. Il cristianesimo in virtù dei grandi principii di uguaglianza, di fratellanza, di amore che sono alla base della sua morale tende necessariamente a far sparire gradatamente la stridente disuguaglianza tra l'uomo che non ha di che "nutrirsi e di che coprirsi" 1Timoteo 6:8 e l'uomo che ha più beni di quel ch'egli possa amministrare; tende a limitare e disciplinare i diritti di proprietà per modo che non contrasti, anzi armonizzi col bene generale; insegna a stimare secondo il loro giusto valore i beni materiali, segnala i pericoli che il loro possesso fa correre alla vita spirituale, inculca i doveri che essi traggono con sè, ma non dichiara incompatibile colla morale cristiana il possesso di una ricchezza più o meno grande.

2. I ministri del Vangelo hanno il dovere di esporre ai ricchi, con l'autorità di ambasciatori di Cristo e di conduttori di anime, i peccati speciali dai quali devono guardarsi ed i doveri connessi col possesso della ricchezza. Ciò esige coraggio e tatto poichè chi è ricco è di solito ammirato dal volgo, incensato, adulato da tutti e quindi spesso mal preparato a ricevere l'esortazione evangelica, specie se fatta con spirito di acredine e non di vero amore. Tuttavia il ministro di Cristo non ha da tremare dinanzi a dei "vermi mortali che levano fieramente il capo perché hanno a loro disposizione qualche granello di polvere lucente"; ma deve recar loro fraternamente il messaggio di Dio.

I pericoli dei ricchi sono la superbia, l'alterigia, di fronte ai meno abbienti, e la troppa fiducia collocata sopra dei beni instabili e inferiori. I doveri, com'è stato esposto, sono di far del bene, di farne molto, di farlo con allegrezza, e di farlo con l'amore che affratella gli uomini e con la sapienza che non li umilia nè li degrada, anzi li educa e nobilita. Un tale uso dei beni, data la spontaneità con cui è fatto, la notorietà di chi è ricco, è una eloquente testimonianza resa alla potenza del Vangelo, al valore superiore dei beni ch'esso arreca a chi lo riceve con fede.

3. La vera vita, la vita ch'è tale realmente per la sua natura spirituale, per la sua perfezione morale, per la felicità che contiene, per la sua durata eterna, ecco la grande, l'imperitura aspirazione dell'anima umana. La vera vita non sta nella ricchezza nè in tutto ciò che la ricchezza può dare. La vera vita è dono di Dio in Cristo. Ma la retta e fedele amministrazione della ricchezza secondo la volontà di Dio può farne pregustare la dolcezza al credente ricco, fin da questa terra, e dare alla sua coscienza la certezza che la goderà appieno nell'avvenire. Il tesoro perituro ed instabile, è così trasformato in un tesoro spirituale e permanente in eterno.

20 

LA CHIUSA DELLA LETTERA

1Timoteo 6:20-21.

Prima di chiudere, Paolo ricorda ancora una volta a Timoteo quello ch'era stato l'oggetto principale della lettera, cioè il dovere di mantenere saldamente la sana dottrina di fronte agli introduttori d'insegnamenti pretenziosi ma vacui di sostanza.

O Timoteo custodisci il deposito [affidatoti].

C'è nel vocativo O Timoteo la veemenza del sentimento dell'apostolo e la solennità d'un ultimo appello. La lezione autentica porta παραθηκην deposito che abbiamo ancora 2Timoteo 1:12,14. (Cfr. il verbo 1Timoteo 1:18; 2Timoteo 2:2). Nel primo dei versetti citati si tratta di un deposito affidato da Paolo a Dio che lo custodirà, ma nel secondo si tratta, come qui, del buon deposito della verità evangelica affidato all'Evangelista Timoteo da Paolo che gliel'ha insegnata e, indirettamente, da Dio. Alla sana dottrina sono opposte le vane ciancie dei falsi dottori. Il vedere in codesto deposito l'ufficio coperto da Timoteo (Huther), ovvero il còmpito affidatogli nella lettera (Meyer) è meno in armonia col contesto e coi passi paralleli. Il deposito è minacciato da alterazioni, diminuzioni, aggiunte, quindi va custodito e trasmesso intatto alla chiesa.

Schivando le profane ciancie e contraddizioni di quella che falsamente si chiama scienza.

Κενοφωνιαι=kenofonie vale lett. voci vane, vuoti suoni. Gli ripugna chiamarli "parole" perchè la parola è l'espressione d'un pensiero, ma questi son suoni vacui privi di contenuto, ciancie. La lez. della Vulgata vocum novitates (Martini: novità delle parole, καινοφ.) è dovuta a una confusione creata dalla pronunzia itacista. Ciance e contraddizioni sono chiamate profane perchè prive di sostanza evangelica e senza influenza benefica sulla vita spirituale 2Timoteo 2:16. Cosa sono le antitesi ( αντιθεσεις) della pseudonima gnosi? La parola indica propriamente l'atto del porre una cosa contro o di faccia ad un'altra. Potrebbe significare le opposizioni fatte dagli eterodossi d'Efeso alla sana dottrina. Ma non risulta che attaccassero il Vangelo e se l'avessero fatto Timoteo avrebbe dovuto confutarli. Cfr. Tito 1:9-11; 2Timoteo 2:25. Baur seguito da Harnack ci vide addirittura le "antitesi" proclamate dallo gnostico Marcione tra l'Ant. Test. ed il Vangelo. Ma qui non si tratta di un noto termine tecnico. Piuttosto sembra si tratti delle interne contraddizioni che caratterizzavano l'insegnamento dei dottori le cui elucubrazioni erano opposte le une alle altre, così da produrre le incessanti logomachie, le dispute, gli attriti di cui ha parlato Paolo. In questo dedalo di dispute di parole Timoteo non deve entrare, le deve schivare, poiché ha cose più importanti e più certe da insegnare.

21 Che i dottori d'Efeso pretendessero dare alle loro speculazioni filosofico-cabalistiche una nomea di conoscenza (gnosi) superiore, non fa dubbio. Volevano essere "dottori della legge" 1Timoteo 1:7, erano "gonfi" di vento 1Timoteo 6:4. Era vera scienza la loro? Paolo lo nega dicendo che ne porta falsamente il nome. In realtà "non sapevano nulla 1Timoteo 6:4, "non intendevano nè quel che dicevano nè quel che affermavano" 1Timoteo 1:7. Abbiamo qui gl'inizii della gnosi che fu contraffazione della vera e spirituale conoscenza cristiana e che divenne pretesa sempre più superba degli eretici fino a dare origine al nome degli gnostici nel II secolo. D'altronde qual è l'incredulo odierno che non abbia piena la bocca di Scienza?

della quale alcuni facendo professione,

proclamandosi ostentatamente gli adepti e seguaci,

hanno deviato quanto alla fede,

non sono perseverati nella fede salutare nella verità, se ne sono allontanati sedotti dalle pretenziose speculazioni.

La grazia sia con voi.

E la lezione accettata dai critici. Quella ordinaria con te trovasi solo nei codici posteriori. D'altronde un plurale analogo a questo s'incontra alla fine delle Epp. a Filemone, a Tito e 2Timoteo. Se ne deduce che Paolo soleva, nel saluto finale, associare in ispirito alla persona cui era mandata la lettera i fratelli in mezzo ai quali il destinatario viveva e ai quali egli non mancherebbe di comunicare lo scritto apostolico.

L'Amen è inautentico ed aggiunto per la pubblica lettura.

La poscritta del testo ordinario: "1a a Timoteo scritta da Laodicea ch'è la capitale della Frigia Pacatiana" si rivela posteriore al IV secolo non solo perchè mancante nei codici più antichi, ma per il fatto che la provincia della Frigia Pacatiana non fu istituita che nel IV secolo. Due codici portano la poscritta: "Da Nicopoli", probabilmente derivata dal passo Tito 3:2.

AMMAESTRAMENTI

1. La verità evangelica rivelata da Dio in Cristo è un sacro deposito affidato ad ogni ministro del Vangelo, ma affidato pure ad ogni credente poichè ciascuno è interessato a custodir quel tesoro e a trasmetterlo nella sua integrità ai suoi simili. Più sono numerosi ed audaci i tentativi fatti per corrompere o per rapirci il deposito, e maggiore dev'esser la nostra vigilanza nel custodirlo.

2. Fra le insidie da cui Timoteo deve guardarsi e da cui deve difendere la verità è mentovata quella che falsamente si chiama scienza e di cui son notate le contraddizioni. Il Vangelo non avversa la scienza che merita quel nome, sia essa filosofica, o storica, o critica, o naturale, o d'altro genere qualsiasi. Fine della scienza è di conoscere la verità ed il Vangelo ch'è luce e procede dal Dio di luce non è amico delle tenebre. Ma c'è vera e c'è falsa scienza. La vera scienza osserva accuratamente e pazientemente i fatti, li riunisce, li classifica e da essi trae le deduzioni che quelli realmente autorizzano e riconosce i suoi limiti e si guarda dal dare come scienza quel che non è se non ipotesi.

La falsa scienza ha la tendenza a non tener conto di tutti i fatti, a fondare grandi teorie sopra basi esigue e non salde, a dare come certo quel che è ipotetico, a trarre dai fatti quelle conclusioni che rispondono meglio alle tendenze morali ed intellettuali dello scienziato o del pubblico di cui cerca il plauso. La vera scienza accertata non contraddice alcuna delle grandi verità religiose rivelate o confermate dal Cristo e dai suoi apostoli. Ma a sentir certi pretesi corifei della scienza non si avrebbe più a parlar nè di Dio, nè di creazione, nè, di responsabilità morale, nè di peccato, nè di redenzione, nè di vita eterna. "Dicendosi esser savi, son divenuti pazzi". Non v'è stata mai nel mondo una così grande abbondanza come al giorno d'oggi di scienza indegna di un così bel nome, nè una tale ebbrezza idolatra dell'orgoglio umano per quel ch'esso chiama scienza. I cristiani sono chiamati a star saldi nella verità di cui hanno sperimentato l'efficacia salutare ed a custodire il deposito ad essi affidato. Di ciò li farà capaci la grazia di Cristo che vuol dimorar con loro.

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