L'amore perfetto1Corinzi 13:4-8 Scritto da Ivan77. 13/8/2022 Numero di voti per questo studio: 0
L’AMORE PERFETTO
Nella prima lettera ai corinzi al capitolo 13 troviamo la più completa presentazione dell’amore perfetto, descritta con una serie di proprietà sulle quali si fonda, ma anche alcune peculiarità con le quali è in contrasto.
In greco antico esistono fondamentalmente tre termini principali per esprimere la parola amore: eros, philia e agape: “eros” traduce amore, passione, desiderio, quindi in modo particolare riguarda la componente sessuale, mentre il termine “philia” indica amicizia, affetto, attaccamento, amore, ed esprime più il concetto sentimentale, l’amore come principio unificante, ed infine “agape”che è l’amore perfetto e incondizionato, l’amore di Dio che l’umanità caduta non può ne esprimere ne comprendere, ma che un uomo ‘nato di nuovo’, un figlio di Dio, ha fatto suo e può sperimentare mediante la grazia del Signore, un amore seminato nella nostra parte più profonda che fa germogliare e crescere tutte le sue qualità, le quali ci riconducono ad essere le creature inizialmente fatte a immagine e somiglianza del proprio creatore.
Leggiamo nel versetto quattro, che la prima caratteristica che contraddistingue questo amore, è la pazienza, che nel testo originale viene resa con il termine “makrothumos”, parola composta da “makros” che significa: lungo, vasto, grande, se applicato a cose o luoghi, mentre se applicato al tempo: lungo, duraturo, durevole, esteso nel tempo e poi da “thumos” che traduce: ardire, irritarsi; quindi letteralmente tradurremmo “lungo ad irritarsi” o come spesso troviamo nell’antico testamento“lento all’ira”, (Es 34:6, Nu 14:18, Ne 9:17, Sl 86:15,103:8, 145:8, Gl 2:13, Gn 4:2 e Na 1.3).
Tutta la bibbia ci mostra questo attributo che è parte dell’amare secondo Dio e noi come seguaci, discepoli di Cristo desiderosi di essere modellati dal suo amore ci dovremmo impegnare a ricercare questa virtù, così che possa entrare sempre più a far parte del nostro essere. In alcuni proverbi ne vediamo gli effetti favorevoli che può portare nelle nostre vite, come Pv 14:29 che dice: “Chi è lento all’ira ha molto buon senso, ma chi è pronto ad andare in collera mostra la sua follia”, oppure Pv 15:18 cita: “L’uomo collerico fa nascere contese, ma chi è lento all’ira calma le liti” e ancora pv 16:32: “Chi è lento all’ira vale più del prode guerriero; chi ha autocontrollo vale più di chi espugna città.” e potrei citarne altri, ma la sua vera essenza e la sua massima espressione pratica la scorgiamo in Cristo; in tutto il suo ministero terreno abbiamo osservato la sua pazienza in molte occasioni, paziente con l’iniziale inadeguatezza dei suoi apostoli, paziente alle diverse provocazioni dei farisei, paziente con chi ebbe poca fede e con i duri di orecchi ma soprattutto paziente con l’umanità che invece di accoglierlo come il salvatore annunciato lo condannò, ed ancora oggi lo rifiuta come Dio e salvatore.
La seconda qualità che incontriamo è la benevolenza, testualmente viene scritto: “l’amore è benevolo”; in greco questa parola è un verbo e viene tradotta in “chresteumai”, che indica proprio “l’essere benevolo” o “essere gentile”; l’ aggettivo da cui deriva è “chrèstos” che può assumere molti significati in base alla funzione logica che svolge nella frase; può significare: utile, buono, favorevole, opera buona, bravo, valente, onesto, benevolo, gentile, etc. Andando ancora più alla radice di questo termine troviamo l’espressione “chrè”, un verbo che si traduce in “è necessario, bisogna, si deve”, che fanno emergere nella definizione “benevolo” un concetto di bontà e misericordia chiaramente sospinte dalla volontà di un essere, che per sua stessa natura è in grado di amare e dare anche a chi è indegno e immeritevole .
E’ difficile trovare nel mondo una tale benevolenza, Gesù disse: “voi avete udito che fu detto: “ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”Ma io vi dico: “amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”; l’amore del mondo non è in grado di produrre e mettere in pratica una tale affermazione; Paolo nella lettera ai Romani al capitolo 5: 7,8 ci dice: “Difficilmente uno morirebbe per un giusto, ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra il proprio amore per noi in questo: che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”; da qui comprendiamo che un uomo potrebbe essere benevolo e misericordioso nei confronti di una persona buona o amata, fino anche a morire per quella stessa persona, ma non potrebbe mai farlo verso chi gli è nemico, lo odia e lo perseguita; questo è un limite dell’amore umano, imparagonabile con l’amore perfetto e incondizionato di Dio.
Dopo queste due grandi qualità, continuando nel versetto quattro, ci imbattiamo in tre caratteristiche incompatibili con questo amore; tre attributi senza dubbio inavvicinabili a Dio ma molto vicini all’uomo. Il primo è l’invidia, testualmente troviamo scritto: “l’amore non invidia”; in greco la parola usata per esprimere questo concetto è “zelò”; questo termine si può tradurre con: aver zelo, ricercare con ardore, emulare cercare di eguagliare, essere geloso, invidiare, guardare con invidia ma anche in termini come stimare bene, approvare o lodare. Questo sentimento lo troviamo spesso nella bibbia e ha portato sempre conseguenze negative per l’uomo; lo troviamo nei primi capitoli di Genesi e fu il grande movente dell’omicidio di Abele, sempre in Genesi, i fratelli di Giuseppe invidiosi che lui fosse il prediletto del padre, lo vendettero come schiavo, Saul, nel primo libro di Samuele, invidioso dei successi di Davide, tentò di ucciderlo più volte; quindi è evidente che non è un sentimento proficuo e Dio, conoscendone la pericolosità, ce ne mostra le conseguenze. In proverbi l’autore scrive che “un cuore calmo è la vita del corpo, ma l’invidia è la carie delle ossa”, perciò in grado di danneggiarci mentalmente e fisicamente, nel suo scritto Giacomo ci avverte dichiarando: “infatti, dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione”; l’invidia è un peccato grave in grado di generarne altrettanti peggiori.
Abbiamo visto quindi che l’invidia genera odio verso la persona invidiata, un odio che è in grado di partorire gravi azioni come l’omicidio, il furto, o l’adulterio e tanto altro ancora. In alcuni casi però l’invidia, può mascherarsi da sentimento apparentemente innocuo e positivo, soprattutto guardando la società in cui attualmente viviamo: infatti, molto spesso, la stima eccessiva verso una persona è innescata proprio dall’invidia, che fa nascere in noi il desiderio di eguagliarla o superarla, ma nella stragrande maggioranza l’incapacità, o la mancanza di mezzi per raggiungerla fa sorgere un senso di inferiorità, che trasforma la persona stessa in un modello inarrivabile, un dio, aprendo quindi le porte all’idolatria, che subdolamente si insinua mascherata da un apparente buon sentimento.
Gli ambienti ‘cristiani’ non sono estranei a questo sentimento, nelle assemblee spesso l’invidia porta a pettegolezzi, malelingue e malsane competizioni tra fratelli per avere un ruolo più di rilievo o addirittura, alcuni membri di chiesa, per eccessiva stima, convertono il loro pastore o anziano in un idolo e in un oracolo. E’ molto importante mantenerci sempre umili e mantenere lo sguardo fisso su Gesù Cristo unico nostro modello e Dio, ed accontentiamoci di ciò che Dio ci ha affidato, abbondando nel ringraziamento.
I prossimi due termini che analizzeremo sono molto vicini tra loro a tal punto che spesso vengono usati come sinonimi, ma in realtà non lo sono; stiamo parlando dell’orgoglio e del vanto che nel brano riscontriamo rispettivamente nell’espressione “l’amore non si gonfia” e “l’amore non si vanta” e volendo brevemente definirli, si può dire che il primo, l’orgoglio, è la smisurata opinione e considerazione che abbiamo di noi stessi e quindi riguarda strettamente il nostro ‘io’, noi stessi, mentre il secondo, il vanto, è l’atto di volere suscitare negli altri una tale opinione e perciò ricade soprattutto su chi ci circonda.
Si vanta, nel testo greco, lo troviamo con la parola “perpereùomai” che traduce ricorrere a ostentazione o darsi arie il quale deriva dall’aggettivo “perperos” che traduce: borioso, vanaglorioso, vacuo, attributi che vediamo sempre più evidenti nella nostra società, dove “io sono” e “io ho” sono ormai le parole più sentite. L’orgoglio invece, che cogliamo nell’espressione ‘gonfiarsi’ , in greco lo troviamo espresso col termine ““phusioutai (phusio) che si traduce in riempirsi o essere pieno di orgoglio; in italiano diciamo anche “impettirsi”, gonfiare il petto, che in senso proprio descrive appunto una persona piena di orgoglio.
Senza dubbio un termine opposto a queste due condizioni è l’umiltà, qualità ormai estremamente rara in questi tempi, ma molto cara al nostro Signore che troviamo in moltissimi brani, ma che nella lettera ai filippesi al capitolo 2:3 vediamo in contrasto con il vanto e all’orgoglio; l’apostolo Paolo scrive: “Non fate nulla per spirito di vanagloria, ma ciascuno, con umiltà stimi gli altri superiori a se stesso..”
La definizione di umiltà che troviamo nei nostri vocabolari è: “ non ritenersi migliore o più importante degli altri”, quindi ritenersi uguale agli altri, non di meno e non di più, certamente un nobile sentimento, che basterebbe di per sé a rendere questa società migliore, ma nel versetto sopracitato ci viene chiesto di stimare, ritenere e considerare gli altri non come noi stessi, ma superiori a noi; questo concetto viene bene espresso nel termine greco ‘tapeinofrosunê’ che traduce umiltà e che a sua volta deriva dall’aggettivo “tapeinos” che usato in relazione a persone significa umile, di bassa condizione, povero, sottomesso, ma è altrettanto interessante l’uso che viene fatto in relazione a cose traducendo la parola “basso, bassezza” che meglio precisa la posizione in cui l’umile, secondo Dio, si dovrebbe porre rispetto al prossimo, collocandosi addirittura in una condizione di inferiorità, non riguardante lo stato sociale, culturale, economico o intellettuale o comunque riguardante un aspetto esteriore, ma che invece sia il frutto di una naturale e voluta mortificazione del proprio “io”, che ci mette nelle condizioni di poter amare gli altri come Dio ci ha amati.
E’ impensabile per il mondo e difficile anche per un credente afferrare un così ‘alto’ concetto di umiltà, ma dovrebbe invece per un credente essere indispensabile ritenere l’orgoglio e il vanto due condizioni nocive; nel mondo l’orgoglio è ritenuto spesso un valore positivo essendo molto connesso all’autostima, mentre per un credente nato di nuovo non c’è un orgoglio buono perché in ogni caso l’orgoglio, così come l’eccessiva autostima, mirano ad innalzare la nostra persona, laddove la nostra volontà dovrebbe essere abbassare, affondare il proprio io; riusciamo a vedere nel battesimo prefigurato questo concetto, dove nell’immersione abbandoniamo e anneghiamo il nostro orgoglio e finalmente liberi da questo peso riemergiamo come nuove creature.
In Cristo troviamo un esempio perfetto di umiltà, nel versetto 5 del capitolo 2 nella lettera ai filippesi troviamo scritto: “ Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”; in poche parole colui che ha creato e controlla ogni cosa, non solo si è abbassato alla nostra natura ma si è ulteriormente umiliato pagando con la sua morte il prezzo delle nostre colpe: che esempio di umiltà! Come discepoli di Cristo dovremmo vivere la nostra vita verso questa direzione, senza ostentazione e mai vantandoci di nulla, riconoscendo che la nostra vita e tutto ciò che possediamo, compreso il nostro status di figli di Dio e la salvezza, non ci appartengono per nostro merito, ma ci sono state date immeritatamente per elezione e grazia di Dio, affinché attraverso di esse possiamo innalzare e testimoniare il suo potente nome; in efesini 2:8,9 leggiamo: “Infatti è per grazia che siete stati salvati mediante la fede; è ciò non viene da voi: è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparato affinché le pratichiamo”.
Il versetto cinque ci presenta altri quattro attributi che non si riflettono nell’amore perfetto, quindi come i precedenti preceduti da una negazione; il primo, nel testo originale, è “aschemonei”, da “aschenomeo”, che traduce “comportarsi in modo sconveniente o indecoroso”. Nel vocabolario italiano troviamo una corretta definizione riguardo al termine ‘sconveniente’ che lo definisce come un comportamento riprovevole, contrario alle convenienze, al decoro e al senso morale, sinonimo di disdicevole, indecoroso e inopportuno. Una giusta descrizione della sconvenienza, ma che applicata nei diversi contesti etico ,culturali, sociopolitici da spazio a relative e molteplici interpretazioni, ma ciò che a un discepolo di Cristo interessa è come la parola di Dio presenta questo termine e dunque, ciò che è sconveniente e indecoroso per Dio. Ne troviamo una descrizione dettagliata nella lettera ai romani nel primo capitolo dal versetto 28 al 32, che dice testualmente: “Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balia della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni di invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi del male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.”. In questo lungo elenco troviamo una serie di condotte ovviamente moralmente negative, che invece il mondo sta rendendo gradualmente accettabili, approvando chi le commette; facendo un esempio pratico, secondo alcuni non è sconveniente avere rapporti sessuali occasionali o comunque fuori dal matrimonio, mentre per Dio lo è, approvando soltanto la sessualità all’interno della sfera matrimoniale; un altro esempio potrebbe essere l’omosessualità o l’aborto pratiche che ormai si stanno gradualmente accettando in molte parti del mondo ma che Dio ritiene spregevoli ai suoi occhi. Potremmo fare altri innumerevoli esempi, ma ciò che importa comprendere è che Dio, contrariamente all’uomo, , non hai mai considerato di dover cambiare la sua moralità in relazione al tempi o altre variabili, perché per sua natura egli è immutabile ed eterno, ed è quindi lo stesso di ieri, di oggi e di domani.
Proseguendo nel versetto cinque troviamo l’espressione “non cerca il proprio interesse”; questa affermazione in greco viene riportata con “ zetei ta eautes”, “zetei” traduce proprio cercare, ricercare, mentre ‘eautes’ rende il termine ‘se stesso’ quindi letteralmente l’amore non ricerca se stesso, ovvero l’amore non ha fini, scopi personali quindi chi ama secondo Dio, non vuole appagare se stesso, alimentare la propria autostima o trarre un guadagno, ma dare e fare del bene gratuitamente nello stesso modo in cui ha ricevuto grazia dal Signore; in Matteo 10 vediamo Gesù che dà determinate istruzioni ai 12 apostoli e nel versetto 8 troviamo scritto: ‘Guarite gli ammalati, resuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date..’. Queste parole rivolte agli apostoli, come spesso accade nei vangeli, sono applicabili alla vita di ogni singolo credente; ovviamente non siamo tutti chiamati a guarire, scacciare demoni o resuscitare i morti, ma senza dubbio ognuno di noi ha un dono o un talento che non devono innalzare la nostra persona o addirittura essere motivo di guadagno, ma dovrebbero essere utilizzati per il regno di Dio e l’amore per il prossimo.
Ancora più chiaramente vediamo questo concetto di benevolenza senza scopi personali sempre nelle parole del nostro Signore in Matteo 6: 1,2 dove Gesù condanna apertamente l’elemosina e le opere in genere fatte dinnanzi agli uomini per compiacere e appagare se stessi, laddove invece dovremmo operare in segreto in modo che la mano sinistra non sappia quello che fa la destra.
Successivamente troviamo scritto nelle nostre Bibbie in italiano che l’amore non si inasprisce, nel testo originale greco troviamo riportato il termine “paroxunetai” derivante dal verbo “paroxuno” che in questa forma traduce ricevere o subire un impulso, oppure essere spinto, quindi indicando un azione che genera una reazione improvvisa incontrollata, che noi comunemente chiamiamo impulsività, che nella sfera comportamentale indica una azione precipitosa e violenta. Per un attimo immaginiamo Gesù nell’orto del Getsemani che vede arrivare Giuda assieme a una schiera armata con spade e bastoni con intenzioni minacciose, se Gesù si fosse inasprito e avesse avuto una reazione impulsiva, certamente le cose non sarebbero andate come noi conosciamo, ma il signore sapeva che la vittoria non sarebbe arrivata in quel modo e che non stava combattendo con sangue e carne, ma che per vincere doveva arrivare al Golgota, così anche noi quando siamo provocati dal nemico non dovremmo cadere nella sua trappola, ma avere dominio proprio, autocontrollo e seguire i passi di Gesù verso la croce; lì troveremo pace e vittoria.
In conclusione del versetto cinque troviamo l’espressione “non addebita il male”, in greco la parola addebitare è resa con “logizomai” che nel suo senso assoluto significa calcolare, contare, valutare ma che ha tanti altri significati, come mettere in conto, imputare, addebitare o riflettere, pensare, considerare ma anche concludere, dedurre, stabilire in alcuni casi anche escogitare o tramare, insomma davvero tanti significati. Erroneamente molti pensano che questa affermazione ci voglia solo esortare a perdonare il male che subiamo, in un certo senso è vero ed è sempre biblico farlo, ma penso che considerando le varie traduzioni che in greco questo termine riveste, soprattutto voglia farci considerare la posizione che il credente debba tenere di fronte a qualcosa che non ci piace, che consideriamo ingiusto, sia che ci tocchi personalmente, sia che ricada su un altra persona. A volte subiamo delle ingiustizie o vediamo subirle, forse involontariamente, o forse no, ma quello che non dovremmo mai fare è fare troppi ragionamenti, fare dei calcoli, trarre conclusioni affrettate e infondate, fare valutazioni improprie, non bisognerebbe mai essere prevenuti e sospettosi, non dovremmo agire con malizia dicendo cose inappropriate, lasciamo tutto, in ogni caso, nelle mani del Signore.
Nel versetto sei, troviamo l’ultima negazione, che dice testualmente “(l’amore) non gode dell’ingiustizia” ed in greco il verbo godere è tradotto con “chairo”, che indica felicità, contentezza, gioia. Esistono persone sadiche, che davvero provano piacere davanti alle ingiustizie, proprio godono nel vedere il male, poi esistono persone, altrettanto sadiche ma più subdole, che non gioiscono dell’ingiustizia in se stessa ma ne traggono guadagno e quindi il godere, diventa un avvantaggiarsi, un approfittare per poter raggiungere degli obbiettivi personali, come l’emarginare un individuo per affermare la propria appartenenza ad un gruppo o anche sfruttare gli errori altrui per farsi strada in un determinato ambiente. Non credo che una delle due condotte sia più o meno grave dell’altra, trovo che ambedue siano riprovevoli, è impensabile che l’amore secondo Dio possa ammettere tutto ciò, eppure questo accade, non solo in ambienti mondani ma purtroppo anche in ambienti cristiani.
L’amore del mondo, può tollerare molte ingiustizie, può chiudere un occhio o anche due davanti a soprusi o prepotenze, l’amore del mondo è in grado anche di occultare, di mentire è un amore torbido, è un amore superficiale, un amore senza radici e fondamenta, un amore che in pochi secondi può diventare odio, tristezza o dolore. L’amore perfetto non potrebbe mai manifestarsi in presenza di tutto ciò, l’amore perfetto gioisce e si rallegra solo con la verità, il termine usato nel testo originale per verità è “aletheia”, letteralmente significa non essere nascosto, in un certo senso indica quindi trasparenza, sincerità, veridicità ed anche giustizia. Cristo stesso usa questo stesso termine quando nel vangelo di Giovanni al capitolo 14:6 dice: “io sono la via, la verità, la vita”, egli stesso si definisce “aletheia”, lui stesso è la verità, la giustizia assoluta e l’amore perfetto gioisce solo in lui.
Proseguendo nel versetto sette troviamo altre quattro connotazioni dell’amore perfetto. La prima, afferma che l’amore soffre ogni cosa, che nel testo originale viene reso con l’espressione “ steghei panta”, dove “panta” traduce tutto, mentre “stegho” letteralmente significa, coprire, riparare, proteggere, dando come un significato di impenetrabilità in relazione a cose, che in questo contesto acquisisce un senso metaforico, esprimendo un concetto di sopportazione o resistenza in rapporto alle avversità derivanti dalla vita quotidiana. Molto interessante è anche un sostantivo che ha la stessa radice del verbo “stegho”, ovvero “steghos”, che significa precisamente tetto. Il tetto ha una funzione molto importante nella struttura della casa, perché ci protegge dagli agenti esterni, come l’acqua, il sole, la grandine, protegge la parte interna della casa e non lascia entrare nulla che ci possa danneggiare. Così l’amore deve essere come una copertura che resiste sotto i colpi delle provocazioni, delle battaglie, dell’odio, delle ingiustizie, una protezione plasmata dalla parola di Dio che non lasci penetrare in noi nulla che possa far scaturire il peccato.
Procedendo, leggiamo la seconda affermazione, che sempre in relazione all’amore dice: “ crede ogni cosa”, abbiamo già visto che ogni cosa o tutto si traduce in “panta (pas), mentre “crede” è la traduzione del termine “pisteuei (pisteuo)”, stesso verbo che traduce anche, avere fiducia, fidarsi o confidare, che ha in comune la stessa radice di “pistis”, ovvero, fede, credenza, convinzione. Ed’ è proprio la fede che qui si sta menzionando, non però una semplice credenza intellettuale o una convinzione personale, ma una certezza assoluta data dalla conoscenza, che sospinta dallo spirito di Dio ci fa leggere con positività ogni avvenimento, con la convinzione che ogni promessa del Signore si adempierà. La successiva affermazione, che direi strettamente legata alla precedente dice: “spera ogni cosa”; il verbo sperare traduce il termine greco “elpizo”(io spero) che significa appunto sperare, aspettarsi, supporre, confidare. Le cose che si sperano, sono eventi, situazioni che noi ci aspettiamo accadano, cose future; nel mondo sentiamo usare spesso questo termine, trasmette ottimismo, ma non certezza; un uomo che ha in se l’amore di Dio spera, ma ciò in cui spera è per lui certo, perché supportato dalla fede prodotta dalla Parola di Dio. La parola di Dio ci dimostra questa verità in ebrei 11:1 che dice testualmente: “or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono”, quindi il credere, la fede, rende certa ogni speranza futura dimostrando e provandone l’esistenza e la veridicità nel presente pur essendo invisibile.
L’ultima affermazione del versetto sette dice che l’amore sopporta ogni cosa; il verbo sopportare è “hupomeno”, che indica certamente il sopportare, tollerare, ma sono tuttavia interessanti e valide, ed anche in questo contesto, le altre traduzioni che può assumere , come: rimanere indietro, restare, rimanere, aspettare, attendere, affrontare, restare fermo. Questo termine, come tanti altri, in greco è un parola composta, ovvero in sé ne presenta due, che in questo caso sono “hupo” e “meno”. Il primo generalmente si traduce in sotto, al di sotto, giù, in basso mentre il secondo traduce restare, rimanere, trattenersi, od anche, mantenere una posizione, restare immobile. Apparentemente sembra che soffrire, che abbiamo già analizzato e sopportare abbiano lo stesso significato, ma come abbiamo visto prima il soffrire determina più una resistenza, una impenetrabilità riguardo alle avversità, mentre sopportare, indica più che altro una condizione di umile attesa, di irremovibilità e di una determinatezza date dalla consapevolezza che sarà Dio stesso a muoverci e a vincere le avversità per noi.
Avendo analizzato queste caratteristiche inerenti all’amore descritto da Paolo, ci rendiamo conto che amare secondo Dio non è affatto un semplice sentimento e non è il prodotto di una emozione, ma può essere solo il frutto di una scelta responsabile. Cristo, ha scelto di amare, ed è in lui che possiamo vedere il perfetto ritratto dell’amore, attraverso i vangeli, vediamo applicato nella vita di Gesù ogni attributo che Paolo in questa descrizione presenta, ed inoltre attraverso la vita di Gesù impariamo come mettere in pratica l’amore, ed egli ci dimostra che può avvenire soltanto attraverso una nuova nascita, alimentata da obbedienza, disciplina e impegno il tutto sostenuto da una intima e costante relazione con Dio.
Concludiamo questa riflessione con l’ultima affermazione che troviamo nel versetto otto, che dichiara l’eternità dell’amore, troviamo scritto: “l’amore non verrà mai meno”, nell’originale greco l’affermazione, tradotta letteralmente, è molto più forte, è composta da solo quattro parole che sono: “ l’amore giammai cade”. Giammai, “oudepote”, è un mai rafforzato, un mai più forte, la parola che traduce cade è “piptei”, che è al presente indicativo, termine davvero ricco di significati come: cadere, cessare, andar perduto, riuscire vano, crollare, rovinare, distrutto e molti altri. Letta al presente indicativo e non al futuro, come leggiamo nelle nostre traduzioni, fa percepire un senso di eternità, un qualcosa che certamente è, ma che nello stesso tempo è sempre stato e sempre sarà, nello stesso modo in cui Dio rivelandosi a Mosè disse: “ dirai così ai figli di Israele: “ l’io sono mi ha mandato da voi”, dove “io sono” colloca Dio in una posizione eterna e atemporale.
Affermiamo quindi che Dio è amore, come Giovanni riporta nella sua prima lettera, ma se è amore è quindi relazione, perché l’amore si da e si riceve, Dio è certamente uno, ma come la Bibbia afferma un’unità plurima, composta da tre persone differenti, ma uguali nell’essenza e misteriosamente connesse e dipendenti l’una dall’altra, indissolubili, avvolte dall’amore che è il vincolo della loro unitarietà, così similmente la Chiesa, un sol corpo edificato da più persone differenti l’una con l’altra, ma uguali nell’importanza, può manifestare la sua piena unità soltanto se dominata dall’amore.
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