2 Corinzi 10
PARTE TERZA

Rivendicazione della propria autorità apostolica, per parte di Paolo


2Corinzi 10:1-13:13

La terza parte dell'epistola ha un carattere assai più severo delle due altre. Una tale diversità di tono ha suggerito ad alcuni critici l'ipotesi che questi capitoli siano di un altro autore, o, per lo meno, siano stati scritti da Paolo in altre circostanze che non quelle supposte nei primi nove capitoli. Avrebbero costituito, secondo alcuni, la parte principale della supposta lettera intermedia fra la prima, e la seconda Epistola canonica ai Corinzi. Staremo paghi a notare:
a) Che una tale ipotesi non ha fondamento di sorta nei documenti contenenti la nostra epistola, i quali tutti ce la trasmettono come la possediamo. Se avessimo qui una ricucitura di varii pezzi, come spiegare che in nessun documento o ricordo tradizionale se ne sia conservata la traccia?
b) Che nè la fine di 2Corinzi 9 è un'adeguata chiusa di lettera, nè il principio di 2Corinzi 10 è un esordio possibile;
c) Che il contenuto di 2Corinzi 10-13 non corrisponde a quello presunto della ipotetica lettera intermedia, poichè non vi si fa parola di una soddisfazione che Paolo avrebbe richiesta per un'offesa personale ricevuta;
d) Che, dal lato storico, ci troviamo, nella terza parte, in quelle stesse circostanze che sono accennate nelle due prime parti. Paolo è in procinto di recarsi per la terza volta a Corinto 2Corinzi 10:2; 12:14; 13:1,10. Egli ha loro digià Tito con un fratello 2Corinzi 12:12; 8:18. Spera che, ristabilito l'ordine in seno alla chiesa, gli sia dato di proseguir l'opera missionaria in altre contrade;
e) Che, se le due prime parti sembrano supporre nella chiesa delle disposizioni migliori che non la terza, ciò deriva dal fatto che in quest'ultima sono presi di mira particolarmente coloro che si sono lasciati sedurre dai giudaizzanti. Non già che Paolo si rivolga a loro direttamente; ma, pur seguitando a parlare alla chiesa nel suo insieme 2Corinzi 10:6; 11:2-3; 12:11-15; ecc. si sente che ha in vista quella minoranza tuttora ribelle cui, qua e là, si accennava anche nei primi nove capitoli. Dopo aver pazientemente fatto la propria apologia, onde dissipare ogni malinteso colla maggioranza della chiesa, Paolo rialza fieramente il capo per rivendicare la sua autorità apostolica vilipesa, smascherando ed apertamente combattendo gli avversarii giudaizzanti coi loro seguaci. Da ciò il tono più aspro ed il carattere polemico di quest'ultima parte che si può definire una rivendicazione, per parte di Paolo, della propria autorità e dignità apostolica, contro alle boriose denigrazioni degli avversari giudaizzanti.
Per quanto non sia da aspettare, in un discorso così irruente ed appassionato, quell'ordine ch'è proprio di una trattazione calma e sistematica, si possono tuttavia distinguere i tre § seguenti:
§ l. 2Corinzi 10. La realtà dell'autorità apostolica di Paolo, di cui egli vorrebbe non dover usare severamente, ma che ad ogni modo non è vana millanteria, ma cosa reale, suggellata dal Signor Gesù mediante i risultati concessi all'attività del suo inviato.
§2. 2Corinzi 11:1-12:18. La superiorità dell'apostolato di Paolo sopra quello vantato dal giudaizzanti. Per quanto sia da pazzi il gloriarsi, Paolo è costretto a toccare della superiorità sua in conoscenza, in disinteresse, in lavori e patimenti per Cristo, ed anche in fatto di rivelazioni ricevute e di miracoli operati, per quanto si riconosca personalmente debole ed incapace,
§3. 2Corinzi 12:19-13:10. L'uso che Paolo farà in Corinto della sua autorità se non interviene da parte dei colpevoli quel ravvedimento che l'Apostolo brama ed attende.

§1. La realtà dell'autorità apostolica di Paolo 2Corinzi 10
Il Capitolo si divide in tre sezioni. Paolo comincia 2Corinzi 10:1-6 coll'esortare, anzi col pregare i Corinzi di non costringerlo a spiegare, nella sua potenza positiva, l'autorità sua apostolica.
Cotale autorità, per quanto revocata in dubbio e sprezzata da taluni, non è una vana spavalderia ma è cosa reale 2Corinzi 10:7-11. Per difenderla, Paolo non ha bisogno di ricorrere al sistema di certi suoi avversarii, i quali si gloriano delle fatiche altrui; gli basta di recare, quale garanzia, i risultati positivi coi quali il Signore stesso ha suggellato l'attività del suo apostolo 2Corinzi 10:12-18.

Sezione A 2Corinzi 10:1-6 ULTIMA PROVA DI MITEZZA
Paolo prega i Corinzi di non costringerlo a spiegare la sua autorità per punire.

Ora io stesso, Paolo, vi esorto...
Perchè quell'enfasi? Non ne va cercata la ragione nel fatto che Paolo, giunto a questo punto, avrebbe cessato dal dettare per prendere egli stesso la penna, e neppure nella supposizione ch'egli voglia da ora innanzi parlare esclusivamente in nome proprio, mentre fin qui avrebbe scritto in nome suo e di Timoteo. Piuttosto dobbiamo vedervi l'espressione; della coscienza che Paolo ha della propria dignità apostolica e del fermo proposito suo di mandare ad effetto, dopo un ultimo avvertimento, le minaccie fatte udire ripetutamente ai ribelli di Corinto. L'Apostolo, prima di chiudere la sua lettera, si volge in atto risoluto alla chiesa, e più specialmente alla minoranza sobillata dai dottori giudaizzanti, e dice loro: io, proprio io Paolo, che molti fra voi trovano così dimesso e timido di presenza, per quanto ardito da lontano, io stesso vi prego ancora una volta di non mettermi nella dura necessità di spiegare severamente contro a taluni di voi l'autorità che tengo dal Signore,
vi esorto per la mansuetudine e mitezza di Cristo,
cioè ricordandovi quel lato del carattere di Cristo che voi ed io dobbiamo imitare. Durante la sua vita terrena, Gesù si è proclamato e mostrato «mansueto ed umile di cuore», disposto ad agire, non secondo il rigor della giustizia, ma con condiscendenza ispirata dalla bontà. Paolo vorrebbe continuare, nelle sue relazioni coi Corinzi, a comportarsi con mitezza, ad evitare le misure di severità; ma bisogna perciò ch'essi gli rendano possibile la cosa, ispirandosi anch'essi a sentimenti, non di orgoglio e di ribellione, ma di umiltà e di ubbidienza a tutto ciò ch'è giusto e santo e savio -
io che, di presenza, sono umile fra voi, mentre assente, sono ardimentoso verso di voi.
Con queste parole, Paolo allude ad una maligna insinuazione fatta contro di lui dai suoi avversari giudaizzanti, affine di toglier peso alle severe ammonizioni contenute nelle sue lettere. Da lungi fa lo spaccamonti, dicevano, ma poi quando è presente è tutt'altro: egli è dimesso, pauroso, e le sue minaccie le rimette nel fodero. La longanimità e mitezza paterna di Paolo veniva da costoro considerata come impotenza e codardia. Essendo Paolo stato due volte in Corinto prima della presente lettera cfr. 2Corinzi 13:2; ed essendo la sua seconda visita stata probabilmente provocata da incipienti disordini, i suoi avversari potevano parlare della sua presenza «umile» o dimessa.

Vi prego [dico],
a fare in modo
ch'io non abbia, [quando sarò] presente, a procedere arditamente, con quella confidanza con la quale io intendo mostrarmi animoso contro ad alcuni che fanno stima di noi come se camminassimo secondo la carne.
Se anche quest'ultimo ammonimento rimarrà senza effetto, Paolo mostrerà coi fatti che non gli manca nè il potere, nè il coraggio del chirurgo quando si tratta di estirpare un male ribelle ad ogni cura. «Confidanza» indica la piena sicurezza di possedere l'autorità di cui si appresta a fare uso. Diodati, seguendo la Vulgata, traduce il verbo λογιξομαι come un passivo: «per la quale son reputato audace». Ma nella seconda parte del vers. Il verbo ha il senso attivo: «i quali reputano...»: e la costruzione più diretta e piana della frase conduce a dargli anche nella prima parte un senso analogo: «io intendo, fo conto di...». Quei tali contro cui Paolo intende procedere risolutamente e con rigore, non appartengono alla maggioranza della chiesa. Sono nella minoranza l'elemento più refrattario, più saturo dello spirito dei dottori giudaizzanti, e non cessano dal calunniar Paolo ed il suo apostolato, rappresentando la sua condotta come ispirata da moventi carnali, cioè terreni, egoisti, e non già nobili e spirituali. Sono essi che lo accusano di duplicità, di leggerezza, di spavalderia, di codardia, di motivi interessati, ecc.

Perciocchè, pur camminando nella carne, noi non guerreggiamo secondo la carne.
Il «perciocchè» prova una cosa non espressa, ma implicata nel v. precedente, cioè la falsità del concetto che taluni si facevano dell'Apostolo. «Ciò è falso, poichè...». Il camminar nella carne equivale al vivere nel corpo. Cfr. Filippesi 1:22,24; Galati 2:20. Paolo non è esente dalle necessità, dalle sofferenze ed anche dalle tentazioni inerenti alla vita terrena, nel corpo; ma, per la grazia di Cristo e per la virtù del suo Spirito, egli ha coscienza di non ubbidire nel suo ministerio a moventi carnali, di non esser guidato da norme carnali, terrene. A designare la sua attività come apostolo, Paolo si serve dell'immagine del guerreggiare. Cfr. 1Timoteo 1:18; 2Timoteo 2:3-4. La causa che egli vuol far trionfare è l'Evangelo. Il nemico da combattere è tutto quello che si oppone al trionfo del Vangelo nei cuori e nel mondo. Le armi sono i mezzi di cui si serve per lo spargimento e per la difesa del Vangelo. Il capitano sotto cui egli milita è Cristo stesso. Una tale immagine implica che la vittoria della verità cristiana incontra delle difficoltà gravi e numerose; ch'essa non si consegue se non a prezzo di molta vigilanza, di continue fatiche e di una devozione completa a Cristo.

A provare ch'egli non «guerreggia secondo la carne», Paolo adduce il fatto che le armi da lui adoprate non sono carnali, ossia non sono di quelle che la natura corrotta suggerisce ed opera.
Le armi infatti della nostra guerra
(lett. del nostro «servizio militare», le armi con cui facciam la nostra guerra)
non sono carnali
Per il pensiero cfr. 2Corinzi 1:12 ove parla di «sapienza carnale». Paolo ripudia le arti dei retori, le furberie 2Corinzi 4:2; l'adulterar l'Evangelo con la sapienza umana per renderlo più accetto 2Corinzi 2:17; il solleticar le passioni, gl'interessi terreni con blandizie, con ipocrisie, ecc. Cotali armi nel campo spirituale, sono, non solo indegne del Vangelo di verità, ma sono inefficaci e deboli. Ove si tratta di conquiste spirituali, bisogna che la mente sia illuminata; che il cuore sia persuaso ed attratto; che la coscienza sia svegliata e convinta cfr. 2Corinzi 4:1-6. Ora, questo non si ottiene che con armi spirituali, leali e sincere, armi che non derivano la loro efficacia dalla carne, ma dallo Spirito di Dio.
ma sono potenti per Dio, per l'atterramento delle fortezze;

atterrando noi i ragionamenti ed ogni baluardo innalzato contro alla conoscenza di Dio.
Invece di chiamare «spirituali» le armi che adopera, Paolo le descrive come «potenti per Dio», per opposizione alla impotenza dei mezzi carnali nella guerra che concerne la causa di Dio. «Per Dio» (τω θεω) viene a dire: «al servizio di Dio» e nell'interesse della sua causa. Altri intendono «al cospetto di Dio», o ancora «per opera di Dio». Di armi potenti ha bisogno chi combatte per Cristo, poichè l'uomo, spinto dal grande avversario di Dio cfr. Efesini 6:14; si premunisce contro al Vangelo con molti mezzi che l'Apostolo paragona a delle fortezze. Cosa intenda significare con quell'immagine, lo dice in 2Corinzi 10:5 ove accenna ai ragionamenti diretti contro alla vera conoscenza di Dio. C'è infatti tutta un'attività della mente umana diretta a sostenere l'errore ed a resistere alla verità di Dio. Cotale attività, ispirata per lo più dall'orgoglio umano, Paolo, rientrando nel linguaggio figurato l'assomiglia alle varie specie di opere che il nemico eleva al di sopra del suolo per impedire il rapido avanzare del regno di Cristo. Lett. ὑΨωμα vale «elevazione» e comprende muri, trincee, torri, ecc. Per «conoscenza di Dio» s'intende qui quella conoscenza che l'Evangelo dà, rivelandoci Dio qual Padre del Signor Gesù e autore della salvazione. La guerra apostolica, però, non ha solamente lo scopo negativo di distruggere i falsi ragionamenti, le vane scuse, i pregiudizi, gli errori; ma il suo scopo ultimo è di condurre gli uomini all'ubbidienza della fede nel Salvatore.
e traendo captivo ogni pensiero all'ubbidienza di Cristo.
Νοημα
può significare il «pensiero» o la «mente» ch'è il laboratorio da cui escono i pensieri. In questo contesto è più indicato il primo senso. Cfr. 2Corinzi 2:11. D'altronde, anche traducendo «intellectus» come la Vulgata, o «mente» come il Diodati, sarebbe sempre erroneo il trarre dalle parole di Paolo la condanna del libero esercizio della ragione umana, o la formula «philosophia ancella fidei». Spesso la ragione non giunge ad acquetarsi nella Rivelazione se non dopo aver sperimentata la propria impotenza a risolvere i maggiori problemi. Ad ogni modo, è sempre per via di libera convinzione che la mente arriva all'ubbidienza della fede, e che i pensieri di essa, prima ribelli od erranti, si arrendono a Cristo luce del mondo e fonte di sapienza. Se Paolo adopera l'immagine guerresca del «trar captivo» o del «far prigione di guerra», non vuol dire che i pensieri debbano cedere alla forza, poichè non si tratta qui di guerra condotta con armi carnali. Però, non tutti, nel mondo, sono disposti ad ubbidire al Vangelo cfr. 2Corinzi 4:1-6; e su di quelli nè la chiesa nè l'Apostolo hanno alcuna giurisdizione. «quel di fuori li giudicherà Iddio» 1Corinzi 5:13.

Ma, in seno alla chiesa, quando vi è disubbidienza alla verità sia dal lato dottrinale che da quello morale, l'Apostolo ha il dovere, per il bene dei traviati e per la tutela della società cristiana stessa, d'intervenire per riprendere, per correggere e, quando non si possa fare altrimenti, per punire.
ed essendo pronti a far giustizia di ogni disubbidienza, quando la vostra ubbidienza sia completa.
Paolo possiede l'autorità necessaria per procedere rigorosamente contro a coloro che in Corinto saranno perseverati nella loro ribellione, e si dichiara pronto a farlo quando la maggioranza della chiesa; progredendo sulla via del pentimento e della ubbidienza al Vangelo, avrà mostrato vieppiù chiaramente di separare la sua responsabilità da quella di coloro. La necessità di illuminar la chiesa, di ricondurla sulla retta via, di dissipare i malintesi, è quella che ha indotto Paolo ad usare di molta longanimità. Parlando di «far giustizia di ogni disubbidienza», allude alla esclusione dalla chiesa, la quale poteva essere accompagnata di un qualche flagello corporale inflitto in; virtù di un potere speciale degli apostoli cfr. 1Corinzi 5; 1Timoteo 1:20; Atti 5.

AMMAESTRAMENTI
1. Non è cosa facile per il ministro di Cristo il difendere se stesso dalle accuse degli avversari. Egli può dare importanza a delle inezie, o lasciarsi trascinare dalla passione, ovvero ancora mancare di risolutezza. Dall'esempio di Paolo impariamo che ci possono essere delle circostanze in cui la causa del Vangelo rende necessaria per il ministro una energica rivendicazione della propria autorità e del Proprio prestigio morale. La mitezza di cui Cristo ci dà l'esempio ed alla quale dobbiamo ispirarci, può esser giudicata viltà ed un atto di fermezza coraggiosa esser richiesto per debellare un edificio di accuse o di sospetti. Sia ogni atto simile ponderato, esente di passione, preceduto da molta pazienza, improntato a franchezza.
2. Solo quando tutti i mezzi della persuasione sono rimasti inefficaci, Paolo si risolve ad esercitare una disciplina punitiva e severa nella chiesa. Nè dimentica che l'esercizio di una tale disciplina è efficace solo nella misura in cui la chiesa è già, nella sua maggioranza, ubbidiente al Vangelo. In una chiesa spiritualmente morta od indifferente, la disciplina farebbe l'effetto di una operazione chirurgica sopra un corpo che non ha sufficiente vitalità per sopportarla.
3. L'opera assegnata al ministerio evangelico è una guerra, ma una guerra spirituale che va combattuta con armi spirituali, non carnali. Queste ultime non sono degne della causa della verità di Dio e sono impotenti a procacciarle la vittoria. Non è colla forza, non è coll'influenza esercitata dalla ricchezza, dall'alta posizione sociale; non è colle arti, colle furberie, colle adulazioni, col sollecitare gl'interessi, nè con tanti altri mezzucci inventati dall'abilità umana che le menti possono esser illuminate, le coscienze guadagnate ed i cuori attratti a Cristo. La verità di Dio esposta con fedeltà, con sincerità, con potenza di Spirito, è l'arma con cui Dio abbatte le fortezze erette dal pregiudizio, dall'ignoranza o dall'orgoglio dell'uomo naturale contro all'Evangelo. Nulla è più atto a dimostrare la corruzione dell'uomo, della cura che adopera nel premunirsi contro alla grazia di Dio e nulla è più atto ad esaltar la misericordia di Dio della perseveranza con cui cerca l'uomo ribelle per trarlo a salvazione mediante la fede.

Sezione B 2Corinzi 10:7-11 AUTORITÀ REALE
L'autorità che Paolo ha ricevuta dal Signore non è vana millanteria, ma è cosa reale

Nella preghiera rivolta da Paolo ai Corinzi di non costringerlo a spiegar tutta la sua autorità in mezzo a loro, pur dichiarandosi pronto a punire, era implicata una chiara coscienza della realtà dell'autorità apostolica da lui posseduta. Codesta realtà egli l'afferma in modo esplicito in 2Corinzi 10:7-11; dichiarando ch'essa non teme la prova dei fatti.
Guardate voi a quello che cade sotto gli occhi?
La frase è stata intesa in tre modi. Considerando il verbo (Βλεπετε) come un indicativo, ne viene questo senso: «Voi guardate alle apparenze; fate gran caso di chi sa farsi valere, e sprezzate chi è più modesto e rifugge dall'ostentazione. Or bene se alcuno... ecc.». Se invece il verbo si prende come imperativo, il senso sarebbe: «Ponete mente a quel che avete innanzi agli occhi e non potrete negare l'evidenza della mia autorità apostolica, poichè voi stessi siete l'opera mia nel Signore». Se poi si considera la frase come interrogativa, si ha la traduzione che abbiamo data: «Riguardate voi alle apparenze? Parrebbe, poichè giudicate di me a quel modo. Or bene io non ricuso di sottostare neanche a questo criterio imperfetto e di sottoporre le mie credenziali apostoliche alla stregua dei fatti esterni e visibili». Questa interpretazione conserva alla frase la sua vivacità e risponde bene alla posizione del verbo nel greco. Per l'idea, corrisponde a quanto leggesi 2Corinzi 11:18; 12:6 da cfr. anche con 2Corinzi 3:1-3;1Corinzi 9:2 e con 2Corinzi 10:14,18.
Se alcuno è persuaso in sè stesso di essere di Cristo, pensi del pari questo in sè medesimo, che siccome esso è di Cristo, così ancore noi [lo siamo].
Dal fatto che adopera qui il pron. singolare τις (alcuno), a 2Corinzi 10:10 il verbo al singolare secondo il testo emendato, ed a 2Corinzi 10:11 dice «quel tale», a 2Corinzi 11:4 «colui che viene», si è voluto trarre la conclusione che l'Apostolo avesse in vista un individuo particolare, un dottore giudaizzante che capitanava il partito anti-paolino in Corinto. La conclusione non regge, poichè Paolo in questi stessi capp. parla spesso dei suoi avversari al plurale. Cfr. 2Corinzi 10:2,12; 11:5,12,15,18,22; 3:1. È probabile che il movimento giudaizzante in Corinto avesse dei capi; ma il singolare usato occasionalmente è una semplice personificazione o individualizzazione di codesti detrattori dell'apostolo. L'esser di Cristo significa. altrove, appartenere a lui come membro del suo corpo, essere a lui unito per la fede 1Corinzi 15:23; Galati 3:29; Romani 8:9. Conviene tuttavia ricordare che, in Corinto, esisteva un partito giudaizzante anti-paulino, che si chiamava enfaticamente ed in senso esclusivo, «quelli di Cristo». Perchè assumessero un tal nome, non ci è detto apertamente. Pare ch'essi, oriundi di Palestina, vantassero oltremisura il privilegio d'aver conosciuto Cristo secondo la carne cfr. 2Corinzi 5:18; 11:22; e pretendessero di avere afferrato e di riprodurre meglio degli altri l'insegnamento del Maestro. Essi insistevano sul fatto che Gesù aveva osservata la legge mosaica, per imporne il giogo ai cristiani, ecc. L'«esser di Cristo» viene dunque a significare qui una connessione speciale con lui, un esser suoi discepoli, ma in un modo che non è di tutti. Sè alcuno, vuol dire l'Apostolo si persuade e mena vanto d'essere di Cristo in un senso speciale, ebbene rifletta che anch'io posso vantare un legame col Signore quale non è concesso a tutti. In 2Corinzi 11:23 dirà: «Sono essi ministri di Cristo? io lo sono più di loro». Alcuni codici sostituiscono addirittura qui «se alcuno si persuade d'essere servo di Cristo, ecc.». La chiosa non è autentica, ma quando Paolo afferma ch'egli «è di Cristo» in un senso più speciale e più vero di quanto lo fossero i giudaizzanti, egli pensa alla chiamata ricevuta dal Cristo glorioso sulla via di Damasco, chiamata che lo costituiva uno strumento eletto per portare il nome di Cristo dinanzi alle genti. Alla fantastica pretesa dei suoi avversari. Paolo oppone recisa affermazione della realtà della missione ricevuta. La lez. (Vulg. apud se) ritenuta dà maggiori critici, si può tradurre: «in sè medesimo», o «dentro di sè».

Intorno all'autorità connessa coll'ufficio apostolico ricevuto dal Signor Gesù; intorno alla estensione, all'efficacia di una tale autorità, Paolo potrebbe dire molto più di quanto abbia mai detto finora ai Corinzi; e ciò senza tema di venir smentito dai fatti. Costrettovi dalla necessità di rivendicare l'autorità sua, egli dirà in seguito una parte almeno di quello che potrebbe esporre.
Difatti, se anche io mi gloriassi alquanto più largamente dell'autorità nostra, - la quale il Signore ci ha data per la edificazione e non per la ruina vostra, io non ne riceverei confusione.
Il γαρ (difatti) si spiega così: Sono anch'io di Cristo che mi ha data grazia ed apostolato, e infatti la cosa è tanto vera, che se anche mi accadesse di gloriarmi assai più di quel ch'io faccia, dell'autorità ricevuta, non ne sarei svergognato. Ma Paolo vorrebbe non dover adoprar la podestà sua che per l'edificazione, cioè per lo sviluppo della vita cristiana nella chiesa mediante l'istruzione, l'esortazione, la consolazione, la correzione. Tale è infatti il fine precipuo dell'autorità degli apostoli. Solo in via eccezionale ed in caso di necessità, può essa adoperarsi per punire. In tal caso, se cagiona qualche ruina, sarà di quelle che la salvezza della chiesa richiede. Alcuni vedono qui un'allusione indiretta all'uso perverso che i dottori giudaizzanti facevano della loro autorità usurpata, seminando in seno alle chiese le divisioni e la ruina.

[E io dico] perchè non si creda
(lett. «affinchè io non paia...»)
ch'io voglia spaventarvi colle [mie] lettere.
Paolo proclama apertamente ch'egli potrebbe far valere assai più la sua autorità, e lo proclama affinchè non si creda dai semplici, sedotti dalle insinuazioni degli avversarii, che le minaccie, contenute nelle lettere rivolte alla chiesa, non siano altro che spavalderia. Il nesso dell'affinchè con quel che precede, si spiega da altri col supplire le parole: «[ma non lo faccio], affin di non aver l'aria...». Va notate però che, in seguito, lo farà. Quanto al connettere la frase con quel che segue a 2Corinzi 10:11, come fanno la Vulgata ed anche il Diodati, è cosa troppo forzata per esser discutibile. 2Corinzi 10:10 spiega meglio l'insinuazione che gli avversarii di Paolo andavano spargendo riguardo alle sue lettere.

10 Poichè le lettere, dice taluno (testo em.), sono bensì gravi e forti, ma la presenza dei corpo è debole e la [sua] parola di nessun valore.
Anche senza contare l'Epistola che sta scrivendo, Paolo ha scritto di già almeno due lettere ai Corinzi: quella perduta di cui 1Corinzi 5:9 e la prima ai Corinzi; per cui si può, dagli avversari parlare delle sue lettere al plurale. Essi le dicono gravi, perchè impongono rispetto per la serietà del contenuto e per l'autorità con cui sono dettate. Le dicono forti, perchè piene di energiche e severe rimostranze, spinte talora fino alle minaccie. Ma la presenza corporale o personale, di Paolo è ben diversa. È debole; non già perchè fosse piccolo di statura, o malaticcio di aspetto; ma perchè, secondo l'opinione dei suoi critici, quando era venuto a Corinto si era mostrato mancante del coraggio e dell'energia voluti per procedere rigorosamente. La parola viva di lui è giudicata parimente di nessun valore, di nessun conto, spregevole, non perchè l'Apostolo soffra di qualche difetto negli organi del parlare, o perchè maneggi poco bene la lingua greca, o non abbia il dono della parola (si confr. I discorsi di lui negli Atti, e nelle sue stesse lettere); ma piuttosto perchè persuasiva, mansueta, affettuosa, mancante di quella severità e di quella intransigenza che le lettere facevano prevedere. Parola di padre, anzichè di padrone. Sotto altra forma, gli avversarii ritrovavano qui l'inconseguenza, la duplicità rimproverate all'apostolo riguardo ai suoi piani di viaggio. Nelle lettere pareva un uomo, negli atti era un altro; e ne traevano la conseguenza ch'egli non possedesse veramente il potere che diceva di avere. Paolo respinge qui, come a 2Corinzi 1, la maligna insinuazione.

11 Faccia ben conto quel tale che quali siamo in parola, per lettera, essendo assenti, tali ancora [saremo], essendo presenti, a fatti.
Altri, rendendo il pensiero più generico, supplisce il presente: «tali ancora [siamo] presenti...». Il futuro corrisponde meglio alla risoluzione palesata da Paolo 2Corinzi 10:2,6; 13:2-3 di non voler risparmiare più alcuno quando verrà la terza volta a Corinto. Egli mostrerà che sa e può essere forte ed energico a fatti, come a parole, quando sia necessario. Non «è stata nè spavalderia nelle sue lettere, nè codardia ed impotenza nei suoi atti. Egli è stato e sarà eguale a sè stesso, pienamente conscio della sua autorità, ma non meno conscio dello scopo per il quale il Signore gliela aveva data.

AMMAESTRAMENTI
1. Lo spirito settario suole accaparrare per sè i nomi più significativi e belli, non riconoscendo ad altri che a quelli della setta il diritto di fregiarsene. I giudaizzanti di Corinto si chiamavano «quei di Cristo» ad esclusione perfino di un Paolo. Così nel corso della storia sono stati sciupati dall'abuso fattone dei nomi splendidi come ad es. quelli di «cristiani», di «cattolici», di «gesuiti». Facciamo in modo che il nome di «evangelico» non abbia a subire una sorte eguale. L'etichetta ormai conta poco; la realtà della vita cristiana è quella che va ricercata innanzi e sopra tutto, e riconosciuta con gioia dovunque si manifesti. Una chiesa che si dice di Cristo lo deve dimostrare colla vita e coll'attività cristiana, non meno che colla purezza della fede. Il vantare la successione apostolica non serve a nulla se non si cammina sulle traccie e secondo l'insegnamento degli apostoli. D'altra parte, possono incontrarsi in Cristo delle persone che differiscono radicalmente in molte cose.
2. L'esempio di Paolo che, pur essendo costretto dalla necessità di difendersi, non dice neanche tutto quel che con verità potrebbe dire di sè, ci ripete con novella forza il consiglio della sapienza antica: «Un altro ti lodi e non la tua propria bocca».
3. È dovere così del semplice cristiano come del ministro il mostrarsi coerente in tutta la vita. Chi non si mostra «santo in chiesa e diavolo in casa», chi è tale nella pratica quale appariva dagli scritti, chi risulta nei fatti quale lo facevano presagire le parole, rende all'Evangelo una testimonianza di alto ed indiscutibile valore. È grande la tentazione di farci, nelle nostre parole, migliori di quel che siamo in realtà, di assumere un'autorità, una competenza che oltrepassano la verità. L'essere leali e sinceri con noi stessi e cogli altri è l'unico mezzo di non essere mai svergognati.

12 Sezione C 2Corinzi 10:12-18 LA PROVA DEI FATTI
La realtà dell'autorità di Paolo è garantita dai risultati positivi di cui il Signore ha onorato l'attività del suo servo

I Corinzi guardano a quel che si vede e Paolo accetta anche lui di stare ai fatti positivi anzichè ai bei certificati che da sè stesso uno può decernersi. La condotta folle dei falsi dottori che raccomandano sè stessi e invadono il campo altrui, Paolo non l'imiterà. Egli si atterrà strettamente a quel che Dio gli ha dato di compiere nel campo a lui assegnato. I risultati concessigli dal Signore sono la più alta e la sola vera credenziale d'un apostolo.
Noi, infatti, non osiamo annoverarci o paragonarci con certuni di quelli che raccomandano se stessi.
Paolo dice «non osiamo» in senso ironico; egli non ha tanto ardire, nè lo invidia, poichè lo ritiene segno d'insano orgoglio. Egli non appartiene alla categoria di coloro che raccomandano sè stessi, quindi non vuole, nè annoverarsi fra loro, nella loro compagnia, nè paragonarsi con loro su quel terreno. Le persone cui allude l'Apostolo sono manifestamente i suoi avversarii giudaizzanti. I quali, a Corinto, si vantavano d'esser Israeliti, d'essere «di Cristo», in modo esclusivo, d'esser «apostoli per eccellenza», ecc. Ma il criterio da loro adoperato per giudicar di sè e degli altri, Paolo lo ritiene non solo erroneo, ma dissennato.
Ma essi, misurandosi con se stessi, e paragonandosi con se stessi non hanno intendimento.
I dottori giudaizzanti stabiliscono da sè i requisiti che un apostolo deve avere e li stabiliscono prendendo sè stessi per misura o per norma di quel che esso dev'essere. Naturalmente, quando applicano a sè stessi una cotal misura, trovano che risponde bene, mentre non stimeranno vero apostolo chi, come Paolo, non è loro simile. Ma nell'agire a quel modo, essi mostrano di non avere intendimento, poichè la misura dev'essere una regola obiettiva, non subiettiva; e nel caso speciale, chi fissa, i requisiti per L'apostolato non è l'uomo, ma il Signor Gesù, che si è riservato di eleggere i suoi apostoli e di munirli di speciali credenziali. Il criterio dei giudaizzanti, ridotto ai suoi termini più semplici, tornava a dire che non «erano veri apostoli all'infuori di loro e dei loro simili. Paolo invece prova la realtà del suo apostolato seguendo il criterio obiettivo ed ineccepibile dei fatti, ossia dell'opera che il Signore gli ha concesso di compiere.

13 Noi invece, non ci glorieremo fuor di misura, bensì secondo la misura dei limiti che Dio ci ha assegnati per nostra porzione, dandoci di pervenire eziandio fino a voi.
Chi non ha per misura che sè stesso, i propri concetti od anche la propria vanità, può facilmente esser condotto a gloriarsi non solo oltre misura, ma fuor di ogni misura ragionevole. Paolo che vuole attenersi alla misura obiettiva fornita dalle disposizioni divine a suo riguardo, dall'attività che Dio gli ha dato di spiegare in un dato campo e dal frutti concessi alle bue fatiche, Paolo non può gloriarsi fuor di misura. I limiti del suo gloriarsi sono quelli stessi fissati da Dio alla sua attività. Κανων (canone) significa propriamente la canna da misurare, quindi la regola, la norma cfr. Galati 6:16; Filippesi 3:16. Qui però ha il senso più lato di «superficie misurata», e viene a significare la cerchia d'attività, i limiti, i confini assegnati al campo di lavoro dell'apostolo. In modo generico, codesto campo abbracciava i popoli pagani, ma in pratica la sfera d'attività di Paolo si restringeva a quella parte del campo in cui gli era dato di gettare il seme evangelico. Questa è la «porzione (dice lett. di nuovo misura) assegnatagli da Dio», il quale distribuisce il lavoro fra i suoi operai. Nel «far le parti» (μεριζειν) Dio ha incluso la Macedonia e l'Acaia nel campo affidato a Paolo e gli ha concesso di giungere, nel suo secondo viaggio missionario, fino a Corinto ove ha potuto fondare una chiesa fiorente. Questa chiesa, gl'intrusi giudaizzanti venuti dalla Palestina cercano di accaparrarsela quasi fosse opera loro. Ma l'Apostolo non è disposto a lasciarli fare. Egli non vuole invadere il campo altrui, ma quello che Dio gli ha affidato, egli lo rivendica come suo. È questione di fatti.

14 Difatti, noi non ci estendiamo oltre il dovuto, come se non giungessimo fino a voi, poichè siamo giunti eziandio fino a voi nella predicazione del Vangelo di Cristo.
Non c'è, da parte di Paolo, alcuna esagerazione od usurpazione, nel considerare Corinto come incluso nel campo da Dio assegnatogli. È un fatto innegabile ch'egli è giunto fino a quel punto nell'opera sua missionaria. L'espressione concisa «nell'Evangelo di Cristo» non può significare che «nell'opera della propagazione del Vangelo».

15 Noi non ci gloriamo fuor di misura nelle fatiche altrui.
Il gloriarsi di quel ch'è frutto delle altrui fatiche, è un gloriarsi fuor d'ogni giusta misura. Così facevano gl'intrusi giudaizzanti che volevano soppiantar Paolo in una chiesa da lui fondata. La regola dell'apostolo è, invece, di non portare l'Evangelo là dove altri operai han principiato a lavorare Romani 15:17-21. Seguendo codesta norma, ora che l'Evangelo è stato annunziato nei principali centri dell'Oriente, Paolo volge lo sguardo all'Occidente, sperando che lo stato più soddisfacente della chiesa di Corinto gli consenta di partire per regioni più lontane, col cuore libero di ansietà.
Ma nutriamo speranza che, col crescer della vostra fede, noi saremo fra voi, nei limiti fissatici, grandemente magnificati,

16 così da [poter] evangelizzare le contrade che sono di là da voi, e senza gloriarci, nel campo assegnato ad altri, di lavori bell'e fatti.
Come si ha da intendere il verbo μεγαλυνθηναι (esser magnificato)? All'attivo esso vale «ingrandire» materialmente Matteo 23:5; ovvero «magnificare» estender la gloria di uno Luca 1:46; Atti 5:15; 10:46; 19:17; Filippesi 1:20. Qui non si tratta di statura neppure in senso figurato, e neanche di gloria che Paolo speri per sè stesso. Quel che Paolo attende dal crescer della fede dei Corinzi è che il suo ministerio apostolico raggiunga appieno il suo scopo in Corinto, sia nel portare la vita cristiana della chiesa a maggior maturità, sia nell'estendere a un maggior numero di persone i benefizi della salvazione. In quel senso desidera l'Apostolo d'esser grandemente magnificato in quella parte del campo assegnato alla sua attività, poichè allora soltanto, sarà in grado di attuare il progetto, ch'egli accarezza da molti mesi, di recarsi, cioè, nelle contrade occidentali: in Italia ed in Ispagna Atti 19:21; Romani 15:23-24,28. Se invece di fra voi, si rendesse da voi, il senso muterebbe di poco. Ad ogni modo, recandosi ad evangelizzare «le contrade che sono al di là» di Corinto, Paolo non intende - gli giova il ripeterlo - venir meno alla regola seguita fin qui, di non invadere il campo altrui e di non portare al suo attivo i lavori compiuti da altri operai. Dissodare terreni vergini, conquistar per Cristo nuove contrade, tale è la sua grande ambizione. Paolo ha parlato di gloriarsi di questo o di quello; ma a scanso d'ogni equivoco, egli ricorda che il solo gloriarsi legittimo per un servo di Cristo, è il gloriarsi a nel Signore», cioè in quello che il Signore si è degnato fare di noi ed operare per mezzo nostro nel campo ch'egli ci ha assegnato. Ogni altro vanto è usurpazione o vana millanteria.

17 Or chi si gloria si glorii nel Signore;
Cfr. 1Corinzi 1:31. 2Corinzi 10:17 ricorda le parole di Geremia 9:23-24; pur non essendo una citazione di quel passo. Considerando la frase come di Paolo, ne risulta che il Signore designa il Signor Gesù. A lui deve far capo, in definitiva, ogni vanto, poichè da lui procedono ogni grazia, ogni dono speciale, ogni forza, ogni successo. «Che hai tu che tu non l'abbia ricevuto, e se l'hai ricevuto, perchè te ne glorii tu...?».

18 poichè non colui che raccomanda se stesso è approvato; bensì colui che il Signore raccomanda.
Ciò posto, la raccomandazione che uno fa di sè stesso, a parole, non ha valore alcuno. Non può considerarsi «approvato» se non l'operaio che il Signore stesso raccomanda, ponendo sull'opera di lui il suggello divino della sua benedizione.

AMMAESTRAMENTI
1. La misura con cui dobbiam misurarci in fatto di vita e di attività cristiana, è la Parola di Dio. Ivi sono tracciate le regole del bene; ivi ci è posto dinanzi il modello supremo e perfetto nella vita di Cristo. Ma come nella Sacra Scrittura, così nelle pagine della storia ed anche intorno a noi non mancano gli esempi che possono giovarci. Non siamo soli cristiani nel mondo, e le virtù del minimi fra i nostri fratelli sono atte ad umiliare il nostro orgoglio, a scuotere la nostra pigrizia, a ravvivare il nostro zelo languente. L'aprir gli occhi sull'opera della grazia negli altri sarà rimedio efficace contro il nostro naturale esclusivismo.
2. Come ogni membro nel corpo di Cristo ha la sua funzione 1Corinzi 12, così ad ogni operato il Signore assegna il suo campo di lavoro. A noi spetta d'intender rettamente la voce del Padrone quando ci mostra, in varie guise, qual'è il campo nel quale egli ci chiama a lavorare. Parimenti, per una chiesa di Cristo, il portare o no l'Evangelo in una data contrada, non è cosa da decidersi senza maturo esame di tutte le circostanze provvidenziali che possono giovare ad una savia risoluzione in cui si abbia di mira, sopra ogni cosa, non la propria gloria, ma la prosperità dell'opera del Signore. Paolo rifugge dall'invadere il campo assegnato da Dio ad altri operai; egli occasionalmente visiterà la Palestina e contribuirà all'edificazione delle chiese giudeo-cristiane, ed al sollievo dei poveri di Gerusalemme; ma il suo campo è altrove, e quando ha piantato l'Evangelo in Asia Minore ed in Grecia si volge all'estremo Occidente. «Perchè, domanda con ragione il prof. Denney, dovrebbero le chiese competere? Perchè le loro agenzie sovrapporsi l'una all'altra? Perchè rubare all'ovile l'una dell'altra? Perchè dovrebbero preoccuparsi di bollare col proprio bollo privato tutti i credenti, quando il mondo giace nel maligno il campo è abbastanza vasto per gli sforzi di tutti gli evangelisti e fin tanto ch'esso non è stato seminato della buona semenza da un capo all'altro, non vi può esser che riprovazione per chi invade il campo altrui». Certo si è che la pace e l'unità fra le membra del corpo di Cristo sarebbero anch'esse grandemente avvantaggiate, se ciascuno si attenesse al campo assegnatogli dal Signore.
3. Il suggello più autentico della vocazione d'un operaio del Signore, è la benedizione di Dio sopra l'opera di lui. La chiesa non ha il diritto di ricusare coloro che il Signore visibilmente raccomanda. Anche per la coscienza stessa dell'operaio, il suggello divino sarà sempre il più ambito ed il più prezioso. Respinto o sprezzato dagli uomini, il servo di Cristo si rifarà, con sicura coscienza, alla raccomandazione concessagli dal Signore. Chi, nel tirocinio fatto al principio della carriera, ha potuto aver la prova che Dio gradiva l'opera sua, considererà una tale «raccomandazione» come il migliore dei diplomi.