Giovanni 1
1 CAPO 1 - ANALISI
I. Il Prologo all'evangelo nel quale, guidato dal Santo Spirito, l'Apostolo stabilisce qual base della sua storia, l'origine e il rango di Colui, i cui miracoli e la cui dottrina egli sta per esporre, e ciò col duplice scopo di sollevare, fin dal principio, la mente del lettore a quell'altezza cui è necessario alzarsi per comprenderli; e di combattere concetti erronei già esistenti, o che potrebbero svilupparsi, riguardo al suo diletto Signore e Maestro. Partendosi dallo stesso punto che Mosè nella Genesi, vale a dire dalla Creazione, egli dichiara l'eterna preesistenza della Parola (Gesù Cristo) Giovanni 1:17; la sua relazione e cooperazione attiva col Padre; e l'assoluta sua divinità. A Lui viene attribuita, nel suo senso più esteso, l'opera della creazione; ogni luce, ogni vita hanno la loro sorgente in Lui. Qual Luce, egli risplendè sopra un mondo giacente nelle tenebre e nell'ombra della morte, mediante tutti i raggi di conoscenza naturale o rivelata di cui goderono gli uomini, prima della incarnazione; ma risplendè nelle tenebre, perché, gli uomini "non presero piacere nella conoscenza delle sue vie" Giovanni 1:1-5. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta. Viene quindi la incarnazione del Figliuol di Dio, preceduta dalla testimonianza colla quale il Precursore Giovanni Battista lo proclamò Luce del mondo; la sua reiezione per incredulità per parte di quelli di "casa sua", ossia dei Giudei, i quali erano stati scelti come un popolo speciale, e chiamati ad essere i primi sudditi del suo regno messianico; e la sua accettazione, per fede, da individui isolati di quel "popolo disubbidiente e contraddicente", colla benedizione speciale concessa a tutti quelli che sono "fatti figliuoli di Dio" Giovanni 1:6-14. La gente dunque, avendo visto il miracolo che Gesù aveva fatto, disse: "Questi è certo il profeta che deve venire nel mondo". Finalmente, ricordata la testimonianza colla quale il Battista proclamò che il Messia gli era grandemente superiore, in conferma della dichiarazione dell'evangelista stesso che "l'Unigenito del Padre" è "pieno di grazia e di verità", egli illustra questa verità parlando della pienezza di Cristo, della sua superiorità su Mosè, e del fatto che nella sua persona è rivelato il Padre, cui egli è uguale e appo cui egli era al principio, prima che tutte le cose fossero create Giovanni 1:15-18.
II. La testimonianza resa a Gesù, qual Messia, da Giovanni Battista. La parte storica di questo Vangelo comincia con un breve cenno dell'opera del Precursore, simile a quello che troviamo nei Vangeli sinottici. La testimonianza del Battista, quale ci viene ricordata, fu rivolta a diverse persone e in giorni differenti:
1) Ad una delegazione di sacerdoti e di leviti della setta dei Farisei, mandata dal Sinedrio giudaico, qual custode della religione nazionale, per fare una inchiesta sulla sua persona e sul suo insegnamento. A quella egli confessò francamente di non essere il Messia, e che il suo battesimo era solo il preludio e la preparazione della venuta della "Speranza d'Israele", la quale già trovavasi fra loro, sulle rive del Giordano.
2) Alla moltitudine che ascoltava la sua predicazione, e alla quale, il giorno seguente, egli additò Gesù lì presente, chiamandolo: "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", accertando tutti che secondo una previa rivelazione di Dio, egli aveva, coi propri occhi "veduto lo Spirito, ch'è sceso dal cielo in somiglianza di colomba, e si è fermato sopra lui."
3) A due dei propri discepoli, ai quali, nel terzo giorno egli additò nuovamente Gesù quale "l'Agnello di Dio", Giovanni 1:19-36.
III. Il principio dell'opera di Gesù. Le prime espressioni di fede in lui qual Messia promesso, vennero da Andrea e Giovanni (i due discepoli cui il Battista lo aveva specialmente additato), i quali seguirono immediatamente Gesù, e dopo essere stati alquanto in sua compagnia credettero in lui e lo ricevettero come il loro Signore e padrone. Filippo di Betsaida fu "trovato" egli pure dal Signore, il quale gli concesse la grazia di credere in lui; e la loro fede portò immediatamente i suoi frutti, poiché, Andrea andò in cerca di suo fratello Simone, e Filippo del suo amico Natanaele, per condurli amorevolmente a Gesù. Il capitolo si chiude col bel carattere che il Signore ascrive a Natanaele (Bartolomeo), il quale credette, solo perché, Gesù gli si dimostrò onnisciente, e al quale il Signore disse che vedrebbe ben più abbondanti prove della sua divinità premiando così la sua fede con nuove e larghe promesse Giovanni 1:37-51.
Giovanni 1:1-18. IL PROLOGO ALL'EVANGELO
1 Nel principio la Parola era,
Giovanni principia il suo Vangelo colla parola stessa colle quale Mosè cominciò già il libro della Genesi; ed un Giudeo leggendole doveva naturalmente pensare al senso che esse avevano, come periodo di creazione, principio di tutte le cose. Tale probabilmente fu lo scopo dell'Evangelista; ma egli dà a quelle parole un valore più alto di quello che aveva dato loro Mosè. Questi infatti ci presenta Iddio solo al cominciamento del tempo, al principio della sua meravigliosa opera di creazione; ma con questa parola Giovanni ci dà una idea di "anteriorità al tempo di qualcosa cui il creato è posteriore". Essa significa prima di qualsiasi altra cosa, o come il Salvatore stesso la spiega: "avanti che il mondo fosse", "avanti la fondazione del mondo", Giovanni 17:5,24. Si fissi qualsiasi momento si vuole come il principio, prima di quello la Parola (era), cioè già esisteva. Il verbo impiegato senza cambiamento nei vers. 1 e 2 a modo di antitesi nel vers. 3 (che è la parola impiegata a dire quello che fu creato), descrive la esistenza durevole e senza tempo del Figliuol di Dio. Nel vers. 3 ogni creazione è attribuita a Lui, il che implica che egli esisteva avanti ogni cosa creata. Gli Ariani sostenevano che vi fu un tempo, nel quale il Figliuol di Dio non esisteva, ma Giovani dice chiaramente che il Figlio, ossia la Parola, già esisteva, prima che cominciasse il tempo, cioè da ogni eternità, quindi egli è necessariamente Iddio uguale al Padre. La persona qui chiamata la Parola (il Logos), per la quale furono create tutte le cose Giovanni 1:3; la quale s'incarnò Giovanni 1:14; cui Giovanni rese testimonianza Giovanni 1:15, che rivelò il Padre Giovanni 1:18, è espressamente dichiarata, essere Gesù Cristo Giovanni 1:17. Benché, questo titolo (il Logos), non venga dato a Cristo nei Sinottici, l'uso che ne fa Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, senza commento o spiegazione di sorta, prova che esso era familiare, così a lui, come a quelli fra i quali il suo Vangelo venne primieramente messo in circolazione, e possedeva per essi un significato ben noto e chiaramente definito. Se non fosse stato così Giovanni, che spiega con tanta cura i nomi e gli usi dei Giudei ai suoi lettori Gentili, avrebbe fatto lo stesso riguardo al vocabolo Logos. Come fu egli dunque condotto, sotto la ispirazione dello Spirito, a chiamare l'incarnato Figliuol di Dio "il Logos?". Un attento esame dei modi di parlare e di pensare, così dei Giudei come dei Gentili, ai giorni di Giovanni, ci prova che quel termine era di uso comune, benché, diversi fossero i significati attribuitigli. Esso aveva il duplice significato di parola e di ragione, e in quest'ultimo senso ci si presenta spesso negli scritti dei filosofi Greci. da Platone in poi; nella teosofia dei filosofi orientali, prima di Giovanni; e nella filosofia eclettica e mistica Giudeo-Alessandrina, di cui Filone, contemporaneo di Giovanni, era il rappresentante. Israelita per nascita, questo filosofo pretende fondare la sua filosofia sull'Antico Testamento; ma ne interpreta le dottrine coi concetti dei filosofi greci, e colla teoria orientale di emanazioni dalla essenza divina. "In lui, il giudaismo, misto di ellenismo, cerca di alzarsi fino al punto di realizzare, per la forza del pensiero, il vero significato della idea messianica" (Dorner). Secondo la sua teoria, Iddio è un essere assoluto, sublime, incomprensibile agli uomini, e non può entrare in qualsiasi rapporto colla materia. All'infuori di Lui, esiste la materia che è eterna ed è il principio del male. Non essendovi relazione alcuna fra Dio e la materia, il mondo, quale lo conosciamo, non avrebbe mai potuto essere prodotto, se non per l'intervento di un principio mediatorio, il quale è la ragione divina o il Logos, emanato da Dio. E difficile definire se il suo Logos fosse personale o impersonale; se fosse una persona o una idea imperocché, quantunque lo chiami la seconda deità, il Figliuol primogenito, arcangelo, l'immagine di Dio, il Figliuol di Dio, anteriore a tutto il creato, la definizione che egli ne dà coincide generalmente col concetto degli Stoici, che esso è "la ragione che sta diffusa fra tutte le cose", la quale dà vita e forma alla materia; ma egli è impossibile ricavare con qualsiasi certezza, dai suoi scritti, una dottrina un pò chiara. Non è certamente da tal fonte che Giovanni attinse questo termine; benché, il fatto che Efeso, al pari di Alessandria, era uno dei grandi centri della filosofia Giudeo Alessandrina, abbia potuto indurlo a sceglierlo appunto per correggere gli erronei concetti che prevalevano a suo tempo riguardo al Logos, e i quali, già nell'insegnamento di Simon Mago, Cerinto, ed altri primitivi nemici del Vangelo, erano il germe della eresia gnostica, sviluppatasi più tardi.
Havvi un'altra e più naturale sorgente dalla quale è probabile che l'apostolo togliesse questo termine, vogliamo dire gli scritti dell'Antico Testamento, e i Targum, ossia le Parafrasi di quelli. Questi ultimi, abbenché messi per iscritto solo in un'epoca posteriore, erano nella loro sostanza costantemente usati nelle istruzioni religiose, non solo in Palestina, ma pure fra i Giudei "della dispersione". In essi, la Parola, o la Sapienza di Dio viene generalmente personificata quale strumento per adempiere la volontà divina. Di questa personificazione della Parola, già vedonsi tracce leggere nei passi dove occorrono le parole e Iddio disse; mentre la Sapienza di Dio è impersonata in termini molto notevoli in Proverbi 8; 9. Negli Apocrifi, quella personificazione è già più completa che nel Vecchio Testamento, e viene maggiormente sviluppata ancora nei Targum. Ivi le parole Memra da Yeya (Parola del Signore), sono usate dovunque la Scrittura ricorda una comunicazione diretta di Dio all'uomo. In Genesi 28:20 Giacobbe fece un voto, dicendo: "Se Dio è con me, se mi protegge durante questo viaggio che sto facendo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi", laddove Giacobbe dice: "Se Iddio è meco ecc." i Targum leggono: "Se la Memra da Yeya mi guarderà ecc.". "Nel solo Targum di Onkelos sul Pentateuco, la Memra da Yeya è mentovata ben cinquanta volte, e nei Targum posteriori quest'uso e anche più frequente" (Watkins). Educato dall'infanzia nelle Scritture e nei Targum che servivano ad interpretarle; avvezzo a considerare la Parola di Dio come il rappresentante di Dio appo l'uomo insegnato dallo Spirito di Dio, come pure dalla propria esperienza, che nella persona di Gesù le nature divina ed umana sono intimamente unite; vivendo in Efeso fra gente, in mezzo alla quale, correvano da parecchie generazioni le idee Giudeo Alessandrine; e udendo continuamente far uso dei termini: il Principio, il Logos, la Vita, la Luce, la Pienezza, l'Unigenito, ecc. Giovanni fa precedere al suo Vangelo una breve prefazione, nella quale dà a conoscere il vero Logos, di cui essi parlavano così ciecamente ed ignorantemente, come un essere il quale da ogni eternità stava faccia a faccia con Dio, ed allo stesso tempo era egli pure Dio.
e la Parola era appo Dio,
Un uso consimile di con, si trova in Matteo 13:56; Marco 6:3; 9:19; 14:49; Luca 9:41; Galati 1:18; 1Giovanni 1:2.
"Queste parole indicano coesistenza e al tempo stesso distinzione di persone. E impossibile esprimere con una parola sola la forza della preposizione greca; essa suona ad un tempo esistenza separata e comunione intima. Ci dà due idee - che il Logos aveva una esistenza personale e conscia di sé, distinta da Dio (come uno è distinto dalla persona con cui dimora), era al tempo stesso unito con Dio in mutua intimità. Zaccaria 13:7 L'uomo che è mio compagno (amiti, il mio associato), dice il Signore degli eserciti" (Brown). "La Parola" non può intendersi qui nel senso di un attributo di Dio, perché, sarebbe una ripetizione vana il dire la ragione, o la sapienza, o la virtù di Dio sono "appo Dio". La distinzione, qui chiaramente espressa fra Dio e la Parola, è meglio spiegata ancora nelle parole di Giovanni.1:18 "l'unigenito Figliuolo che è nel seno del Padre".
e la Parola era Dio
L'articolo che accompagna; lo indica quale il soggetto qui, come nelle clausole precedenti; è il predicato, e rimane naturalmente senza articolo, perché descrive la natura della Parola. Questa clausola è, un passo avanti sulla precedente, imperocché, mentre mantiene la distinzione di persone e l'intimità della comunione fra il Logos e Dio asserisce al tempo stesso l'unità della loro essenza e della loro natura. La lezione "Dio era la parola", sostenuta da alcuni, è non solo grammaticalmente impossibile, ma in aperta contraddizione con quelle altre parole di Giovanni, colle quali egli distingue fra Dio e la Parola. Il vocabolo Dio, senza l'articolo, indica qui non già il Padre come nella clausola precedente, e nel ver. 2, bensì la essenza divina, nella quale il Figlio è uguale col Padre. Ognuna delle clausole di questo versetto è il complemento delle altre; ognuna corregge le false idee cui le precedenti potrebbero aver dato origine. Così: "La Parola, dice l'Evangelista era eterna, ma questa non era la eternità del Padre, né la eternità di un attributo del Padre, bensì di Uno che è, personalmente e in modo conscio di sé, distinto dal Padre eppure intimamente unito con lui. Né è questa distinzione e associazione di due esseri diversi, quasi che vi fosse più di un Dio, ma di due sussistenze nell'unico e sommo Iddio, in modo che l'assoluta unità della Divinità (sommo principio di ogni religione), anziché rimanere da questa dottrina compromessa, resta invece trasferita dalle ragioni di ombre astratte, in quelle della vita e dell'amore personale" (Brown). Tutto questo versetto, onestamente interpretato, è un argomento irresistibile contro tre classi di eretici:
1) I Sabelliani, i quali negano ogni distinzione di persone nella Trinità, e dicono che Dio si manifestò ora qual Padre, ora qual Figlio, ora quale Spirito Santo.
2) Gli Ariani, i quali mantengono che Cristo fu il più nobile degli esseri da Dio creati, ma inferiore a Dio, così per natura, come per dignità.
3) I Sociani o Unitari, i quali insegnano che Gesù Cristo non fu Dio in senso alcuno, e non ebbe esistenza qualsiasi prima di nascere dalla Vergine.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:2
2 2. Essa ( questa persona) era nel principio appo Dio
In questo versetto sono combinate le tre clausole del precedente, in modo che vi troviamo una enfatica riconferma della eterna distinzione tra la Parola e Dio Padre, e al tempo stesso della sua intima associazione con lui nella unità della divinità, anteriormente a qualsiasi atto creativo. Tali ricapitolazioni sono caratteristiche dello stile di Giovanni. Lo scopo speciale di queste parole sembra essere di prepararci al versetto seguente, nel quale l'Evangelista passa dalla persona della Parola, alle sue azioni.
3 3. Ogni cosa è stata fatta per essa,
panta, senza l'articolo, indica nel senso più assoluto la creazione dell'universo, essendone tutte le unità comprese nella clausola seguente. Paolo rende una testimonianza consimile 1Corinzi 8:6; Colossesi 1:16, confutando in tal guisa il senso che i Sociniani danno qui alla parola panta (tutte le cose), quasiché indicasse "tutte le grazie e tutte le virtù cristiane, il mondo morale nel suo insieme". Il mondo spirituale e il mondo naturale, gli angeli e gli uomini, le "cose invisibili e le cose visibili" sono comprese nel panta da lui chiamato all'essere. La dottrina qui insegnata che tutte le cose create furono chiamate all'esistenza dal Logos il quale era Dio e con Dio nega chiaramente l'eternità della materia, e l'esser d'essa la origine del male, come era stato insegnato dai filosofi greci e fu dipoi dagli Gnostici; e nega del pari i principi dualistici del bene e del male, professati dai Manichei. "Le dottrine distintive di tutti gli Gnostici erano che il Creatore non è l'Iddio supremo, e che la materia (hule) l'esser d'essa la sorgente di ogni male nelle parole: "ogni cosa è stata fatta per essa" di questo versetto, abbiamo la risposta alla prima di quelle dottrine; in quelle di Giovanni 1:14 "la Parola è stata fatta carne", abbiamo la risposta alla seconda (Watkins). La preposizione (per), non implica inferiorità alcuna di Dio Figlio a Dio Padre, quasiché il Figlio non fosse se non un agente o strumento del Padre poiché, viene spesso applicata al Padre medesimo Romani 11:36; Ebrei 2:10. D'altra parte questa clausola non significa punto che la creazione non sia in alcun senso l'opera del Padre. Entrambi, il Padre e il Figlio ebbero la loro parte nell'atto creativo; ma esprime la diversità delle loro relazioni col creato intero. Questa distinzione è messa in chiaro da Paolo 1Corinzi 8:6, coll'usare le preposizioni da, fuor da, indicante l'origine, la sorgente, e per, riguardo al Padre e alle sue relazioni con tutto quello che esiste, i credenti compresi; e la proposizione (mediante), riguardo al Figlio e la relazione del mondo con lui.
e senz'essa niuna cosa fatta è stata fatta
Questa clausola non è solamente un parallelismo antitetico (benché di tali si diletti Giovanni), ma è intesa a dare pienezza enfatica a quanto precede: "Di tutte le cose che sono state chiamate all'esistenza, e ora esistono (tempo perfetto), (nemmeno una) fu chiamata ad essere senza di lui". La creazione di tutte le cose, nel senso più assoluto, è anche da Paolo attribuita chiaramente a Cristo Colossesi 1:16, quale agente efficiente di essa. Nel Codice Alessandrino, in quelli di Efrem e di Beza e in varie versioni primitive, è posto un punto fermo dopo le parole finali sono unite a Giovanni 1:4; ma i Codici Vaticano e Sinaitico non portano tal puntuazione, mentre la massima parte dei manoscritti ufficiali secondari; dei manoscritti posteriori; e delle versioni, fin dal tempo di Crisostomo, leggono questo versetto come lo lesse Diodati, e come lo leggiamo noi pure. Quelli che si oppongono alla puntuazione attuale, dicono che venne adottata in opposizione agli eretici di Macedonia, affin di mettere in chiaro che la clausola precedente applicavasi solo alle cose create, e non già allo Spirito Santo. Altri suppongono che i Padri più antichi univano le ultime parole di questo versetto al seguente, per evitare l'apparente tautologia di con. "Ma questa opinione cade dal momento che comprendiamo la relazione fra il perfetto (presente), e l'aoristo (passato). Non v'ha in tutto questo creato, il quale esiste dinanzi agli occhi nostri, un essere solo che non sia stato formato dalla Parola" (Godet).
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:10; 5:17-19; Genesi 1:1,26; Salmi 33:6; 102:25; Isaia 45:12,18; Efesini 3:9
Colossesi 1:16-17; Ebrei 1:2-3,10-12; 3:3-4; Apocalisse 4:11
Salmi 33:6; Giovanni 1:10; Efesini 3:9; Colossesi 1:16; Ebrei 1:2; Ebrei 11:3; Apocalisse 4:11
4 4. In lei era la vita,
In questo versetto l'Evangelista progredisce dalla Parola quale Creatore, alla Parola qual fonte e mezzo di comunicazione della vita a tutto ciò che fu creato da essa Giovanni 5:26. Zoe, senza l'articolo, significa qui vita nel suo senso più vasto e più illimitato, vita esistente in lui qual potenza creatrice e sommo principio di vita, e da lui comunicata a tutte le opere sue, così nel mondo fisico, come nell'intellettivo, nel morale e nello spirituale. Qui Giovanni non limita questo termine alla vita dell'uomo, distinguendola da altre forme inferiori di vita, né alla sua preservazione provvidenziale, né alla vita spirituale ed eterna che costituisce la vera vita dell'uomo, e della quale tanto ama parlare nei suoi scritti. Tutte queste cose sono comprese nella manifestazione della Parola, qual Signore e datore di vita, in unione col quale, dice Godet, c'era vita e perfetto sviluppo di esistenza per ogni essere, secondo la sua misura, e in conseguenza, per l'insieme degli esseri Atti 17:25,28.
e la vita era la luce degli uomini
Dal pensiero generico di ogni esistenza creata, l'evangelista passa in queste parole all'ultima e massima delle opere di Dio, vale a dire all'uomo, la cui creazione è ricordata nel primo capitolo della Genesi. La Parola non era soltanto la vita, ma pure la Luce, cioè la fonte e l'autore di ogni conoscenza, così naturale come rivelata. Lo stesso nome gli danno Isaia 9:l; 60:19, e Simeone Luca 2:32. Zaccaria gli dà un nome parallelo: L'Oriente Luca 1:78 e il Signore stesso spesso si chiama la Luce: "Io sono la luce del mondo; chi mi seguita non camminerà nelle tenebre, anzi avrà la luce della vita" Giovanni 8:12; vedi pure Giovanni 8:12; 9:5; 12:35-36,46. L'uomo fu posto in una sfera speciale fra i molti ordini della natura animata Genesi 1:26. Nei suoi fini adorabili, Dio intendeva servirsi di lui per la propria gloria, e perciò lo arricchì di un dono speciale, col quale lo elevò al disopra di tutte le creature. Quel dono consiste nella luce intellettuale, morale e spirituale, procedente dalla vita che gli fu data. L'imperfetto era ci riporta indietro all'alba del creato, tuttora senza macchia di peccato, prima che la notte avvolgesse il mondo morale, e quando Adamo presentava tuttora la gloriosa immagine di Dio. Esso insegna, che, già prima della caduta, Cristo, qual vita, doveva esser luce o guida dell'anima umana verso il cielo, e sorgente d'ogni bene per la coscienza e il cuore dell'uomo. Ma la luce non fu spenta dalla caduta, al contrario ci è detto nel versetto seguente: "la vera luce risplende" tuttora. Cristo è stato in tutte le età del mondo, e sarà fino alla fine, la luce, la salvezza e la consolazione di tutti quelli che già sono stati, o che saranno salvati.
PASSI PARALLELI
Giovanni 5:21,26; 11:25; 14:6; 1Corinzi 15:45; Colossesi 3:4; 1Giovanni 1:2; 5:11; Apocalisse 22:1
Giovanni 1:8-9; 8:12; 9:5; 12:35,46; Salmi 84:11; Isaia 35:4-5; 42:6-7,16; Salmi 49:6
Salmi 60:1-3; Malachia 4:2; Matteo 4:16; Luca 1:78-79; 2:32; Atti 26:23; Efesini 5:14
1Giovanni 1:5-7; Apocalisse 22:16
5 5. E la luce riluce nelle tenebre,
Le "tenebre" indicano qui il peccato, l'incredulità, l'allontanamento dell'uomo da Dio, conseguenze della caduta, e stato nostro normale d'allora in poi. Giovanni suppone evidentemente che i suoi lettori conoscono la storia della caduta. Qual contrasto fra la luce universale, (ver. 4). che regnava durante la breve dimora dei nostri primi parenti in Paradiso Genesi 2:1-25, e le fitte tenebre intellettuali, morali e spirituali qui descritte, e che furono la conseguenza della entrata del peccato nel mondo! Genesi 3:1-24 Esse coprono l'umanità intera, perché, caduta in Adamo, o per dirla colle parole dell'evangelista: "perché, tutto il mondo giace nel maligno" 1Giovanni 5:19. Eppure le tenebre non hanno potuto cancellare interamente la Luce (Tempo presente). Essa risplende tuttora; la sua, è luce ininterrotta dalla creazione alla consumazione di tutte le cose. Come Cristo è ora la "luce del mondo", così lo era pure prima della sua incarnazione; ed è del tempo che precedette quell'evento, che parla qui l'Evangelista. L'eterna Parola risplendè allora fra i Gentili mediante la luce della natura e della coscienza Romani 1:19-21; 2:14-15; e fra i Giudei, mediante i tipi, le profezie e le promesse del Messia contenute nell'Antico Testamento, in breve, e per quel che concerne entrambi, mediante tutti i raggi dell'insegnamento naturale o rivelato che furono concessi all'uomo, prima della incarnazione. Alcuni hanno voluto distinguere fra riluce, di questo versetto, e illumina, del ver. 9, Giovanni 1:9 quasiché il primo indicasse l'azione della luce in se, l'altro il suo effetto nell'illuminare gli uomini.
e le tenebre non l'han compresa
Questo si riferisce agli abitanti del mondo nel loro insieme, benché, vi fossero molte eccezioni nella persona dei fedeli, i quali, durante le dispensazioni patriarcali e levitica, aspettavano "la speranza d'Israele". Il senso del verbo (tradotto qui compresa) è che le tenebre morali e spirituali erano così fitte da non poter ricevere o abbracciare la Luce. Anziché, venire dissipate dai suoi raggi, le tenebre facevansi, col progredire dei secoli, ognora più fitte e più scure; la luce non produceva su di esso che poca o punta impressione, e questo prepara la via all'Evangelista per annunziare Giovanni 1:6, altri mezzi adottati da Dio per dissipare quelle tenebre, col portare la Luce in più diretto contatto con esse, mediante la incarnazione del suo Figliuolo. Tale è il senso generalmente ammesso dai critici e dai commentatori, benché, questo verbo si trovi con tal senso, solo un'altra volta nel Nuovo Testamento, Efesini 3:18. Ma Milligan e Moulton affermano che, usato nella voce attiva, esso non può mai avere il senso di "comprendere" e con essi stanno Origene, Grisostomo e altri Padri Greci. Lange e Westcott mantengono che il vero senso del verbo è qui vincere o sopprimere, e citano in appoggio, Giovanni 12:35 dove viene usato il medesimo verbo dove la metafora è la stessa. "Camminate, mentre avete la luce, che le tenebre non vi colgano". Il versetto dovrebbe, secondo loro, leggersi così: "La luce riluce nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno vinta". Questa interpretazione è grammaticalmente corretta e ci dà un senso molto soddisfacente, cioè, che la Luce ha sempre brillato, e che le tenebre, ad onta dei loro ripetuti assalti, non sono mai venute a capo di distruggerla, o di estinguerla, e non ci riusciranno neppure in avvenire. "Il dirci che le tenebre non hanno compresa la Luce, non è gran cosa, poiché, quelle sono tenebre volute. Ma è molto l'accertarci che, nel conflitto fra la luce e le tenebre, queste non han mai potuto estinguere od ecclissar quella" (Milligan e Moulton). Come preparazione all'annunzio della incarnazione del Figliuol di Dio, il nesso fra questo versetto, spiegato in questo modo, e il seguente sarebbe che, ben lungi dall'essere estinta dalle tenebre, la luce prosegue trionfalmente il suo corso e "va vie più risplendendo, finché, sia chiaro giorno" Proverbi 4:18. Però Godet dichiara "un tal senso inammissibile, poiché, il vero termine per esprimere una tale idea sarebbe Romani 1:28 mentre la parola mettere la mano sopra vien usato per esprimere la chiara apprensione di una idea o di un fatto." Con questo versetto, si chiude il primo paragrafo del Prologo, e Bengel così ne riassume il contenuto: "Nel primo e nel secondo versetto di questo capitolo vien ricordato uno stato preesistente alla creazione del mondo; nel terzo, la creazione del mondo; nel quarto, lo stato di innocenza dell'uomo; nel quinto, la sua caduta".
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:10; 3:19-20; 12:36-40; Giobbe 24:13-17; Proverbi 1:22,29-30; Romani 1:28; 1Corinzi 2:14
6 6. Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni,
Con questo versetto principia una nuova sezione del Prologo, nella quale l'Evangelista espone una relazione più stretta ancora fra l'uomo che vive nelle tenebre e la Luce di cui egli ha già parlato. Egli sceglie per punto di partenza l'apparizione dell'ultimo rappresentante dei profeti dell'Antico Testamento, il quale fu ad un tempo il testimone della "LUCE", e il precursore della "PAROLA fatta carne". Questo basta da se a provare che i cinque versetti precedenti non si dovevano intendere della Parola incarnata, o della vita e delle azioni di Cristo durante la sua dimora in terra, come mantengono i Sociniani.
il cui nome era Giovanni
Questo Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta Luca 1:5, era al tempo stesso sacerdote, nazireo e profeta, e perciò presentava un tipo perfetto della severità dell'Antico Testamento; ma egli fu "più che profeta"; fu araldo dell'evangelo, ed ebbe per ufficio di preparare la via "all'Agnello di Dio", e di additarlo agli uomini. Le parole colle quali egli ci vien presentato, contrastano con quanto ci è detto della Parola al ver. primo. Di Giovanni è detto egli divenne, o fu chiamato all'esistenza, mentre il verbo era, ci fa vedere la Parola esistente anteriormente ad ogni creazione egli è detto "un uomo", insignificante antitesi alla "Parola fatta carne", di Giovanni 1:14 ci vien descritto qual "mandato da Dio", per distinguerlo dalla Parola che era "appo Dio". Le parole fu e mandato devono venire considerate separatamente, perché, fissano la nostra attenzione la prima sulla persona, la seconda sull'opera del Battista, Confr. Giovanni 3:28; Malachia 3:1. E notevole che quantunque il titolo di "Battista", sia sempre dato a Giovanni dai Sinottici, ed egli fosse conosciuto sotto quell'appellativo così nella chiesa come al di fuori, (p. es. da Flavio Giuseppe), il nostro Evangelista non lo chiama mai con tal soprannome benché, ne parli ben venti volte; lo chiama sempre Giovanni. Eppure l'Evangelista era stato suo discepolo ed aveva imparato da lui a conoscere il Signore; se dunque omette quel titolo non è certo perché, non lo conoscesse, ma perché, vuole che si parli di un solo Giovanni. In tutto il suo Vangelo, egli non parla mai dell'altro, prova assai forte che quell'altro era lui stesso. "Siccome il titolo di Battista serviva nella Chiesa a distinguere il Precursore da un altro Giovanni, non meno celebre di lui, l'Evangelista, colla sua modestia abituale, evita di farne uso, per timore di attrarre indirettamente l'attenzione sulla propria persona" (Credner citato da Godet). Per quanto grande fosse il Precursore, il minimo nel regno dei cieli divenne maggior di lui sicché, nei secoli seguenti il discepolo divenne il solo Giovanni noto a tutti senz'altra designazione, mentre al suo primo maestro fu dato il nome di "Battista", che serve al tempo stesso a distinguere l'individuo, e a commemorare l'opera sua (Watkins).
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:33; 3:28; Isaia 40:3-5; Malachia 3:1; 4:5-6; Matteo 3:1-11; 11:10; 21:25
Marco 1:1-8; Luca 1:15-17,76; 3:2-20; Atti 13:24
Luca 1:13,61-63
7 7. Costui venne per testimonianza affin di testimoniare della Luce,
Queste parole descrivono la missione di Giovanni, prima nel suo aspetto generico, quindi nel suo oggetto speciale, mentre la clausola seguente ce ne dà lo scopo determinato da Dio. Ei venne ad esser testimone, e testimoniò di quanto eragli stato profeticamente rivelato da Dio, riguardo alla Luce che stava per manifestarsi in forma umana. L'intero corpo profetico, anzi le scritture tutte del Vecchio Testamento, era testimoni di questa Luce; ma Giovanni, ultimo dei profeti, fu il solo testimone vivente e personale della Luce, personale e vivente. Venne a testimoniare della Luce, con un mandato più esplicito di quello dei suoi predecessori; venne per spiegare agli uomini i segni del divino volere e della divina direzione in essi e fuor di essi, per quindi additare loro Colui che era in se stesso la Vita e la Luce. Il testimone verace dichiara quello che egli ha veduto e udito 1Giovanni 1:2-3, e la sua testimonianza riflette la verità, come lo specchio fedele la luce che cade sopra di esso. Osservisi che incontriamo qui per la prima volta la parola "testimonianza", tanto caratteristica degli scritti di Giovanni; ben cinquanta volte essa ci si presenta sotto varie forme nel Vangelo, e da trenta a quaranta volte nelle sue Epistole e nell'Apocalisse.
acciocché, tutti credessero per lui
(cioè: per mezzo di Giovanni) Venne a dar tal testimonianza alla Luce che tutti fossero condotti a crederla e ad arrendersi alla sua influenza. Quella testimonianza doveva esser resa in primo luogo alla casa d'Israele, ma sarebbe un errore supporre che tutti fosse ristretto a quella, imperocché il messaggio del Battista ha una potenza duratura ed universale. Egli tuttora cammina, in ispirito, dinanzi al Signore! Questo versetto ci fa vedere che la missione del Battista era intesa a portare dei frutti infinitamente più grandi di quelli che in realtà essa portò. Se Israele si fosse trovato nell'aspettazione fedele ed ubbidiente dell'adempimento della divina promessa, la testimonianza di Giovanni in favore di Gesù avrebbe convertito a Lui tutto Israele, e per mezzo di Israele "tutto" il mondo.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:19,26-27,32-34,36; 3:26-36; 5:33-35; Atti 19:4
Giovanni 1:9; 3:26; Efesini 3:9; 1Timoteo 2:4; Tito 2:11; 2Pietro 3:9
8 8. Egli (più enfatico del verso 7) non era la Luce, anzi era mandato per testimoniare della Luce
L'Evangelista sente la necessità di porre i suoi lettori in guardia contro l'idea che Giovanni fosse egli stesso il lumen illuminans, il "Sole della giustizia". Il titolo assegnatogli da Cristo fu quello di "lucknos una lampada ardente e lucente" Giovanni 5:35. C'era una buona ragione per questa precauzione da parte dell'Evangelista. Il potente ministero di Giovanni produsse un tal risveglio fra tutte le classi, che molti lo presero per il Cristo (Confr. Giovanni 1:19-20; Luca 3:15), e questa credenza, non venne interamente dissipata neppure dalle sue esplicite negazioni alla deputazione del Sinedrio Giovanni 1:20, né dalla apparizione e dalla predicazione di Gesù. Perfino dopo la morte del Battista, non pochi suoi discepoli persistettero nel tenersi lontani dal Messia, e Paolo, nel terzo suo viaggio missionario, ne trovò ancora alcuni in quella stessa città di Efeso, nella quale Giovanni scrisse dipoi il suo Vangelo. Il nostro Evangelista aveva probabilmente tali persone in vista quando, in modo così preciso, descrisse la missione di Giovanni come limitata a render testimonianza della vera Luce.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:20; 3:28; Atti 19:4
9 9. Colui, che è la Luce vera, la quale Illumina ogni uomo che viene nel mondo era
Il termine vera non è qui opposto a falso, spurio o ingannevole, ma distingue quel che è originale da quello che è secondario o derivato, e qualifica l'ideale perfetto in opposizione a tutte le sue riproduzioni più o meno imperfette. Il Battista non era che una luce secondaria, derivata da una sorgente superiore; Gesù stesso è la Luce primitiva e perfetta. In Giovanni 5:23 lo stesso aggettivo è usato degli "adoratori", per distinguere quelli il cui culto era reale e spirituale, da quelli che adoravano in modo imperfetto e meramente cerimoniale. In Giovanni 6:32 Gesù è chiamato "il vero pane celeste"; in Giovanni 15:1 "la vera vite"; così qui egli è detto "la luce vera", come essendo LA LUCE nel senso più alto, luce sostanziale e non solo riflessa, originale anziché, secondaria come Giovanni. La parola si trova in tutto il Nuovo Testamento quasi solo negli scritti di Giovanni. Dei ventotto passi che l'hanno, nove sono nel Vangelo, quattro nella sua prima Epistola, e dieci nell'Apocalisse, mentre i cinque rimanenti sono dell'Epistola agli Ebrei. La vera traduzione di questo versetto è incerta, essendo dubbio a qual clausola debbano riannodarsi le parole: "che viene nel Mondo". Il greco si legge così, e la traduzione del Diodati (che è pur quella dei Padri, della Volgata, di Lutero, di Calvino, di Bengel, e di molti scrittori moderni) è grammaticalmente corretta. Essa unisce la clausola: "che viene nel mondo", alle parole: "ogni uomo". Nella versione di Diodati "riveduta ed emendata" (pubblicata a Londra, nel 1855 dalla Società per promuovere le conoscenze cristiane, e nota fra gli evangelici italiani sotto il nome di Bibbia Guicciardini) si legge invece: "La luce vera era quella, la quale venendo nel mondo, illumina ogni uomo" e questo modo di tradurre è pure quello di non pochi critici e commentatori moderni. In sostegno di esso si dice che, aggiunte "ad ogni uomo" le parole: "che viene nel mondo" sono strane non solo, ma costituiscono una mera ripetizione, che non reca alla nostra mente idea definita alcuna, poiché, va da se, che ogni uomo viene nel mondo, alla nascita; al contrario, unite alla "Luce", esse corrispondono esattamente coll'uso che Giovanni fa altrove di questa frase. La troviamo sette volte in questo Vangelo Giovanni 3:19; 6:14; 9:39; 11:27; 12:46; 16:28; 18:37, e in ciascuno di questi passi l'Evangelista applica questa parola a Cristo; ed in Giovanni 3:19; 12:46 specialmente è applicata come qui a Cristo qual "Luce". Un'altra forte obbiezione al modo di tradurre di Diodati in questo passo, si è che esso richiederebbe l'articolo dinanzi ad altra parte, si dice che unendo il participio venendo a luce si dovrebbe tradurre "che veniva o stava per venire nel mondo", cosa non vera storicamente, poiché, al tempo in cui Giovanni testimoniava di lui, Gesù era già apparso in terra. Ma non è necessario di dare un tal senso alle parole: "che viene nel mondo"; esse indicano piuttosto lo scopo di Dio nel mandare la Luce nel mondo o l'opera gloriosa che la vera Luce doveva compiere, ovvero, come suggerisce Watkins, quelle parole descrivono una venuta progressiva e lenta, insieme ad una esistenza permanente, sicché, così il verbo era, come il participio venendo ritengono entrambi tutta la loro forza, e non formano una semplice parafrasi per l'imperfetto. La lezione che unisce "che viene nel mondo", alla "Luce vera" è dunque da preferirsi. Meyer fa osservare che il verbo era col quale questo versetto comincia è enfatico, e benché, differiamo da lui nella disposizione delle altre clausole, il suo modo di tradurre la prima ci par rendere più chiaramente il pensiero dell'Evangelista: "La vera Luce già esisteva, (in forma umana, sulla terra, quando Giovanni rendeva la sua testimonianza)", la quale, venendo nel mondo, allumina ogni uomo", cioè quello era lo scopo della sua venuta. "Se tale è il pensiero dell'evangelista, esso è una bellissima continuazione di quelli espressi in Giovanni 1:4-5. La vita era la Luce degli uomini, e benché, gli uomini le resistessero, mentre riluceva debolmente, prima della incarnazione, pure, quando venne nel mondo, (assumendo personalmente la carne, come è detto più sotto) si dimostrò la sola Luce capace di illuminare tutti gli uomini" (Brown). Questo versetto ci reca la solenne lezione che Cristo dispensa a ciascuno una luce tale da lasciarlo senza scusa, se trascura la sua grande salvezza.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:4; 6:32; 14:6; 15:1; Isaia 49:6; Matteo 6:23; 1Giovanni 1:8; 2:8; 5:20
Giovanni 1:7; 7:12; 12:46; Isaia 8:20; 1Tessalonicesi 5:4-7
10 10. Era nel mondo
Queste parole, ripetute dal ver. precedente, sono la base di uno sviluppo ulteriore del soggetto, che è sempre la Luce; ma qui la figura svanisce un poco per volta, affin di lasciare il posto alla Persona, come (maschile invece di neutro), alla fine del versetto, lo dimostra. La parola "mondo", ha vari sensi nel Nuovo Testamento e importa distinguerli. Significa l'universo Romani 1:20; la terra Giovanni 1:9; gli abitanti della terra Giovanni 1:29; Romani 1:29; e gli uomini malvagi ed increduli Giovanni 12:31; 14:17. In questo versetto la troviamo tre volte; le due prime, essa indica, come Giovanni 1: 9, il globo abitabile con quanto esso contiene, materiale, mentale, spirituale; l'ultima volta indica gli abitanti della terra. Notisi la semplicità dello stile di Giovanni; secondo la costruzione ebraica, i tre pensieri di questo versetto, benché, vari nelle loro mutue relazioni, sono però semplicemente posti uno accanto all'altro mediante la ripetizione della congiunzione e che noti indica solo continuità ma pure accrescimento. Invero, i tre membri di questo versetto già formano una progressione, ma confrontati con Giovanni 1:11, la progressione della incredulità ci appare in colori anche più scuri, a motivo della parentela col Signore di quelli che lo rigettano.
e il mondo è stato fatto per mezzo d'esso,
(Confr. con Giovanni 1:3) Il mondo adunque rappresentato dall'uomo, la prima fra le creature, dotato di facoltà spirituali per riconoscere la vera Luce, avrebbe dovuto riceverlo.
ma, (e) il mondo non l'ha conosciuto
(Confr. Giovanni 1:5) Il mondo intellettivo più non possedeva la sua facoltà di percezione spirituale e per indolente malvagia ostinatezza aveva perduto volontariamente quella poca luce che rimanevagli, prima dell'incarnazione di Cristo Romani 1:19-24. Questo è il primo ed infimo gradino di questa scala ascendente il mondo intelligente in massa più non conosceva il suo Creatore.
PASSI PARALLELI
Giovanni 18:5:17; Genesi 11:6-9; 16:13; 17:1; 18:33; Esodo 3:4-6; Atti 14:17; 17:24-27
Ebrei 1:3
Nota Giovanni 1:3
Geremia 10:11-12; Ebrei 1:2; 11:3
Giovanni 1:5; 17:25; Matteo 11:27; 1Corinzi 1:21; 2:8; 1Giovanni 3:1
11 11 è venuto in casa sua, e i suoi non l'han ricevuto
Diodati correttissimamente distingue fra casa sua, e i suoi, che certamente indicano due cose diverse, cioè la terra e il popolo d'Israele, i quali, meglio di qualsiasi altro paese o nazione, era la casa e la famiglia di Dio. La "casa sua" è il paese, la città, il tempio con tutte le speranze messianiche che vi andavano unite. Scelta dal principio per farvi abitare il suo popolo, avente una parte tutta sua nelle promesse messianiche la terra di Canaan apparteneva in modo affatto speciale a Dio. Vedi Salmi 132:13; Isaia 8:8; 56:7; 60:14; Zaccaria 11:12; Malachia 3:1. "I suoi" sono il popolo d'Israele, che passi innumerevoli dell'Antico Testamento ci presentano come essendo in relazione affatto speciale con Dio (Vedi Salmi 135:4 un tesoro; Deuteronomio 9:26; Geremia 10:16 un'eredità; Deuteronomio 32:9 la parte del Signore; Deuteronomio 26:18-19 un popolo peculiare, un popolo santo; Salmi 148:14 suo popolo prossimo). Il secondo gradino della scala si è che il Redentore venne alla propria casa, alla propria eredità, al paese dove il culto del vero Dio era stato da tanto tempo stabilito, ma non vi fu ricevuto - "non ebbe pur dove posare il capo". Il terzo e l'ultimo gradino si è che egli venne al proprio popolo, ai sudditi immediati del suo regno messianico, ai quali erano stati commessi gli oracoli di Dio Romani 3:2; di cui erano le promesse Romani 9:4; che per molti secoli erano stati educati dai profeti ad aspettare, la sua venuta; ma la maggioranza di essi, e specialmente i loro rettori, anziché, riceverlo a braccia aperte e con allegrezza come era da aspettarsi, lo rinnegarono, lo rigettarono, lo, crocifissero (Vedi Matteo 22:1-6; Luca 20:13-15). "La parola ricevere in casa esprime perfettamente la natura dell'accoglienza che il Messia aveva il diritto di ricevere. La nazione intera avrebbe dovuto riconoscerlo ufficialmente qual Messia, e adorarlo qual Dio" (Godet).
PASSI PARALLELI
Matteo 15:24; Atti 3:25-26; 13:26,46; Romani 9:1,5; 15:8; Galati 4:4
Giovanni 3:32; Isaia 53:2-3; Luca 19:14; 20:13-15; Atti 7:51-52
12 12. Ma a tutti coloro che l'han ricevuto,
In mezzo all'incredulità universale il Signore si era pur serbato "alcun piccolo rimanente", il quale "aspettava la consolazione d'Israele", e lo accorse come un amico lungamente desiderato (Simeone, Anna ed altri i cui nomi non sono ricordati Luca 1:25-38). Le parole: "tutti coloro che l'han ricevuto", benché, in apparenza abbraccino meno persone che "i suoi" del versetto precedente, hanno in realtà un senso assai più esteso, perché, racchiudono non solo gli individui che credettero fra i Giudei, ma pure tutti quelli, i quali in ogni paese o in ogni popolo han ricevuto o riceveranno nei loro cuori la Parola incarnata come essendo il Figlio eterno di Dio e l'unico Salvatore dei peccatori. Il vocabolo greco qui tradotto "ricevuto" non è quello stesso che Diodati traduce pure "ricevuto" alla fine del versetto precedente; ricevuto, usato qui dice assai più di accettato del ver. undici; quest'ultimo verbo mette l'accento sulla volontà che acconsentiva o ricusava di ricevere; l'altro esprime una possessione conquistata. Il ricevere Cristo a questo modo vuol dire esser persuaso nella mente della verità, e riceverla con cuore giulivo e volenteroso. E questa una delle molte maniere colle quali la Scrittura descrive quella fede giustificante che unisce l'anima a Cristo.
i quali credono nel suo nome,
Diodati ha tolto queste parole dalla fine del versetto, dove si trovano nel Greco, per unirle più strettamente alla clausola precedente, che esse spiegano, come spiegano pure il titolo di "figliuoli di Dio" dato subito dopo ai credenti. Credere a Cristo col cuore, è riceverlo; riceverlo è credere in lui. E nel suo nome è costruzione caratteristica di Giovanni: la si trova trentacinque volte nel suo Vangelo, e tre nella sua prima Epistola; e la Scrittura non usa mai questa frase, parlando di qualsiasi creatura. "Credere qualcuno, significa dar credito alla testimonianza di una persona ed è detto dei profeti e anche di Cristo. Ma credere in o nel nome di qualcuno, indica quella fiducia che si può riporre solo in Dio. Applicata, come è il caso qui e in tanti altri posti, al Signor Gesù Cristo, vuol dire che le persone di cui si parla pongono una suprema fiducia in lui" (Brown). La Scrittura dice spesso "nome" di Dio per significare il suo carattere o i suoi attributi, così qui il "nome" di Cristo racchiude la sua persona, i suoi attributi, e tutto quanto la Parola incarnata ha compiuto per la gloria di suo Padre e la salvezza dei peccatori. Credere nel suo nome significa dunque fare intera adesione a lui, e trovare riposo sul sicuro fondamento dell'eterno amore del Padre rivelato nel suo Figliuolo
egli ha dato questa ragione,
La parola " ragione " non rende tutta la forza di - privilegio, prerogativa - sono senza dubbio idee comprese ma il vero senso della parola è autorità (potestas), o abilità (potentia), ed entrambe sono qui contenute. Non è solamente capacità, ma potere; tutti insomma gli atti e gli stati necessari a divenire figliuoli di Dio, essendo rimossi tutti gli ostacoli, quali il peccato e l'ira di Dio. Siamo per nascita capaci di divenire figli di Dio; questo ci appartiene come uomini; ma Cristo ci dà il diritto e il potere di divenire tali, e ciò riceviamo come credenti. Non è già che Cristo impartisca agli uomini qualsiasi interna abilità per convertirsi; ma tale abilità vien loro comunicata dallo Spirito di Cristo, al momento in cui credono. Il principio di quella relazione filiale, osserva Meyer, è descritto al ver. 13, come un " esser nati" Giovanni 1:13, ed è per ciò passivo.
d'esser fatti figliuoli di Dio
Benché, le parole figliuolo, il suo derivativo filiazione e bambino, sieno tutte tradotte in italiano per figliuolo, esse hanno, in greco, significati alquanto diversi. figliuolo e filiazione indicano spesso una mera adottazione terrena; laddove nati da Dio significa paternità vera abbenché spirituale. Il privilegio e l'onore concessi a tutti quelli che credono veramente nel Figliuol di Dio, consistono nell'esser divenuti figliuoli di Dio non solo in nome e in dignità, ma di natura, come si vede chiaramente dal versetto seguente.
PASSI PARALLELI
Matteo 10:40; 18:5; Colossesi 2:6
Isaia 56:5; Geremia 3:19; Osea 1:10; Romani 8:14; 2Corinzi 6:17-18; Galati 3:26; 4:6
2Pietro 1:4; 1Giovanni 3:1
Giovanni 2:23; 3:18; 20:31; Matteo 12:21; Atti 3:16; 1Giovanni 3:23; 5:12
13 13. I quali, non di sangue, né di volontà di carne, né di volontà d'uomo, ma son nati da Dio
Si è discusso molto (e assai inutilmente) se il pronome "i quali" con cui principia questo versetto si riferisce a "figliuoli di Dio", o a "i quali credono nel suo nome", del ver. precedente, perché, il soggetto è il medesimo in ambo i casi, poiché, la clausola: "i quali credono nel suo nome", non è che la spiegazione del titolo "figliuoli di Dio". In questo versetto, continuazione del precedente, l'Evangelista spiega in qual modo i "figliuoli di Dio" divengono partecipi di così alto privilegio, e ciò egli fa, mostrando che in quella filiazione Dio opera, non l'uomo. Le tre negazioni: "non di sangue, né di volontà di carne, né di volontà d'uomo" escludono ogni possibile supposizione che l'uomo abbia parte attiva qualsiasi nella nuova nascita. Molte spiegazioni diverse sono state date di queste negazioni; alcuni asseriscono che "sangue", (al plurale), indica qui la generazione casuale ordinaria, e che i due termini seguenti non sono che una amplificazione di quella idea; altri considerano ogni negazione come distinta, e danno a ciascuna un senso diverso. (Chi desidera maggiori particolari sa queste spiegazioni le troverà nel Commento di Lange sopra Giovanni). Il senso preferibile, a parer nostro, di queste tre negazioni è il seguente: il " sangue". Lo intendiamo della discendenza da una prosapia illustre, quale quella di cui menavano vanto i Giudei, dicendosi il popolo peculiare di Dio, perché, figli del santo Abrahamo Giovanni 8:33, e la lezione che ne dobbiamo ricavare si è che l'esser figliuoli di Dio non è una distinzione ereditaria, posseduta, di generazione in generazione, da una razza speciale. In Cristo Gesù, "non vi è Greco e Giudeo, circoncisione e incirconcisione, servo e franco" Colossesi 3:11. Iddio può di queste pietre far sorgere de figliuoli ad Abrahamo Matteo 3:9. La "volontà della carne" abbraccia tutto quanto appartiene alla generazione umana; e il pensiero dell'Evangelista è evidentemente che, siccome "la carne", ossia la natura umana, dopo la caduta, si è corrotta e allontanata da Dio, egli è affatto impossibile che i genitori trasmettano ai figli questa vita spirituale, insieme alla vita ordinaria. "Chi può trarre una cosa immonda da una immonda? Niuno" Giobbe 14:4. L'ultima delle negazioni di questo versetto è: "né di volontà d'uomo", e il senso sembra esserne che nessuno sforzo di mera volontà dell'uomo, esercitato sopra un suo simile, fosse pure suo figlio o parente più prossimo può produrre questa nuova nascita, e impiantare la vita spirituale nell'anima. Possiamo, con un grande sforzo di volontà, imporre un sistema di educazione, delle abitudini, perfino dei modi di pensare a quelli che dipendono da noi, ma i nostri sforzi sono impotenti ad impiantare la vita spirituale. Quante volte parenti religiosi hanno sperimentato questa verità nel caso dei loro bambini figliuoli! Nulla desiderano più ardentemente, che di saperli figliuoli di Dio in Cristo Gesù; a questo tendono le loro preghiere, i loro sforzi, il loro esempio; ma finche, i nostri figli non sono efficacemente chiamati dallo Spirito Santo, la volontà dell'uomo è impotente. "Non per esercito, né per forza; ma per lo mio Spirito, dice il Signore" è vero di questo come dell'impresa di. Zaccaria 4:6. Non si perdano però di animo i genitori, i maestri, i ministri, se i loro sforzi e le loro preghiere sembrano tornare inutili per un tempo, perché, lo Spirito di Dio si serva generalmente di questi mezzi esterni, per impiantare la nuova vita in qualsiasi cuore. Avendo così chiaramente ripudiato l'idea che la decaduta natura umana possa in qualsiasi modo produrre la nuova nascita, nell'ultima clausola del versetto, egli chiude con forza l'antitesi, colle parole:
ma son nati da Dio
Queste parole ci dicono qual sia la vera filiazione da Dio, e spiegano: "figliuoli di Dio" del vers. precedente. I credenti han diritto ad esser figli di Dio in virtù di una vera filiazione spirituale, essendo generati da Dio stesso, per opera dello Spirito Santo Giovanni 3:5, mediante la strumentalità della sua parola vivificante 1Pietro 1:23. Né un ministro consacrato, né qualsiasi altra persona può conferire la grazia ai peccatori; l'uomo è impotente a rigenerare i cuori. I credenti divengono quel che sono solamente e unicamente per la grazia di Dio. Stiamo attenti a non interpretare le parole: "i quali sono nati", come se la nuova nascita fosse un cambiamento che accadesse nell'uomo solo dopo che egli ha creduto in Cristo, e fosse il primo passo dopo la fede. La fede che salva e la rigenerazione sono inseparabili. Dal momento che un uomo crede realmente in Cristo, per quanto debole la sua fede, egli è nato da Dio, Dove c'è la fede, c'è sempre la nuova nascita; ma dove la fede non esiste, non esiste neppure la rigenerazione.
PASSI PARALLELI
Giovanni 3:3,5; Giacomo 1:18; 1Pietro 1:3,23; 2:2; 1Giovanni 3:9; 4:7; 5:1,4,18
Giovanni 8:33-41; Matteo 3:9; Romani 9:7-9
Genesi 25:22,28; 27:4,33; Romani 9:10-16
Salmi 110:3; Romani 9:1-5; 10:1-3; 1Corinzi 3:6; Filippesi 2:13; Giacomo 1:18
Giovanni 3:6-8; Tito 3:5; 1Giovanni 2:28-29
14 14. E la Parola è stata fatta carne,
La congiunzione e, colla quale comincia questo versetto, introduce non già una ragione della filiazione ricordata nel versetto precedente, bensì un fatto storico che fa progredire il racconto dell'Evangelista. Siccome questo versetto riprende a parlar della "Parola", ci sembra che quel fatto deve riannodarsi al versetto Giovanni 1:10-13. I versetti intermedi sarebbero in quel caso una parentesi. Tale è l'opinione di Westcott, il quale dice: "L'annunzio del mistero della incarnazione, corrisponde alla dichiarazione della assoluta esistenza della Parola, nel ver. 1. "Essa era Dio", ed "è stata fatta carne"; l'eternità e il tempo il divino e l'umano sono riconciliati in essa. "Era con Dio", ed "è abitata fra noi". La divina esistenza viene ad unirsi in modo vitale e storico, alla vita umana - "Essa era nel principio", e "noi abbiamo contemplata la sua gloria". Colui che era, prima del tempo, fu, per un tempo, rivelato alla osservazione degli uomini. Carne, distinto da corpo o uomo, indica la natura umana nel suo senso più esteso: corpo, anima e spirito, e nel suo presente stato di fralezza e di infermità, ma senza peccato; - racchiude in breve, tutto ciò che appartiene alla essenza dell'uomo, senza distinzione di sesso, razza o età; - la natura umana in opposizione alla divina; la natura materiale, in opposizione alla spirituale. In questo consiste la benignità della incarnazione, che il Figliuol di Dio è divenuto interamente uno di noi. Ci è detto altrove che è venuto in carne 1Giovanni 4:2; 2Giovanni 7, o che è stato manifestato in carne 1Timoteo 3:16, ma "è stata fatta carne" esprime con enfasi maggiore la comunione in cui egli è voluto entrare con noi. Questa espressione non dice che la natura divina di Cristo fu messa da parte, che la Parola cessò di essere quello che era prima, che il suo modo di essere fu semplicemente umano, finche, coll'adempiere l'opera sua, Gesù lo trasformò gradatamente, riconquistando tutta la gloria della sua natura divina. Le parole: "è stata fatta" non suggeriscono nessuna idea simile, e non si possono rettamente intendere da chi non riconosce l'unità della persona del Signore prima e dopo la incarnazione. La maniera di vita del Signore in sulla terra fu veramente umana, e soggetta a tutto le condizioni della umana esistenza; ma egli non cessò un istante di essere Dio. "Il Figliuolo eterno di Dio divenne uomo coll'assumere un vero corpo ed un'anima ragionevole, e così fu, e così continua ad essere Dio ed uomo, in due nature distinte ed una persona unica, per sempre" Romani 9:5; Matteo 26:38; Luca 22:46. In che modo si compiesse questo farsi carne della Parola è cosa che non possiamo comprendere. Paolo lo spiega come un annichilare se stesso, letteralmente vuotò se stesso Filemone 2:7, uno spogliarsi del modo di esistenza divina Filippesi 2:6, e queste dichiarazioni contengono quanto possiamo dire per definire questo mistero" (Westcott). "Su questo articolo di fede", dice Calvino, "due cose sono specialmente da osservarsi. La prima è, che le due nature erano siffattamente unite nell'unica persona di Cristo, che l'uno e medesimo Cristo è al tempo stesso vero Dio e vero uomo. La seconda è, che l'unità di persona non toglie alle due nature di rimanere distinte, sicché, la divinità ritiene tutto quanto le appartiene, e l'umanità conserva essa pure, separatamente, ogni cosa che appartiene ad essa".
ed è abitata fra noi,
Con le parole "fra noi", Giovanni intende parlare di tutti i suoi lettori; esse si applicano non solo alla nazione giudaica, ma a tutta l'umanità, imperocché Gesù abitò con essa tutta. Al tempo stesso però l'Evangelista pensava, senza dubbio, ai suoi compagni di apostolato, e al piccol gregge di seguaci fedeli, i quali, durante tutto il soggiorno in terra del Signore, furono testimoni della sua vita e delle sue opere, e ebbero con lui tutte le relazioni familiari di una vita comune. Il verbo: significa letteralmente piantare la tenda, occupare una posizione temporanea, benché, nell'Apocalisse, lo stesso Apostolo lo usi quattro volte nel senso di dimora permanente Apocalisse 7:15; 12:12; 13:6; 21:3. L'Evangelista volle probabilmente esprimere con questa parola due idee diverse l'una dall'altra; - cioè la brevità del soggiorno del Signore in sulla terra per quanto spetta alla sua presenza corporea; - e specialmente la permanenza della sua dimora spirituale coi credenti, fino alla fine del mondo. È un'allusione al tabernacolo del deserto, quando la Shechina (ossia la gloria di Dio rivelata) dimorava in mezzo alle tende d'Israele, durante i quarant'anni di migrazione continua del popolo, e per molto tempo dopo, quando già esso era stabilito in Canaan; imperocché la Shechina simboleggiava la gloriosa presenza di Dio, nella persona di Cristo, in mezzo al suo popolo redento Confr. Levitico 26:11-12; Salmi 68:30; Ezechiele 37:27. Che quest'ultima idea prevalesse nella mente dell'Evangelista lo provano le parole che vengono subito dopo. Si nota però passando "che la parola 'abitata', ha per scopo evidente di contrastare la incarnazione colle precedenti apparizioni di Cristo (le Cristofanie dell'Antico Testamento), le quali erano parziali, ed evanescenti" (Westcott).
e noi abbiamo contemplata la sua gloria,
Diodati insieme a molti editori del Nuovo Testamento e non pochi Commentatori, comincia qui una parentesi e la continua fino a: "del Padre"; ma Griesbache, Tischendorff e Revel, nelle loro versioni, e molti Commentatori rigettano questa parentesi, considerando quanto vien qui detto come essenziale allo sviluppo del discorso dell'Evangelista. Essi hanno ragione per ciò che concerne la clausola che ora stiamo considerando, perché, essa contiene un punto importante della testimonianza di Giovanni ma le parole che seguono gloria come dell'unigenito del Padre descrivono la natura della gloria del Logos incarnato e ci sembrano dover formare una parentesi. Come la Trasfigurazione fu quaggiù la manifestazione più notevole della gloria visibile del Redentore, e fece tanta impressione su quelli che la contemplarono, che anni dopo, Pietro ne fa special menzione 2Pietro 1:16, così non si può dubitare che Giovanni l'avesse egli pure presente alla mente, insieme forse a quell'altra visione accordatagli nell'isola di Patmos Apocalisse 1:11-18, mentre descriveva in questo versetto la gloria del suo Signore e Maestro. Ma la parola abbiamo contemplato indica che questa gloria non era limitata a quanto l'occhio nudo aveva veduto, bensì si discerneva principalmente coll'occhio spirituale, mediante l'osservazione accurata e la meditazione del carattere, delle parole e delle opere del divino Maestro, mentre andava e veniva fra loro. La gloria del Figliuol dell'uomo era proporzionata alla sua relazione col Padre, anche quando aveva lasciato per un tempo la sua gloria divina Giovanni 17:5. Diodati così commenta questa clausola: "Noi apostoli abbiamo veduti molti raggi della sua maestà e potenza divina, nelle sue opere e miracoli, e principalmente nella sua trasfigurazione".
gloria, come dell'unigenito proceduto dal Padre
Letteralmente come d'un unigenito d'un padre. Il senso dell'avverbio non è simile a, ma qual si appartiene, qual si conviene ad un figlio unico. Fino ad ora non c'è stato verbo della filiazione divina. È questa la prima volta, come osserva Lutero, che Giovanni chiama il Verbo "l'unigenito del Padre". La parola greca unigenito è impiegata in Luca 7:12; 8:42; 9:38 e da Paolo nell'Epistola agli Ebrei 11:17 per indicare il figlio unico di parenti terreni; ma Giovanni l'applica a Cristo solo Giovanni 1:18; 3:16; 1Giovanni 4:9. Qual senso dobbiamo darle qui? Dire coi Sociniani che significa semplicemente "prediletto" è dir cosa insostenibile, poiché, quando Gesù chiamò Iddio "il Padre mio", non si oppose all'interpretazione che i Giudei diedero delle sue parole, accusandolo di dire "Iddio esser suo padre, così facendosi uguale a Dio" Giovanni 5:17-18. Paolo pure esalta l'amor di Dio, perché, "non ha risparmiato il suo proprio Figliuolo Romani 8:32. Alcuni commentatori pure ammettendo che "unigenito" indichi altrove la relazione essenziale esistente da ogni eternità fra il Padre e il Figlio, contestano che abbia qui questo senso, e sostengono che nel Greco l'idea sia quella dell'essere personale del Figlio, non quella della sua generazione, e che l'Evangelista voglia qui presentarci Cristo, come Figlio unico del Padre, in un senso affatto singolare, distinguendolo da quelli che, nel verso Giovanni 1:12 egli chiama pure "figliuoli di Dio". Questi ultimi, dicono essi, divengono tali per adottazione, in virtù di quella unità che l'Unigenito stabilisce fra se stesso e loro, nella sua incarnazione; ma egli è Figlio in una maniera che appartiene a Lui solo, e che nessun essere può dividere con lui. Che questo contrasto fosse nella mente dell'Evangelista, quando scelse la parola "unigenito", è assai probabile; ma l'uso di questa parola, in Giovanni 1:18 nel suo senso più alto e più assoluto, per indicare uno che solo conosce l'essenza del Padre, ci fa vedere che si tratta qui della generazione eterna della relazione essenziale fra il Padre e il Figlio. "Il Figlio è essenzialmente ed eternamente imparentato col Padre, in un senso vero e reale come tra Padre e Figlio; ma, mentre è distinto in persona ("la parola era appo Dio"), non è ad esso posteriore in tempo ("nel principio la parola era"), né inferiore in natura ("la parola era Dio"), né separato da lui nell'essere ("essa era nel principio appo Dio"), bensì una sola deità col Padre. Non può la nostra finita intelligenza andar più oltre nel definire la testimonianza della Scrittura su questo soggetto misterioso, se non vuole oscurare il consiglio di Dio con parole senza conoscimento. Questo titolo e il titolo corrispondente Giovanni 1:18, "l'unigenito Figliuolo che è nel seno del Padre", si completano a vicenda, l'uno esprime la sua relazione col Padre come proceduto da lui; l'altro la sua continua unione col Padre, e la sua inseparabilità da lui, sotto la forma di un amore personale ed a noi incomprensibile" (Brown). Paolo dà a Cristo il titolo di "primogenito" Colossesi 1:15 ma, benché, alcuni critici lo considerino erroneamente come parallelo ad "unigenito ", li dobbiamo distinguere accuratamente l'uno dall'altro: quest'ultimo si applica a Cristo nella sua relazione col Padre; l'altro, nella sua relazione col mondo. Di fronte ad ogni cosa creata, Cristo prende il posto di primogenito (proceduto da un Padre). Diodati e Osterwald traducono esattamente la preposizione, ma vi aggiungono l'articolo che non si ritrova nel Greco. Queste parole non si riferiscono alla generazione del Figlio, la quale è stata già espressa, bensì alla missione affidatagli in terra dal Padre. La sua era gloria di un Unigenito procedente dalla presenza di un gloriosissimo Padre; bastava contemplarlo per sapere di chi era Figlio.
piena di grazia, e di verità
Alcuni uniscono queste parole alla che precede (gloria piena di grazia e di verità), ma a ciò si oppongono il senso e la costruzione; altri le uniscono a di lui che è pieno di grazia e di verità ma i più le uniscono a "la Parola, ecc." al principio del versetto, completando così, per quanti non l'hanno visto, come lo aveva visto Giovanni, il ritratto dell'incarnato Logos. "Grazia e verità", equivalgono qui a "benignità e verità", "misericordia e verità" dell'Antico Testamento. Sono le due chiavi di volta della intera Bibbia. La "misericordia" nell'Antico Testamento indica le ricche promesse messianiche fatte ai patriarchi e a Davide; la "verità" accerta che Dio le manterrà fedelmente. La grazia è talvolta qualcosa che attrae Luca 4:22, altre volte è l'amore che scende dall'alto Luca 2:52; ma qui, e quasi dovunque nel Nuovo Testamento, racchiude tutte le ricchezze dell'amore di Dio e della redenzione, quali vengono gratuitamente e spontaneamente versato sui peccatori, mediante Cristo Gesù. "Piena di verità" può qui indicare il carattere personale della Parola, scevra di menzogna, vera in ogni cosa; la sua conoscenza intuitiva del carattere di Dio, e delle condizioni alle quali solamente egli offre salvezza all'uomo; come pure il contrasto fra lui e i profeti, ed anche fra lui e l'antica dispensazione coi suoi tipi e le sue figure, che erano l'ombra della verità, non la verità stessa. Cristo è dunque la rivelazione data agli uomini della grazia divina per la loro redenzione, nonché, della verità divina nella sua relazione colla grazia Salmi 85:11. Qual vita, la Parola è "piena di grazia"; qual luce, essa è "piena di verità"!
Prima di passar oltre, importa notare che questo versetto confuta appieno la eresia sociniana della semplice umanità di Cristo, secondo la quale Cristo non sarebbe esistito prima di venire concepito dalla Vergine Maria; non meno che l'eresia ariana, la quale nega la sua deità, pur considerandolo come il primo, il più nobile di tutti gli esseri creati, e l'istrumento col quale Iddio creò l'universo. Secondo Giovanni, la persona che "è stata fatta carne" fu "la Parola che nel principio era appo Dio ed era Dio" Giovanni 1:1. Questo versetto contiene inoltre la confutazione di molte altre eresie nate nella chiesa primitiva dal non aver capito l'unione delle nature umana e divina nella persona di Cristo. Fra queste notiamo quella dei Doceti (da sembrare, apparire), i quali, tenendo la teoria dei Gnostici (di cui furono un ramo), che il male abbia per origine e centro la materia, rifuggivano naturalmente dall'idea che il Figlio di Dio avesse assunto un corpo materiale, e negavano la incarnazione, sostenendo che il corpo di Cristo non era una realtà, ma un'ombra, un'apparenza da lui assunta per adempiere alle funzioni della vita. L'Apostolo asserisce qui che "la Parola è stata fatta carne", e nelle sue epistole 1Giovanni 4:3; 2Giovanni 7 fortemente condanna chiunque tiene la dottrina contraria. Né, dobbiamo stupirne, imperocché, tolta la verità della incarnazione, svanisce tutta la sostanza del Cristianesimo. L'eresia di Apollinare, che insegnava che Cristo assunse solo il corpo dell'uomo, nel quale la divinità teneva il posto dell'anima; quella dei Nestoriani, secondo la quale vi erano in Cristo non solo due nature, ma due personalità, l'una divina, l'altra umana, ciascuna delle quali compiva quegli atti che ad essa appartenevano; e quella di Eutichio, che sosteneva esser le due nature così intimamente unite da formarne una sola, avente gli attributi di entrambe; sono tutte quante confutate per chi chiaramente intende il detto: "La Parola è stata fatta carne".
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:1; Isaia 7:14; Matteo 1:16,20-23; Luca 1:31-35; 2:7,11; Romani 1:3-4; 9:5
1Corinzi 15:47; Galati 4:4; Filippesi 2:6-8; 1Timoteo 3:16; Ebrei 2:11,14-17; 10:5
1Giovanni 4:2-3; 2Giovanni 7
Giovanni 2:11; 11:40; 12:40-41; 14:9; Isaia 40:5; 53:2; 60:1-2; Matteo 17:1-5
2Corinzi 4:4-6; Ebrei 1:3; 1Pietro 2:4-7; 2Pietro 1:17; 1Giovanni 1:1-2
Giovanni 1:18; 3:16,18; Salmi 2:7; Atti 13:33; Ebrei 1:5; 5:5; 1Giovanni 4:9
Giovanni 1:16-17; Salmi 45:2; 2Corinzi 12:9; Efesini 3:8,18-19; Colossesi 1:19; 2:3,9
1Timoteo 1:14-16
16 16. E noi tutti abbiamo ricevuto della sua pienezza,
Questo versetto, (come pure i due seguenti), non è la continuazione della testimonianza del Battista, benché così sostengano Origene ed altri; bensì è il seguito dell'insegnamento che l'Evangelista aveva cominciato a dare Giovanni 1:14. Questo è dimostrato dal nesso fra le parole "piena di grazia" in detto versetto, e la "sua pienezza" in questo; come pure dal "noi tutti", che corrisponde a "tutti coloro che l'han ricevuto" Giovanni 1:12, noti gli Apostoli solamente o i soli credenti del primo secolo, i veri credenti, fino alla fine del tempo. I discorsi di Giovanni Battista non esprimono mai una tale idea. Vi è divergenza fra le autorità Alessandrine e quelle di Bisanzio, per sapere se la congiunzione colla quale principia questo versetto debba essere e, o perché, ma i più fra i critici moderni tengono per questa seconda lezione. Questo versetto aggiunge la testimonianza della esperienza cristiana relativamente alla pienezza di grazia e di verità della "Parola fatta carne", a quella già resa nei versetti precedenti dall'Apostolo e da Giovanni Battista; dimodoché, per quanto riguarda la forza di quella testimonianza, importa poco leggere: "Abbiamo conosciuto come pieno di grazia e di verità, perché della sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto", ecc. ovvero: "La Parola è abitata fra noi, piena di grazia e di verità, e della sua pienezza", ecc. Quando il nostro Evangelista scriveva, molte chiese, composte di credenti Giudei e Gentili, erano state formate nelle principali città del mondo allora conosciuto, ed egli ci dà la testimonianza unanime di tutti i credenti, che essi avevano ricevuto da Cristo pienezza di grazia e di verità; cioè erano stati fatti partecipi del ricco suo tesoro di celesti benefizi. La parola greca pleroma (plenitudo, pienezza) è un termine tecnico in teologia per indicare la totalità o la pienezza degli attributi divini. Indica qui i poteri e le grazie che furono, in modo assoluto, concentrati in Cristo quale Parola incarnata, e dai quali poi egli dà alla Chiesa in generale e ad ogni credente individualmente tutto quanto è loro necessario. Giovanni, nei suoi scritti, usa sola qui la parola pleroma; ma la troviamo spesso negli scritti di Paolo Efesini 1:23; 3:19; 4:13; Colossesi 1:19; 2:9. I passi dei Colossesi specialmente illustrano il pensiero di Giovanni. In Colossesi 1:19 leggiamo: "tutta la pienezza abiti in lui", e in Colossesi 2:9 più chiaramente ancora: "che in lui abiti corporalmente tutta la pienezza della Deità", e subito dopo, parlando ai Colossesi, Paolo aggiunge: "e voi siete ripieni in lui". Il pensiero di Paolo è evidentemente che l'intera somma dei divini attributi si trova riunita in Cristo, e che ogni Cristiano, in virtù della sua comunione con lui, deriva da quella "pienezza" quanto gli occorre per compiere la parte sua nella gran vita della Chiesa. Tale è pure il pensiero di Giovanni in questo passo. I Cristiani ricevono da Cristo, come da una sorgente di vita divina, tutto ciò di cui hanno bisogno, secondo la loro posizione e l'opera loro affidata
e grazia per grazia,
È questa una espressione alquanto singolare che venne spiegata in vari modi:
1) "La nuova grazia del vangelo fu data al posto della grazia primieramente della legge". Ma la legge non è dispensatrice di grazia, come lo mostra il contrasto espresso nel versetto seguente.
2) "La Grazia a motivo dell'amore speciale di Dio per il suo Figliuolo"
3) "La Grazia come risultato della grazia della fede che è in noi."
4) La grazia proporzionata alla grazia che è in Cristo."
5) La grazia per merito della grazia, cioè la grazia data gratuitamente da, Dio, senza esser meritata o comprata dall'uomo."
6) Ma il senso più intelligibile, adottato dai critici migliori, è: grazia accumulata; effusioni abbondanti di grazia; grazia aggiunta a grazia, a misura che il fedele è più atto a riceverla e a fruirne. A questa interpretazione può aggiungersi, per completarla, quella mentovata più sopra al num.3. "Come la luce, così la grazia, data in principio all'uomo, è necessaria base di ogni possibile, grazia posteriore. Di quella prima grazia la nostra libera volontà deve fare un buon uso, e allora l'Unigenito aggiunge nuove grazie in premio del profitto della grata primiera (Wheedon). Si noti che qui scompare la parola luce la grazia sola rimane quale il termine prescelto nel Nuovo Testamento, per indicare tutte le benedizioni spirituali delle quali i credenti sono arricchiti dalla pienezza di Cristo.
PASSI PARALLELI
Giovanni 3:34; 15:1-5; Matteo 3:11,14; Luca 21:15; Atti 3:12-16; Romani 8:9; 1Corinzi 1:4-5
Efesini 4:7-12; Colossesi 1:19; 2:3,9-10; 1Pietro 1:11
Zaccaria 4:7; Matteo 13:12; Romani 5:2,17,20; Efesini 1:6-8; 2:5-10; 4:7; 1Pietro 1:2
17 17. Perciocché la legge è stata data per Mosè, ma la grazia, e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo
perciocché sembra indicare la ragione per cui i credenti possono ricevere grazia solo dalla pienezza dell'unigenito dal Padre, contrastando la posizione e opera di Mosè (tenute in si alta stima dai Giudei) con quella di Cristo. Questo versetto ci presenta una triplice antitesi cioè, fra le due persone qui nominate, Cristo e Mosè; fra i doni che esse impartiscono, "la terra della promessa", e "grazia e verità"; finalmente fra i modi di comunicare quelle grazie, la prima "è stata data" per la mediazione di un servo, la seconda "è avvenuta" nella persona stessa del suo Autore. La parola greca qui usata è la stessa che, al ver, 3, si applica al Logos.
La "legge" in questo versetto non include solamente il Decalogo, ma tutti gli statuti cerimoniali dati a Mosè sul monte Sinai, per il governo d'Israele, e, senza dire che la grazia nulla avesse che fare con quei riti, (poiché tutti i riti levitici si riferivano a Cristo), Giovanni ci presenta qui la legge come il potere che obbligava e condannava il peccatore. Così pure ce la descrive Paolo nelle parole: "La legge opera ira" Romani 4:15. "È opposta alla grazia solo nel senso che la legge non contiene grazia" (Brown). La legge morale è piena di alte e sante esigenze e di severe minacce contro i disubbidienti; la legge cerimoniale era fatta di gravosi sacrifici, di riti e di cerimonie che non potevano mai purificare la coscienza dell'adoratore, ed entrambe pronunziavano maledizione sopra "chiunque non li persevera in tutte le cose scritte nel libro della legge per farle" Galati 3:10. La legge dispensava stretta ed inalterabile giustizia non grazia, e perciò Paolo dichiara che: "niuna carne sarà giustificata dinanzi a lui, (Iddio), per le opere della legge, conciossiaché per la legge sia data conoscenza del peccato" Romani 3:20. In contrasto col ministero di Mosè e colla economia da lui introdotta, l'Evangelista ci presenta Cristo, nel quale abita la pienezza della divinità, e che venne nel mondo, affin di portarvi il perdono dei peccati, il rinnovamento del cuore, la certezza della gloria futura, e una grazia sempre rinnovata, per aiutare il fedele in ogni sua necessità. Ebrei 4:16 In questo versetto, la legge vien messa in opposizione non solo alla grazia, ma pure alla verità non in senso assoluto, come se essa di verità fosse stata affatto spoglia, ma nel senso indicato da Paolo, cioè come "avendo l' ombra dei futuri beni, e non l'immagine viva delle cose" Ebrei 10:1. Egli era quell'ombra dei beni del vangelo, che Mosè dava, mentre la verità, ossia la sostanza di essi venne per Cristo. La legge non era se non una figura per il tempo presente, che "non poteva purificare, quant'è alla coscienza, colui che fa il servizio divino, perciocché, è impossibile che il sangue dei tori e dei becchi tolga i peccati" Ebrei 9:9; 10:4. Ogni salvezza ottenuta sotto Mosè, lo fu solo a credito di quell'unica e futura offerta per i peccati, la quale ha "in perpetuo appieno purificati coloro che sono santificati" Ebrei 10:14. Notiamo prima di andar oltre, che la persona che fu sempre presente alla mente dell'Evangelista in tutto questo Prologo, e che egli chiamò il Logos Giovanni 1:1, la Luce Giovanni 1:5, il Figlio Giovanni 1:14, è ora finalmente chiamata GESÙ CRISTO; e questo nome abbraccia, in tutta la sua estensione il Cristianesimo storico, come essendo la religione del Giudeo non meno che del Gentile. Quel nome nella sua prima parte proclama la vera umanità del Salvatore, e lo scopo di tutto quanto Dio ha fatto per l'uomo (Gesù, Giosuè, Jehosua è salvezza); nella seconda, la divina consacrazione del Salvatore all'opera sua, come pure i suoi rapporti colla prima dispensazione (Cristo, l'unto).
PASSI PARALLELI
Giovanni 5:45; 9:29; Esodo 20:1-17
Deuteronomio 4:44; 5:1; 33:4; Atti 7:38; 28:23; Romani 3:19-20; 5:20-21; 2Corinzi 3:7-10
Galati 3:10-13,17; Ebrei 3:5-6; 8:8-12
Giovanni 8:32; 14:6; Genesi 3:15; 22:18; Salmi 85:10; 89:1-2; 98:3; Michea 7:20
Luca 1:54-55,68-79; Atti 13:34-39; Romani 3:21-26; 5:21; 6:14; 15:8-12
2Corinzi 1:20; Ebrei 9:22; 10:4-10; 11:39-40; Apocalisse 5:8-10; 7:9-17
18 18. Niuno vide giammai Iddio;
In questo versetto l'Evangelista asserisce subito che la divinità appartiene in proprio a colui di cui ha ora proclamato il nome incarnato, e spiega come "la verità è avvenuta per Gesù Cristo", perché egli solo rivela Iddio che è LA VERITÀ. Comincia dichiarando in modo assoluto e senza eccezioni, che nessun uomo creato l'ha mai visto Iddio. Che divengono adunque le teofanie dell'Antico Testamento, le visioni dei profeti, le ripetute dichiarazioni della Scrittura, che "il Signore parlava a Mosè a faccia a faccia, come un uomo parla al suo compagno" Esodo 33:11; Deuteronomio 34:10. Giovanni rigetterebbe egli tutte queste cose come dei miti ? Niente affatto. Fu la seconda persona della Trinità, quella che, sotto varie forme, rivelò la divinità a Mosè, ai profeti e ai patriarchi, come fa tuttora, quale uomo-Dio, nella economia cristiana. L'asserzione che Dio sia invisibile agli uomini è corroborata da Paolo nei termini più chiari Colossesi 1:15; 1Timoteo 1:17; Ebrei 11:27. Ogni apparente contraddizione comparisce ove si consideri che l'Evangelista parla qui della intima essenza e natura di Dio, della pienezza della sua gloria, di ciò che Paolo chiama "la sua eterna potenza e deità" Romani 1:20, di ciò che Mosè bramava contemplare quando chiedeva: "Fammi veder la tua gloria", e il Signore rispose: "Tu non puoi veder la mia faccia, perciocché l'uomo non mi può vedere e vivere" Esodo 18:20. Questo "vedere" racchiude non solo la contemplazione immediata dell'occhio del corpo, la diretta e nuda percezione, ma pure la comprensione intellettuale della maestà senza velo di Dio, alla quale l'uomo non è giunto mai perché essa trascende di gran lunga la sfera del suo intelletto. Il Signore stesso chiaramente dice di suo Padre: "Voi non udiste giammai la sua voce, né vedeste la sua sembianza" Giovanni 5:37. Lo stesso afferma Paolo nelle sublimi parole. "Il quale solo ha immortalità, ed abita una luce inaccessibile, il quale niun uomo ha veduto, né può vederlo" 1Timoteo 6:16.
l'unigenito Figliuolo,
I Codici Sinaitico, Vaticano ed Efrem di Parigi, tre delle antiche versioni, cioè la Siriaca Antica o Peshito, l'Etiopica, e la Siriaca Filossenica (nel margine, non nel testo), nonché un gran numero di Padri leggono: unigenito Iddio, anziché l'unigenito figliuolo, e hanno seguaci, ai nostri dì, il Tregelles nella sua versione, e i più recenti espositori inglesi, come Hort, Westcott, Plummer, Milligan ecc.; ma la lezione del Textus Receptus è sopportata dal Codice Alessandrino, da una copia posteriore del Codice di Efrem, e, coll'eccezione di quelle più sopra ricordate, da tutte le versioni antiche, compreso il testo della Siriaca Filossenica, nonché da tutti gli scrittori latini, da Tertulliano in poi. L'ammettono Tischendorff, Alford, Revel, Riggenbach, la recente versione inglese e la maggior parte dei critici ed esegeti tedeschi ed inglesi. "La lezione l'unigenito Figliuolo è certamente la vera" (Godet). "La lezione straordinaria e assai dura: l'unigenito Iddio, che il Tregelles adotta, per deferenza a tre fra i più antichi manoscritti e ad alcune altre autorità che scrivono anziché è combattuta da tante autorità favorevoli al Testo Ricevuto (così conforme allo stile di Giovanni, Confr. Giovanni 1:14; 3:16,18; 1Giovanni 4:9) che Tischendorf sta per quest'ultimo, e così fanno pressoché tutti i critici" (Brown).
che è nel seno del Padre,
(Vedi nota Giovanni 1:14) Il titolo di Padre qui dato a Dio, in correlazione con quello di "Figlio unigenito", ci dà la base della rivelazione relativamente ai rapporti essenziali che passano fra le persone della Trinità (Confr. 1Giovanni 1:1-2). Alcuni considerano queste parole come esprimenti, mediante una figura orientale (il modo cioè in cui il convitato più distinto stava a mensa appoggiato al seno dell'anfitrione), l'idea di Giovanni 1:1-2, che il Figlio era nella più stretta relazione possibile col Padre. Ma l'amorevole intimità e la fiducia espresse nella figura di un figlio che è seduto sulle ginocchia del Padre, e appoggia il capo sul suo seno Deuteronomio 13:6; 28:56; Michea 7:5, corrispondevano meglio all'idea dell'Evangelista. Le parole: (letteralmente colui che è in), unite alle altre: "ha dichiarato", furono interpretate come indicanti, secondo alcuni, lo stato divino del Logos prima della incarnazione; e, secondo altri, lo stato in cui trovasi Gesù dopo la sua ascensione (la particella in, indicando il suo ritorno da dove egli era venuto); ma ci par più convenevole intendere è, come un presente assoluto e duraturo, il quale indica la condizione originaria e continua della esistenza. L'incarnazione non interruppe minimamente l'intima relazione espressa in queste parole (Confr. Giovanni 3:13; 10:30). La dottrina qui annunziata, spogliata di qualsiasi figura, si è, che solo il Figlio conosce Iddio in modo assoluto.
è quel che l'ha dichiarato
Per il pronome (letteralmente egli), il nostro Evangelista mostra una predilezione speciale; egli ne fa spesso uso per ricordare enfaticamente una persona o una cosa già mentovata Giovanni 1:33; 5:39; 9:37; 10:1. Il verbo ha dichiarato, da cui deriva la nota parola esegesi, è costantemente usato nei classici per indicare la interpretazione della volontà divina, e dei misteri sacri. Essa significa spiegare o interpretare qualsiasi cosa in modo da farla comprendere a quelli cui si parla. Il Greco non dice che cosa sia stato dichiarato; ma non v'ha dubbio che Diodati, (insieme a quasi tutti i traduttori), ben si appone nel considerare come oggetto di quella dichiarazione Dio il Padre, "che nessun uomo vide giammai". La completa esposizione o interpretazione del carattere di Dio, Cristo non la fece solamente nel suo insegnamento orale, ma diede egli stesso nella propria persona e nel suo esempio, una idea di non pochi degli attributi del Padre (Vedi Ebrei 1:3). Il verbo al tempo passato, indica una rivelazione anteriore perfino alla incarnazione, perché, in tutte le relazioni visibili fra Dio e patriarchi, i profeti e i credenti dell'antica economia, fu la seconda persona della gloriosa Trinità l'unigenito Figliuolo che è nel seno del Padre che lo ha dichiarato", ora prendendo temporaneamente una forma umana, ma più spesso una forma angelica. Egli è vero che "niuno vide giammai Iddio"; d'altra parte, niuno che ritenga onestamente la ispirazione delle Scritture può negare le teofanie dell'Antico Testamento; ma col presentarci Cristo quale il rivelatore e l'interprete degli attributi e della volontà del Padre, Giovanni rimuove ogni contraddizione, e rende chiarissimo ciò che altrimenti sarebbe rimasto un mistero. Notiamo, al tempo stesso, che nel finire il suo Prologo, l'Evangelista ci presenta Cristo come colui che ci rivela, in modo speciale, il carattere paterno di Dio, carattere che, senza di lui, il mondo non avrebbe mai sospettato. All'infuori di Cristo non possiamo conoscere Dio se non Signore e Giudice in Cristo egli ci si rivela qual Padre, nel cui carattere predomina l'amore. Se, nella sua essenza più sublime, egli è Padre, come potrebbero i suoi rapporti colle sue creature essere altrimenti che paterni? Tale è la novissima spiegazione che il Figlio ha dato del carattere divino e che egli solo, qual Figlio, poteva dare" (Godet). Nella sua preghiera di intercessione, egli rende conto, per così dire, al Padre dell'adempimento fedele di questo dovere: "Io ho manifestato il tuo nome agli uomini, i quali tu mi hai dati del mondo" Giovanni 16:6.
PASSI PARALLELI
Giovanni 6:46; Esodo 33:20; Deuteronomio 4:12; Matteo 11:27; Luca 10:22; Colossesi 1:15; 1Timoteo 1:17
1Timoteo 6:16; 1Giovanni 4:12,20
Giovanni 1:14; 3:16-18; 1Giovanni 4:9
Giovanni 3:23; Proverbi 8:30; Isaia 40:11; Lamentazioni 2:12; Luca 16:22-23
Giovanni 2:41; 14:9; 17:6,26; Genesi 16:13; 18:33; 32:28-30; 48:15-16; Esodo 3:4-6
Esodo 23:21; 33:18-23; 34:5-7; Numeri 12:8; Giosuè 5:13-15; 6:1-2; Giudici 6:12-26
Giudici 13:20-23; Isaia 6:1-3; Ezechiele 1:26-28; Osea 12:3-5; Matteo 11:27; Luca 10:22
1Giovanni 5:20
RIFLESSIONI
1. "I Giudei di Alessandria, circa il tempo di Cristo, innestando la filosofia platonica sul concetto che si facevano dell'Antico Testamento usavano un linguaggio assai simile a quello di questi versetti, e questa fraseologia aveva corso, senza dubbio, in tutta la regione nella quale Giovanni scrisse il suo Vangelo. E impossibile fissare il senso preciso che essi davano al termine Logos, salvo che non lo identificavano mai col Messia. In tali circostanze, spinto da amici e guidato dallo Spirito Santo, Giovanni, giunto all'estrema vecchiaia, si accinse a preparare un Vangelo di più, un Vangelo finale, nel quale, a bella posta, usò la fraseologia corrente ai suoi tempi, e non solo seppe farsi strada frammezzo ai corrotti elementi che si erano mescolati alla vera dottrina del Logos, ma stampò su quella fraseologia nuovi concetti, e in questi primi diciotto versetti del suo Vangelo incise per sempre le più sublimi verità rispetto all'incarnato Redentore" (Brown).
2. "Le tre clausole del versetto 5 racchiudono quanto è possibile all'uomo di conoscere riguardo alla natura essenziale della Parola, in quanto al tempo, al modo di esistenza e al carattere.
Essa era (a) nel principio,
essa era (b) con Dio,
essa era (c) Dio stesso.
Questa rivelazione è la base di tutto quanto l'Evangelo di Giovanni Essa annulla la falsa nozione che la Parola divenire per la prima volta "una persona", al momento della creazione o della incarnazione. Le assolute, eterne ed immanenti relazioni delle persone della Deità forniscono la base della rivelazione. Egli è perché la Parola era personalmente distinta da Dio, pur essendo essenzialmente Dio, che essa ha potuto rivelarlo" (Westcott).
3. I primi cinque versetti contengono una esposizione di inarrivabile sublimità della divina natura del nostro Signor Gesù Cristo, imperocché chi osservi con attenzione le dichiarazioni successive di questo Prologo non può dubitare che egli sia colui che Giovanni chiama "la Parola." Questi versetti trattano di molte cose, le quali, benché non sieno contrarie alla nostra ragione, vanno al di là del nostro intelletto, e si possono ricevere solo per fede nella parola ispirata di Dio. La sostanza ne è che il Signor Gesù, di cui l'Evangelista vuol narrare la storia terrena, è eterno nel suo essere, non ha cominciato ad esistere quando i cieli e la terra furono fatti, né quando il vangelo fu recato nel mondo; che egli è vero Dio, uno col Padre lo stesso con lui in sostanza, uguale a lui in potenza ed in gloria, eppure distinto da lui in persona; che egli è il Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, la sorgente di ogni luce e di ogni vita spirituale. Mentre essi ci presentano i principi dell'operosità della Parola, prima della incarnazione, nella loro forma più generica, l'ordine dei pensieri di questi versetti è lo stesso che troveremo più sotto nella storia della Parola incarnata.
4. La persona della divinità che assunse la nostra carne non fu né il Padre, né lo Spirito Santo, ma il Figlio, la seconda persona. Essendovi reale distinzione di persone, e ognuna avendo il proprio modo di esistenza, l'una poteva incarnarsi, senza le altre, e s'incarnò la persona del Figlio che sussisteva nella divinità. Ben conveniva che la persona intermedia della Trinità fosse scelta a riconciliare l'uomo e Dio; che quegli per cui tutte le cose erano state create divenisse l'autore di un mondo nuovo; che colui, in cui trovasi l'espressa immagine del Padre, restaurasse quella immagine in noi" (Huteheson).
5. Per quanto Cristo arricchisca i suoi fedeli, la sua pienezza non scema. Come il mare non scema per quanta acqua vi si attinga, come il sole non perde la sua luce benché dia luce all'universo, così la pienezza di Cristo rimane la stessa per quanti doni egli comunichi agli uomini. Chi ha ricevuto la grazia di Cristo riceverà grazia sopra grazia. Non riceviamo tutta la grazia in una sola volta, ma gradatamente, affinché non siamo tentati di riposarci, come quelli che hanno compiuto il corso; ma ogni grazia da Cristo avuta ci è pegno di quelle che seguiranno; avremo grazia sopra grazia!
6. Dio, quale Spirito, è invisibile all'occhio nostro corporeo. Nessuna creatura può colla mente comprendere l'essenza infinitamente gloriosa del Creatore; gli angeli stessi si coprono la faccia dinanzi a Lui Isaia 6:2. Ma Cristo perfettamente vede e conosce e comprende il Padre. Perciò la manifestazione di Dio all'uomo, specialmente quando si tratti di salvarci e di santificarci, non può avvenire che per mezzo di Cristo, il quale fa fin dal principio il solo rivelatore di Dio.
7. In questa sezione tutte le eresie che mai pullularono nella Chiesa, - e il loro nome è legione, - trovano quanto basta a confutarle appieno.
19 Giovanni 1:19-28. GIOVANNI TESTIMONIA DI GESÙ DINANZI AI LEGATI DEL SINEDRIO
19. E questa è la testimonianza di Giovanni quando i Giudei da Gerusalemme mandarono dei sacerdoti, e dei Leviti, per domandargli Tu chi sei?
Credono alcuni che questa sia la medesima testimonianza di Giovanni 1:15, e spiegano in tal senso il modo ex abrupto con cui principia la parte di questo Vangelo, colla particella e, "radicando per dir così, il racconto nel Prologo". E però assai più naturale intendere queste parole della pubblica testimonianza di Giovanni a Gesù, che troviamo subito dopo e che riproduce sostanzialmente quella del ver.15. Il termine "I Giudei", che nei Sinottici trovasi di rado fuorché nel titolo "il re dei Giudei" Matteo 28:15; Marco 6:1-3; Luca 6:3; 23:51, è uno dei più caratteristici del quarto Vangelo. Giovanni se ne serve ben settanta volte, e quasi sempre per indicare i rettori o i capi del popolo d'Israele, il Sinedrio e quanti parteggiavano con loro contro a Cristo; del popolo egli parla generalmente sotto il nome di moltitudine. "Non si può, da questo fatto, derivare un argomento qualsiasi contro l'origine giudaica dell'autore di questo Vangelo, come hanno voluto fare Bretschneider e Fischer; esso conferma piuttosto che Giovanni scrisse il suo Vangelo solo quando i Giudei più non formavano una nazione separata, e per esser letto dai Gentili fra i quali viveva" (Alford). Il Sinedrio sedeva in Gerusalemme nella sala detta gazith, in uno dei cortili del tempio. Lo presiedeva il Sommo Sacerdote; lo componevano i tre ordini dei sacerdoti, degli scribi (molti fra i quali erano Leviti), e degli anziani o notabili, che rappresentavano l'elemento laico. I Leviti sono mentovati di rado nel Nuovo Testamento Luca 10:32; Atti 4:36; ma sotto l'Antico avevano missione d'insegnare 2Cronache 35:3; Nehemia 8:7-9, come pure di servire nel tempio, e senza dubbio quel nome è usato qui come equivalente a quello di "scribi", come al ver. 24, il termine "Farisei" è impiegato invece di "anziani", gli anziani essendo in grandissima maggioranza Farisei. In questa deputazione dunque erano rappresentati i tre ordini del Sinedrio. Come supremo consiglio della nazione, il Sinedrio si attribuiva l'ufficio di custode della religione e dei buoni costumi; e dinanzi alla crescente popolarità di Giovanni, della sua predicazione e del suo battesimo, si credette in obbligo di fare una inchiesta sulla sua persona e su ciò che diceva di essere, affin di accertarsi specialmente se egli non fosse l'aspettato Messia. "Nella Mishna è detto che appartiene al consiglio dei settantuno di giudicare i falsi profeti" (Watkins). Dal racconto non risulta chiaro che, a quel momento, il Sinedrio e i suoi mandati fossero già segretamente ostili a Giovanni e alla sua opera riformatrice; ma non ci si vede neppure la più piccola traccia che fossero desiderosi di trovare nell'eremita del deserto il Messia, o pronti a riceverlo come tale. Le loro menti carnali si figuravano il Messia come un guerriero che proclama la sua origine regale, alla testa delle sue legioni. Dopo avere attraversato una parte del deserto della Giudea e della pianura del Giordano, questa deputazione trovò il Battista a Betabara, sulla sponda orientale del fiume, e subito gli rivolse la domanda: "Tu chi sei?" Questa domanda non dà, certo, grande appoggio alla teoria di alcuni, che la deputazione del Sinedrio gli era stata mandata, non solo a motivo della sua predicazione, ma perché tuttora durava la fama della sua nascita miracolosa. Invero, per quanto ci debba meravigliare, parrebbe che quando il Messia e il suo precursore cominciarono il loro pubblico ministero, le circostanze straordinarie della nascita di entrambi erano affatto dimenticate Giovanni 7:48.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:5,33-36; Deuteronomio 17:9-11; 24:8; Matteo 21:23-32; Luca 3:15-18
Giovanni 10:24; Atti 13:25; 19:4
20 20. Ed egli riconobbe chi egli era, e nol negò; anzi lo riconobbe, dicendo: Io non sono Il Cristo
La traduzione di Diodati differisce qui alquanto dal Greco. E da preferirsi la traduzione del prof. A. Revel, perché più letterale e in completo accordo colle traduzioni inglese, francese e tedesca: "Ed egli confessò e non negò; egli confessò: io non sono il Cristo". Capì subito che la domanda del Sinedrio significava: "Sei tu il Messia?" e a tale domanda diede senza esitare una risposta chiaramente negativa. Così facendo, seppe resistere ad una fortissima tentazione, perché molti fra il popolo erano pronti a salutarlo Messia Luca 3:15. Se fosse stato un impostore, si sarebbe valso di questo eccitamento popolare per proclamarsi Messia, e farsi un gran partito nel paese. Le sue parole invece sono quelle di uno che rifugge, con sacro orrore, dal pensiero che un uomo così infimo come egli è, possa venire considerato come il Cristo.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:3:28-36; Matteo 3:11-12; Marco 1:7-8; Luca 3:15-17
21 21. Ed essi gli domandarono: Che sei adunque? (letteralmente: che dunque?) Sei tu Elia? Ed egli disse: Io nol sono
I Giudei aspettavano in quei tempi (e la aspettano tuttodì) Elia il Tisbita, che doveva scendere in persona dal cielo, prima della venuta del Messia, e da ciò ebbe origine questa domanda in quel senso personale Giovanni nega di essere Elia, ma non nega di essere l'Elia di cui Malachia profetizzò Malachia 4:5 poiché subito dopo dichiara di essere stato mandato per preparare la via del Signore. Mentre corregge le loro false nozioni sopra Elia, spiega il suo vero carattere e la sua missione in modo così chiaro che essi avrebbero potuto comprendere essere egli l'Elia annunziato dal profeta (Vedi note Matteo 9:14; Marco 9:11; Marco 9:13; Marco 9:14).
Sei tu il profeta? Ed egli rispose: No.
(Vedi note Matteo 16:14.) È evidente che, oltre ad Elia, i Giudei aspettavano Geremia, o qualcuno degli antichi profeti, ad annunziare che il Messia veniva, e tale può essere stato il senso di questa domanda. Però quel titolo così preciso: "il profeta" ci fa pensare piuttosto a colui che era stato predetto da Mosè Deuteronomio 18:18-19, intorno al quale i Giudei non andavano d'accordo se egli doveva essere il Messia promesso o un altro (Confr. Giovanni 6:14 con Giovanni 7:40-41). Basta questo versetto a provare che, lo scrittore era Giudeo. Chi se non un Giudeo poteva conoscere queste aspettazioni del popolo d'Israele? O se le conoscesse un Gentile, non le spiegherebbe egli ai suoi lettori?" (Plummer).
PASSI PARALLELI
Malachia 4:5; Matteo 11:14; 17:10-12; Luca 1:17,25; 7:40; Deuteronomio 18:15-18; Matteo 11:9-11; 16:14
22 22. Essi adunque gli dissero: Chi tu sei? acciocché rendiamo risposta a coloro che ci han mandati; che dici tu di te stesso?
Giovanni avendo risposto negativamente a quanto essi stessi avevano suggerito, i legati del Sinedrio fanno ora appello a lui stesso, affinché dichiari chi egli è, dandone per ragione il loro uffizio.
PASSI PARALLELI
2Samuele 24:13
23 23. Egli disse: Io son la voce di colui che grida (lett. la voce di uno che grida) nel deserto: Addirizzate la via del Signore, siccome il profeta Isaia ha detto
Gli avevano chiesto della sua persona, egli parla del suo uffizio, Egli non è nulla; la sua personalità scompare nel messaggio che egli porta agli uomini. L'occhio suo è fisso su colui che deve venire, e nella cui presenza egli non è più che una voce nel deserto; una voce che si deve ascoltare, non inquisire. Quando il Re viene, non è la persona, ma la voce dell'araldo che deve attrarre l'attenzione. Vi è qui un'allusione a un'abitudine tuttora prevalente in Oriente di mandare corrieri o messaggeri a raddrizzare la via dinanzi ai sovrani. Le parole: "addirizzate la via del Signore" (tolte da Isaia 40:3) non solo proclamavano Giovanni Battista come il predetto Precursore del Messia, ma pure definivano lo scopo del suo ministero Matteo 3:3. I Sinottici applicano queste parole al Battista e vi vedono una prova, dell'adempimento delle profezie; ma, da questo versetto, si vede che egli fu il primo ad applicarle, a se stesso.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:3:28; Matteo 3:3; Marco 1:3; Luca 1:16-17,76-79; 3:4-6; Isaia 40:3-5
24 24. Or coloro ch'erano stati mandati erano d'infra i Farisei
(Vedi il Quadro delle Sette Giudaiche, al principio del volume.) La grande maggioranza dei membri del Sinedrio apparteneva alla setta dei Farisei, e siccome i Sadducei non si interessavano di questo cose, è naturale che i legati del Sinedrio fossero tutti Farisei. La cosa ci vien fatta qui notare, perché spiega la domanda del versetto seguente. I Farisei infatti sostenevano, a spada tratta, che dopo Mosè, nessun profeta, ad eccezione di quelli mentovati più sopra, aveva il diritto di introdurre nuovi riti o cerimonie, prima della venuta del Messia.
PASSI PARALLELI
Giovanni 3:1-2; 7:47-49; Matteo 23:13-15,26; Luca 7:30; 11:39-44,53; 16:14; Atti 23:8; Atti 26:5; Filippesi 3:5-6
25 25. Ed essi gli domandarono, e gli dissero: Perché dunque battezzi, se tu non sei il Cristo, né Ella, né il Profeta?
Gli scritti talmudici ci offrono prove bastanti che i Giudei sottoponevano al battesimo i loro proseliti, anche prima della venuta del Battista. Non è dunque il fatto del battesimo che sembra loro strano; bensì primieramente che Giovanni battezzi, pur dicendo di non essere né il Cristo, né Elia, né il Profeta; e in secondo luogo che egli imponga il battesimo, non già a dei Gentili, ma al popolo eletto d'Israele, e perfino a dei Farisei Matteo 3:7. Avrebbero forse ammesso il suo battesimo se vi avesse invitati quelli solo che non appartenevano al popolo d'Israele; ma l'amministrare un rito che era simbolo di purificazione a quelli che, nella loro qualità di Giudei, già si ritenevano puri, era per essi cosa incomprensibile!
PASSI PARALLELI
Matteo 21:23; Atti 4:5-7; 5:28; Giovanni 1:20-22; Daniele 9:24-26
26 26. Giovanni rispose loro dicendo: Io battezzo con acqua; ma nel mezzo di voi è presente (sta) uno, il qual voi non conoscete
Le parole della prima clausola di questo versetto, prese come stanno, contengono semplicemente una risposta alla questione: "Perché battezzi?" Non parla così per scusarsi o per fare una apologia del suo battesimo, quasi che se ne vergognasse o volesse placare l'ira del Sinedrio. Nemmeno intende d'evitare una risposta diretta alla domanda fattagli. Anzi con queste parole afferma chiaramente la sua missione divina, mentre, nella clausola seguente, egli dichiara la sorgente dalla quale derivava la sua autorità, cioè da colui che è più forte di me", la cui venuta imminente egli aveva proclamata. La dichiarazione che egli fa quindi, che il Messia sta già nel mezzo di loro, benché essi non lo conoscano, è una completa risposta alla domanda relativa alla sua autorità come profeta. Egli battezzava con acqua, perché tale era la missione che aveva ricevuta da Dio Giovanni 1:33, per metter da parte, in tal modo, tutti quelli che professavano di pentirsi e di esser pronti a ricevere il suo Signore. Siccome Gesù ancora non era stato additato ai rettori o alla moltitudine come Messia, le parole: "il qual voi non conoscete", non possono venire considerate, (con Lange), come un rimprovero, eccetto in quanto che, essi avevano trascurato di tener l'occhio fisso sopra uno che, alla nascita, era stato chiaramente proclamato "il Cristo, il Signore" Luca 2:11. La parola sta in mezzo a voi significa non solo che il Messia era già venuto nel mondo, ma che, mentre Giovanni parlava, egli era in mezza alla folla. Perciò la sua comparsa deve essere stata posteriore al battesimo e alla tentazione, poiché Giovanni dichiara Giovanni 1:33 di averlo conosciuto, come Messia, solo quando vide lo Spirito scendere sopra lui, secondo il segno che gliene aveva dato Iddio. Gli eventi dei tre giorni che seguirono l'invio della deputazione sono così chiaramente definiti Giovanni 1:30-43 dal nostro Evangelista, - un discepolo di Giovanni, e probabile testimonio di questo incontro, - che è impossibile andar d'accordo cogli scrittori i quali suppongono il battesimo nell'uno o nell'altro di quei tre giorni.
PASSI PARALLELI
Matteo 3:11; Marco 1:8; Luca 3:16; Atti 1:5; 11:16
Giovanni 1:10-11; 8:19; 16:3; 17:3,25; Malachia 3:1-2; 1Giovanni 3:1
27 27. Esso è colui che vien dietro a me, il quale mi è stato antiposto (Vedi note Giovanni 1:15) di cui io non sono degno di sciogliere il correggiuol della scarpa
I sandali, che usavano al tempo del Signore, e usano tuttodì, in Oriente, erano pezzi di cuoio tagliati secondo la forma della pianta del piede, e legati attorno alla parte inferiore della gamba da piccole cinghie. Portar quei sandali Matteo 3:11, metterli e levarli al padrone della casa, era l'uffizio del più umile fra gli schiavi (Vedi note Luca 7:44). Con queste parole adunque, Giovanni dichiara che egli era indegno di prestare al Messia i più umili servizi. In che modo meraviglioso fu sviluppata la grazia dell'umiltà in questo servo di Dio, di cui pure Gesù disse: "Fra coloro che sono nati di donna, non vi è profeta alcuno maggior di Giovanni Battista" Luca 7:28, e qual lezione egli ci dà di esser pronti noi pure a tutto deporre ai piedi di Cristo, e a sentirci indegni di prestargli i più umili servigi!
PASSI PARALLELI
Giovanni 15:30; Atti 19:4; Matteo 3:11; Marco 1:7; Luca 3:16
28 28. Queste cose avvennero in Betabara (casa del guado o del passo), di là dal Giordano ove Giovanni battezzava
Al tempo dei Giudici Giudici 7:24-25, eravi un guado del Giordano il cui nome (Betbara) era quasi identico con quello qui ricordato. Era situato nel territorio di Efraim, e se fu quello il luogo dove Giovanni battezzava, ben vi si attaglierebbe il tempo (indicato in Giovanni 1:43; 2:1 impiegato dal Signore per andarvi da Cana di Galilea). Ma secondo tutti i migliori e più antichi manoscritti la vera lezione sarebbe Betania, non Betabara. Origene riconosce che fino al suo tempo quasi tutti i manoscritti portavano Betania, ma siccome non gli riuscì trovare lungo il Giordano nessun posto chiamato Betania, mentre vi trovava Betabara, che una tradizione locale riferiva al battesimo di Giovanni, aveva sostituito Betabara a Betania, ed in ciò è stato seguito da quasi tutti i padri. Barnes asserisce ma senza darne la prova, che c'era una città o villaggio detto Betania nella tribù di Ruben, sulla sponda orientale del Giordano, dodici miglia a monte di Gerico. Non si trova traccia, ai dì nostri, di un villaggio e qualsiasi nella regione indicata dal Barnes, benché la sua opinione sia assai probabile. Caspari ha identificato Betania con Tellanije villaggio del Colla, all'estremità settentrionale della Palestina; ma quella derivazione è troppo fantastica, e la distanza da Gerusalemme troppo grande, perché si possa andar d'accordo con lui. Alcuni scrittori di tendenze neologiche, accettando Betania come la vera lezione, cercano di far passare il nostro Evangelista come un ignorante in Geografia, insinuando che egli mette oltre il Giordano una località della vicinanza immediata di Gerusalemme; ma così facendo provano solo la propria ignoranza e superficialità, poiché, mentre Giovanni ci parla di questa Betania oltre il Giordano, egli sa benissimo che vi era un'altra "Betania vicin di Gerusalemme intorno di quindici stadi" (meno di due miglia; Giovanni 11:18), di più egli ci dice che quando gli venne recato l'annunzio della malattia di Lazzaro, Gesù dimorava "di là dal Giordano, al luogo ove Giovanni prima battezzava" (Conf. Giovanni 10:40; 11:13). "La menzione del luogo preciso aggiunge forza a quanto era stato detto prima, e dimostra incidentalmente che la data della missione del Sinedrio fu posteriore al primo stadio del ministero di Giovanni, e avvenne quando egli si ritrasse dal deserto della Giudea al di là del Giordano" (Westcott).
PASSI PARALLELI
Giovanni 12:5; 3:23; 10:40; Giudici 7:24
29 Giovanni 1:29-34. TESTIMONIANZA DI GIOVANNI A GESÙ DINANZI AI SUOI DISCEPOLI, E ALLA FOLLA
29. Il giorno seguente (quello in cui la deputazione del Sinedrio avealo interrogato), Giovanni vide Gesù che veniva a lui e disse:
Il giorno prima, guidato dallo Spirito, egli aveva detto solamente che colui che non era degno di rendere i più umili servigi, trovavasi nella folla; ma ora, vedendo avvicinarsi Gesù, lo addita ai suoi discepoli e alla moltitudine chiamando la loro attenzione su di lui colla esortazione: ecco! Notate quell'uomo, perciocché egli è colui che io vi ho annunziato. Era naturale e conveniente, che dopo la sua prova, e al momento di esordire nel suo ministero di Redentore, Gesù tornasse a Giovanni per dargli l'occasione di compiere fino in fine la sua missione di araldo, presentando ad Israele la persona stessa del Messia. "È, pure probabile", dice Godet, "che il Signore tornò da Giovanni, perché sapeva di trovar fra i suoi discepoli quelli che potevano aiutarlo a spargere la buona novella del suo regno".
Ecco l'Agnello di Dio,
Alcuni suppongono che nella conversazione che passò fra Giovanni e Gesù dopo il battesimo Matteo 3:14-15, il Signore abbia fatto al suo Precursore tali rivelazioni da giustificare il titolo che egli dà quivi a Cristo. Preferiamo credere che questo annunzio col quale Giovanni chiude il suo ministero, fu messo sulle sue labbra dallo Spirito di rivelazione. Questo titolo era il tempo stesso famigliare e pregno di significato, soprattutto se ad esso si uniscono le parole che lo seguono immediatamente e proclamano rimosso il peccato. Eravi l'agnello ucciso e mangiato in ogni casa d'Israele alla Pasqua, in ricordo del riscatto dalla morte nella terra di Egitto; eravi l'agnello ucciso mattina e sera nel Santuario (due ogni volta il Sabato), come sacrificio per il peccato Esodo 29:38-39; Numeri 28:3-10; eravi la nota profezia di Isaia 53 (da tutti i vecchi Commentatori ebrei considerata come messianica), dove Colui "che è stato ferito per i nostri misfatti e fiaccato per le nostre iniquità, e sopra cui è stato il gastigamento della nostra pace", ci vien mostrato "menato all'uccisione come un agnello, e come una pecora mutola davanti a quelli che la tosano" Giovanni 5:7. Si obietta che, in questa profezia, l'agnello è citato solo come esempio di mansuetudine e di dolcezza; ma è impossibile non tener conto del fatto che Colui di cui l'agnello è emblema, secondo la profezia medesima "ha posto l'anima sua per sacrificio per la colpa" Giovanni 1:10, "ha esposto l'anima sua alla morte" Giovanni 1:12, "è stato annoverato coi trasgressori" e "ha portato il peccato di molti" (ibid.). E probabile che lo Spirito avesse in vista tutti questi fatti complessivamente, allorquando mise sulle labbra del Battista quel titolo del Salvatore, che il nostro Evangelista ripete così spesso nell'Apocalisse. "L'AGNELLO" dà qui, in modo non dubbio, alla morte di Cristo il carattere di sacrificio. Di più, egli non è descritto solamente come un agnello, bensì come "l'Agnello di Dio." È un ebraismo ben riconosciuto il chiamare le cose grandi, mirabili, indescrivibili, "cose di Dio" 1Samuele 14:15; Salmi 65:9; Genesi 13:10; Isaia 51:3; Ezechiele 31:8-9, e alcuni, prendendo questa espressione in tal senso leggono: "quel grande, eminente, eccellentissimo Agnello". Questo è vero; ma v'ha di più. Le parole "di Dio" hanno qui un senso enfatico, e c'invitano a considerare questo Agnello come quello che è stato da Dio stesso preparato fin da ogni eternità, e che egli aveva promesso di mandare a morire in terra per i peccatori; come quello che gli era caro e prezioso, perché solo poteva dar soddisfazione per il peccato, secondo il piano della salute. "Chiamandolo l'Agnello di Dio, Giovanni lo addita come l'unico sacrificio espiatorio, da Dio preordinato, da Dio reso perfetto, da Dio accettato" (Brown). Con questo titolo speciale "l'Agnello di Dio", il Santo Spirito volle insegnarci pure che tutti i sacrifici soliti offrirsi dai Giudei, sotto la legge, erano impotenti ad espiare il peccato, erano mere figure, la cui sostanza è rivelata solo in Cristo.
che toglie il peccato del mondo
Vi sono due parole in Greco per indicare l'atto di Cristo nel far propiziazione per noi: una è ha portato 1Pietro 2:24; l'altra che toglie, qui e 1Giovanni 3:5. La parola Ebraica corrispondente nasa ha i due sensi, cioè prendere su se stesso, divenire responsabile per, e togliere il peccato e procurare perdono. Entrambe queste idee si ritrovavano nel rito del capro espiatorio Azazel, nel giorno della espiazione; il peccato d'Israele veniva dal sacerdote figurativamente posto sopra esso; quindi carico di quel peccato, era condotto fuori in terra solitaria Levitico 16:21-22. Esse si trovano pure tutte e due nella parola di questo versetto, imperocché, per togliere il pondo del peccato da quelli sui quali esso grava, Cristo deve prenderlo su di se, e si fu il prendere definitivamente su di sé, quel carico doloroso che strappò perfino alla sua immacolata umanità il grido di angoscia: "Padre mio, se egli è possibile, trapassi da me questo calice" Matteo 26:39. Questa espressione "che toglie", ecc. è una fra le molte che ci presentano la grande verità, così spesso ripetuta nelle Scritture, che la morte di Cristo fu un sacrificio vicario per il peccato 2Corinzi 5:21; Galati 3:13; 1Pietro 2:24; 1Giovanni 3:5. Essa c'insegna che, mediante la efficacia del suo sacrificio, offerto una volta per sempre, Gesù continuamente toglie dal suo popolo il suo peccato. Giovanni parla qui di peccato al singolare, per indicare la corruzione comune a tutti gli uomini, mentre così ci dà pure l'idea del peso collettivo messo sull'Agnello e della universale efficacia del suo gran sacrificio. Questa idea è resa più chiara ancora dalle parole che seguono: "il peccato del mondo". I Giudei credevano che tutti i benefizi che il Messia porterebbe con se sarebbero rigorosamente confinati alla loro nazione; ma Giovanni, in presenza del Messia e nell'atto di introdurlo nell'opera sua corregge questa gretta nozione, e dichiara che del benefizio della salvazione può godere ogni uomo "Giudeo o Gentile, barbaro o Scita, libero o franco". Lungi dall'esser la salute confinata in un popolo speciale, o in un paese qualsiasi del globo, in ogni luogo, dovunque vi sono peccatori schiacciati sotto il peso delle loro colpe, essi hanno solo da guardare a lui per esser salvi 1Giovanni 2:2. In questa universalità della salute viene adempiuta non solo la promessa fatta ad Abrahamo: "tutto le nazioni della terra saranno benedette in te" Genesi 12:3, ma pure quella più antica fatta ad Adamo, prima dell'esilio dall'Eden, che "la progenie della donna triterà il capo del serpente" Genesi 3:15.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:36; Genesi 22:7-8; Esodo 12:3-13
Numeri 28:3-10; Isaia 53:7; Atti 8:32; 1Pietro 1:19; Apocalisse 5:6,8,12-13; 6:1,16
Apocalisse 7:9-10,14,17; 12:11; 13:8; 14:1,4,10; 15:3; 17:14; 19:7,9
Apocalisse 21:9,14,22-23,27; 22:1-3
Isaia 53:11; Osea 14:2; Matteo 20:28; Atti 13:39; 1Corinzi 15:3; 2Corinzi 5:21; Galati 1:4
Galati 3:13; 1Timoteo 2:6; Tito 2:14; Ebrei 1:3; 2:17; 9:28; 1Pietro 2:24; 3:18
1Giovanni 2:2; 3:5; 4:10; Apocalisse 1:5
Esodo 28:38; Levitico 10:17; 16:21-22; Numeri 18:1,23
30 30. Costui è quel del quale Io diceva: Dietro a me viene un altro, il qual mi è antiposto; Perciocché egli era prima di me
(Vedi note Giovanni 1:15.) In entrambi questi versetti, Giovanni allude ad una testimonianza da lui resa a Gesù non c'è detto né quando, né in quale occasione. Ne ripete qui i termini del versetto 15, facendo comprendere, che la persona, la cui venuta era l'avveramento di quel suo annunzio, sarebbe da tutti trovata conforme a questi particolari, per quanto potessero apparire misteriosi ai suoi ascoltanti.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:15,27; Luca 3:16
31 31. E, quant'è a me (lett. e io pure, con riferenza al ver. 26), io nol conosceva;
Giovanni dimorava nel deserto di Giudea, conducendovi una vita ascetica Matteo 3:4. Gesù viveva a Nazaret, a 50 o 60 miglia al Nord, sicché non potevano incontrarsi molto di frequente; ma se teniamo conto della loro stretta parentela, e della puntualità colla quale entrambi osservavano i riti della religione giudaica, "per adempiere ad ogni giustizia", ci par quasi certo che Gesù e Giovanni dovevano incontrarsi periodicamente a Gerusalemme nelle grandi solennità, cosicché dicendo: "io nol conosceva", Giovanni non può aver inteso dire che egli e il suo cugino erano ignoti l'uno all'altro, né si erano visti mai, fino al giorno in cui Gesù venne da Giovanni, per esser battezzato. Una tale supposizione non è punto necessaria, poiché il nesso di questa dichiarazione con le parole che precedono, prova che quella sua ignoranza di Gesù, fino a un momento che egli ora indica, si deve intendere solo del suo carattere ufficiale come Messia. Con questa dichiarazione egli va incontro ad ogni possibile rimprovero di essersi intesi fra loro per propagare una frode. A prima vista, sembra esservi contraddizione fra questa negazione di Giovanni, e le sue parole in Matteo 3:14, quando ricusava di battezzare Gesù, dicendo: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni a me", e vari modi di togliere questa difficoltà sono stati suggeriti:
1) Giovanni si era formato nella sua mente qualche idea indefinita che colui che gli si presentava potesse essere il Messia.
2) Siccome richiedeva da ogni candidato al battesimo, una confessione dei suoi peccati, Gesù rivelandogli di esser senza peccato, gli aperse gli occhi per conoscerlo.
3) Dio aveagli dato una speciale rivelazione, al momento in cui, per l'appunto, Gesù si avvicinava a lui.
Nessuna di queste spiegazioni ci pare soddisfacente. Altro non conosciamo del carattere di Gesù dal suo duodecimo anno, quando egli divenne Ben-Atorah, (figlio della Legge, Vedi note Luca 2:42) fino al principio del suo ministero in età di trentun anno, se non quello che ci dicono queste parole: "Gesù si avanzava in sapienza, e in istatura, e in grazia appo Dio, e appo gli uomini" Luca 2:52. Un uomo di tal carattere, per quanto umile fosse la sua condizione di falegname, deve essere stato osservato dai suoi parenti e dai suoi vicini. Giovanni specialmente, sapendo che in quanto a purezza di cuore, integrità di carattere e devozione a Dio, Gesù di Nazaret gli era immensamente superiore, doveva essere naturalmente indotto a dirgli: "Io ho bisogno di esser battezzato da te", senza che, a spiegare le sue parole, si debba ricorrere a una rivelazione o mettere in dubbio quanto egli annunzia alle folle (Vedi note Matteo 3:14).
ma, acciocché egli sia manifestato ad Israele, per ciò son venuto, battezzando con acqua
Secondo i Sinottici, la missione del Battista era di preparare Israele alla venuta del Messia, svegliandolo a pentimento per il suo peccato. Questo egli riconosce in Giovanni 1:23; ma a ciò non si limitava la sua missione è suo dovere di Precursore l'annunziare il suo Maestro in persona, e queste parole sono il punto culminante della sua missione, l'atto supremo di tutta la sua opera: "Perciò sono venuto, battezzando con acqua". Non venne a farsi un partito, o a battezzare nel proprio nome. L'intero oggetto della sua predicazione e del suo battesimo era ora patente dinanzi ai suoi uditori, e questo era semplicemente di far noto a Israele "l'Agnello di Dio", che stava ora dinanzi agli occhi loro il termine Israele è sempre usato da Giovanni coll'idea dei privilegi spirituali della razza di Abrahamo Giovanni 1:49; 3:10; 12:13.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:33; Luca 1:80; 2:39-42
Giovanni 1:7; Isaia 40:3-5; Malachia 3:1; 4:2-5; Luca 1:17,76-79
Matteo 3:6; Marco 1:3-5; Luca 3:3-4; Atti 19:4
32 32. E Giovanni testimoniò dicendo Io ho veduto lo Spirito, ch'è sceso dal cielo in somiglianza di colomba, e si è fermato sopra lui
In questo e nei due vers. seguenti, Giovanni proclama le ragioni per le quali egli ha manifestato Cristo ad Israele. A lui stesso era stato dato a conoscere Gesù come Messia, in modo così singolare che gli era impossibile ingannarsi. Senza parlarne, fa però allusione qui al battesimo di Gesù, e le sue parole sono molto notevoli. Quanto aveva veduto in quella occasione era rimasto, e rimaneva tuttora per lui un argomento ognora presente ed inconfutabile: "Io ho veduto, egli dice; e dopo aver descritto la discesa dello Spirito Santo sopra Gesù in forma di colomba, soggiunge che, quello Spirito "si è fermato sopra lui", cioè ha preso possesso durevole e permanente di Gesù. Il significato naturale di questo versetto si è che vi fu una reale apparizione, il che vien confermato d'alle parole: "In forma corporale" Luca 3:22. Se ammettiamo la forma corporale, non v'è ragione valevole per rigettare la colomba o le "lingue di fuoco" Atti 2:3. Quel che vi è di meraviglioso si è che lo Spirito Santo sia stato in qualsiasi modo visibile, e non già che egli abbia assunto la forma speciale di una colomba.
PASSI PARALLELI
Giovanni 5:32; Matteo 3:16; Marco 1:10; Luca 3:22
33 33. E, quant'è a me, io nol conosceva; ma colui che mi ha mandato a battezzare con acqua mi aveva detto:
In queste parole il Battista asserisce non solo che la sua missione di battezzare con acqua aveva una divina origine, ma pure che Dio avevagli dato un segno speciale, cui riconoscere colui il quale, "venuto dietro a lui, gli era stato antiposto", e si fu l'adempimento di questo segno nella persona che in quel momento si avvicinava a lui, che lo aveva indotto a rendergli la testimonianza contenuta in questi versetti.
Colui, sopra il quale tu vedrai scendere lo Spirito, e fermarsi, è quel che battezza con lo Spirito Santo
Siccome Giovanni, durante tutto il suo ministero, aveva messo in contrasto il suo battesimo con acqua, col "battesimo collo Spirito Santo" di colui che doveva seguirlo, importa notare che Dio aveagli descritto precisamente in tali termini l'uomo che egli doveva aspettare. Questi versetti ci forniscono una prova della dottrina della Santissima Trinità, e della personalità distinta del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Vedi note Matteo 3:16; Matteo 3:17). Merita pure di essere notato il fatto che Giovanni conosce perfettamente lo Spirito Santo e la sua opera. "L'opinione che lo Spirito Santo non fosse conosciuto prima della Pentecoste è contraddetta da molti passi dell'Antico Testamento. Lo Spirito Santo è sempre stato nel cuore dei credenti in tutte le età del mondo, e senza di esso nessun'anima è mai stata salvata" (Ryle).
PASSI PARALLELI
Matteo 3:11
Giovanni 1:31; Matteo 3:13-15
Giovanni 1:5,34; Matteo 3:11,14; Marco 1:7-8; Luca 3:16; Atti 1:5; 2:4; 10:44-47
Atti 11:15-16; 19:2-6; 1Corinzi 12:13; Tito 3:5-6
34 34. Ed io l'ho veduto,
Giovanni stava all'erta per vedere il segno datogli da Dio, e quel segno finalmente si presentò, al momento in cui Gesù saliva dal Giordano dopo il suo battesimo. In quel momento steso egli udì pure le parole dal cielo che accompagnavano il segno, e da quell'istante la sua mente rimase appieno convinta che il suo cugino secondo la carne, era il Messia.
e testifico che costui è il Figliuol di Dio
Questa certezza egli ebbe "tosto che Gesù fu battezzato e salì fuor dell'acqua" Matteo 3:16; ma trascorse molto tempo prima che gli si offrisse l'occasione di proclamare pubblicamente quella verità, poiché subito dopo il battesimo, Gesù fu "sospinto" dallo Spirito nel deserto di Giudea Matteo 4.l; Marco 1:12; Luca 4:1, per esservi tentato da Satana, quaranta giorni e quaranta notti. Tornò quindi a Betabara, e il giorno che seguì la visita della deputazione, Giovanni vedendolo avvicinarsi, stese il braccio verso di lui, lo additò ai discepoli e alla folla, e pronunziando le parole di Giovanni 1:32, spiegò a qual segno divino lo aveva riconosciuto, e lo proclamò Figliuol di Dio. Nel dargli quel segno, Dio aveva chiamato "quel che battezza con lo Spirito Santo"; Giovanni in questa sua ultima proclamazione, quale araldo del Messia, va un passo più in là, e ricordandosi le parole scese dal cielo: "Questo è il mio diletto Figliuolo", chiaramente testifica che Gesù "è il Figliuol di Dio", nome che esprime ad un tempo la sua divina origine e le sue relazioni col Padre. "Il nesso fra questa sublime conclusione del Battista e il fatto sul quale essa riposa, trovasi nel pensiero che Colui che battezza collo Spirito Santo, e può impartire i doni e le virtù dello Spirito, deve esser divino" (Milligan). La parola di Giovanni: "Convien ch'egli cresca, e ch'io diminuisca" Giovanni 3:30, principiò ad aver effetto da quel giorno, e fu tosto avverata per il fatto, del suo incarceramento e del suo martirio; ma il Signore era tornato dal deserto precisamente per onorare il fine del ministero del suo Precursore; dandogli l'occasione di additarlo pubblicamente ad Israele, proclamare i suoi titoli, e introdurlo nell'opera sua messianica, e nel suo pubblico ministero.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:18,49; 3:16-18,35-36; 5:23-27; 6:69; 10:30,36; 11:27; 19:7; 20:28,31
Salmi 2:7; 89:26-27; Matteo 3:17; 4:3,6; 8:29; 11:27; 16:16; 17:5; 26:63
Matteo 27:40,43,54; Marco 1:1,11; Luca 1:35; 3:22; Romani 1:4; 2Corinzi 1:19
Ebrei 1:1-2,5-6; 7:3; 1Giovanni 2:23; 3:8; 4:9,14-15; 5:9-13,20; 2Giovanni 9
Apocalisse 2:18
35 Giovanni 1:35-51 GESÙ COMINCIA IL SUO PUBBLICO MINISTERIO
35. Il giorno seguente,
cioè il terzo giorno, contando quello in cui i legati del Sinedrio erano giunti a Betabara. Brown osserva che qui e al ver. 29 Giovanni 1:29 comincia quella cronologia così precisa che è uno dei tratti distintivi del Vangelo di Giovanni.
Giovanni di nuovo si fermò (letteralmente: stava fermato), con due de suoi discepoli
Giovanni aveva molti discepoli, ma probabilmente questi due soli erano con lui al momento in cui Gesù passò. Uno era Andrea Giovanni 1:40, l'altro non può essere che il nostro Evangelista, Giovanni, figlio di Zebedeo. Sappiamo che è sua abitudine non nominarsi mai quando parla di se stesso; e qui abbiamo evidentemente il racconto di un testimonio oculare nella memoria del quale ogni più piccolo particolare di questo primo incontro con Gesù rimase incancellabilmente vivendo fino alla morte.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:25-26; Malachia 3:16
36 36. Ed avendo riguardato in faccia
(e avendo fissato con uno sguardo penetrante; Vedi Giovanni 1:42, il solo altro passo dove l'Evangelista usa questa parola). Gesù che camminava, questa volta non è detto che Gesù andasse a Giovanni; camminava meditando silenziosamente, pronto a testimoniare della verità, ed aspettando fiduciosamente quel trattenimento coi discepoli di Giovanni, che doveva essere il primo atto pubblico del suo ministero.
disse: Ecco l'Agnello di Dio
Il giorno prima, Giovanni aveva fatto pubblicamente nota la presenza del Messia, e l'opera che egli veniva a fare; ripete ora più brevemente quella testimonianza per confermarla nella mente dei suoi discepoli, e invitarli a seguitare Gesù. Non c'è nessun motivo per supporre che quei due discepoli fossero stati assenti il giorno prima, e che queste parole del Battista non avessero altro scopo che di istruirli di quanto già sapevano gli altri. Questo pare esser stato l'ultimo incontro di Giovanni e di Gesù.
37
37. E i due discepoli l'udirono parlare, e seguitarono Gesù
Intesero le parole del loro primo maestro nel senso stesso in cui egli le pronunziò. Niente egli aveva detto per rompere il legame che li univa; non una parola dura a dire, dura ad udire era stata pronunziata. Neppure disse loro di seguitare Gesù: questo non occorreva. I due andarono dietro a Gesù, non come discepoli ancora, ma come uomini il cui cuore era stato commosso, il vivo interesse destato, e che bramavano saperne di più a suo riguardo. "Son degni di nota i tre passi successivi descritti in questo versetto. Giovanni Battista "parla", i discepoli "odono"; e, dopo udito, seguitano Gesù. "Ecco in breve il modo in cui Dio salva migliaia di anime!" (Ryle).
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:43; 4:39-42; Proverbi 15:23; Zaccaria 8:21; Romani 10:17; Efesini 4:29; Apocalisse 22:17
38 38. E Gesù, rivoltosi, e veggendo che lo seguitavano disse loro: Che cercate?
E interessante notare, con Westcott, le prime parole di Gesù, come vengono riferite in ciascuno dei quattro evangeli (Matteo 3:15; Marco 1:15; Luca 11:49; Giovanni 1:38). Come è amorevole e attraente quella che ci vien qui riferita. E adatta a tutte le età, Gesù invita chi lo ricerca ad aprirgli con fiducia il suo cuore; è il preludio alle amorevoli parole: "Venite a me". Questo primo suo incontro con Gesù, fece una impressione così profonda sul cuore sensibile di Giovanni, che, raccontandolo circa settanta anni dopo, ne ricorda i più minuti particolari. Mentre i due lo seguivano, desiderosi di parlargli, eppur temendo di farlo, Gesù li vede, a loro si volge, e cerca di guadagnare la loro fiducia, e di incoraggiare le loro ricerche, facendo egli a loro la prima domanda - non "chi cercate?" era evidente che cercavano lui, ma "che cercate?" "Posso io far qualcosa per voi? insegnarvi qualche verità? togliere qualche peso d'in sulle vostre spalle? Parlate e non temete".
Ed essi gli dissero: Rabbi, (il che, interpretato, vuol dire - Maestro),
Son notevoli in questo Vangelo le frequenti spiegazioni relative a nomi, usi e luoghi della Palestina Giovanni 1:41-42, che provano non solo che lo scrittore era Giudeo e nativo della Palestina, ma pure che (come Marco e Luca), scrisse per Cristiani usciti dal Gentilesimo, cui tali spiegazioni erano necessarie. Il titolo di Rabbi che significa: Mio Signore o mio Maestro venne a darsi, al tempo di Cristo, a chiunque insegnava; questi due, desiderosi come erano di venire istruiti da Gesù, molto naturalmente lo chiamarono col nome che solevano dare a Giovanni.
dove dimori?
Quelli che venivano da Giovanni per esser battezzati alloggiavano nei cascinali o nei villaggi vicini, o anche in capanne temporanee, e la risposta di questi due alla domanda di Gesù: "Che cercate?" sembra a prima vista diretta al solo scopo di sapere ove Gesù avesse preso alloggio; ma, rettamente intesa, ha un senso assai più profondo: "Maestro, le parole di Giovanni ci spingono a te! Vorremmo conoscerti meglio che non si possa in mezzo alla folla. Permettici di andare a casa tua, per conferire teco con libertà e quiete, delle cose che ci stanno a cuore".
PASSI PARALLELI
Luca 14:25; 15:20; 19:5; 22:61
Giovanni 18:4,7; 20:15-16; Luca 7:24-27; 18:40-41; Atti 10:21,29
Giovanni 1:49; 3:2,26; 6:25; Matteo 23:7-8
Giovanni 1:12-21; Ruth 1:16; 1Re 10:8; Salmi 27:4; Proverbi 3:18; 8:34; 13:20; Cantici 1:7-8
Luca 8:38; 10:39
39 39. Ed egli disse loro: Venite, e vedetelo
Pensavano andarvi più tardi forse il giorno dopo; ma Gesù, con somma degnazione, li invita ad accompagnarlo subito a casa. Lightfoot osserva che queste parole: "Venite e vedetelo" erano t'invito usuale dei rabbini ai loro discepoli, per chiamare l'attenzione su qualche punto importante, o sa qualche nuova dottrina. Checché ne sia di ciò, esse sono il preludio dell'appello di Cristo a tutti gli uomini: "Venite e vedetelo chi io sono, e quello che io sono". "Imparate da me ch'io sono mansueto ed umile di cuore, e voi troverete riposo alle anime vostre" Matteo 11:29.
Essi adunque andarono, e videro ove egli dimorava,
È evidente che i due discepoli accompagnarono volentieri Gesù, e benché l'Evangelista non ci dica nulla, né del luogo, né della natura del trattenimento che seguì, il risultato mostra che quella fu una visita benedetta. Fu per l'Evangelista il sacro punto di partenza di una vita nuova, e ogni dettaglio ne rimase profondamente scolpito nella sua mente e nel suo cuore. "Le parole di Andrea a suo fratello Giovanni 1:41, ci lasciano indovinare quanto solenni sieno stati, in quel giorno, gli insegnamenti di Gesù, le sue misericordiose rivelazioni di se stesso, la sua pazienza nell'istruire la loro ignoranza, la sua tenera sollecitudine nel rimuovere i loro dubbi, tanto che, nella gioia della loro scoperta, poterono dire: 'Noi abbiamo trovato il Messia'" (Milligan).
e stettero appresso di lui quel giorno. Or era intorno le dieci ore
La lunghezza del trattenimento dipende dal senso che si darà alle parole intorno alle dieci ore. I Giudei cominciavano a contare le ore dal levare del sole; i Romani invece le contavano dalla mezzanotte. Nel primo caso la decima ora corrisponderebbe alle 4 pom.; nell'altro alle 10 di mattina. Entrambe queste teorie sono sostenuto da critici distinti; ma probabilmente nessuno avrebbe mai dubitato che Giovanni contasse le ore all'uso giudaico, senza la divergenza fra lui e Marco relativamente all'ora della crocifissione (Confr. Marco 15:25; Giovanni 19:14). Contro la spiegazione delle 4 pom. si dice che il tempo fra quell'ora e le 6, (chiusura del giorno giudaico), era troppo breve per un trattenimento di questa importanza; d'altra parte si dice che dalle 10 di mattina alle 6 pom. è più di quanto si può ragionevolmente credere che Gesù potesse dare ai due, discepoli. Siccome in Giovanni 4:6; 9:9, l'Evangelista segue evidentemente l'orario giudaico, ci pare probabile che lo segua anche qui, come fan pure i Sinottici nei loro scritti. Se la conversazione cominciò alle 4 pom. rimanevano due ore intere prima della chiusura del giorno giudaico, lasciando ampio tempo a Andrea per riferire la cosa a suo fratello, prima di ritirarsi per la notte.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:46; 6:37; 14:22-23; Proverbi 8:17; Matteo 11:28-30
Giovanni 1:40; Atti 28:30-31; Apocalisse 3:20
Luca 24:29
40 40. Andrea fratello di Simon Pietro, era uno dei due, che avevano udito quel ragionamento da Giovanni, ed avevano seguitato Gesù
Fra i discepoli di Gesù, furonvi due coppie di fratelli, i figli di Giona, e i figli di Zebedeo, e se dobbiamo stare all'ordine nel quale vengono nominati, Pietro sarebbe stato il maggiore della prima coppia, e Giacomo della seconda. Alcuni però fanno di Andrea il figlio primogenito di Giona, benché lo conosciamo solo per la sua parentela col più illustre suo fratello. Altro non ci dice la Scrittura di lui, se non che egli indicò il ragazzo che portava i cinque pani e i due pesci Giovanni 6:8; che introdusse i Greci a Gesù Giovanni 12:22; ed era fra i discepoli cui Cristo, sul Monte degli Ulivi, annunziò i segni della sua venuta Marco 13:3. La tradizione ecclesiastica parla in modo assai incerto della Scizia, dell'Acaia, e dell'Asia Minore, come teatri delle sue fatiche apostoliche. Egli e Simone suo fratello appartenevano a Betsaida (Vedi note Matteo 11:21), ma avevano casa a Capernaum, e probabilmente vi dimoravano, quando Gesù li chiamò a seguirlo definitivamente (Vedi nota Marco 1:19).
41
41. Costui trovò il primo il suo fratello (il proprio fratello), Simone,
Il senso della parola protos, il primo in questo versetto è stato origine di molte difficoltà. Gli antichi scrittori, e alcuni fra i moderni, suppongono che Andrea e Giovanni accommiatatisi da Gesù, andarono in cerca di Simone insieme o separatamente e che Andrea fu il primo a trovare colui che cercava. Si obietta che, in quel caso, l'aggettivo, il proprio fratello sarebbe una perifrasi inutile del pronome possessivo suo. Per spiegare il protos e l'idion, alcuni scrittori più recenti han messo avanti e sostenuto l'idea che ciascuno dei due discepoli andò in cerca del proprio fratello Andrea in cerca di Simone, Giovanni in cerca di Giacomo, che entrambi riuscirono a condurli dal Signore, ma che Andrea il primo, in quanto al tempo. Questo ci sembra un grosso edilizio posato su ben tenue fondamento, poiché, in tutto questo versetto, non c'è che quella parola il primo che possa addursi in appoggio di tale idea, mentre al ver. 42 leggiamo che Pietro solo fu condotto a Gesù, il che ci pare contrario a tale interpretazione. Notiamo che il nome di Giacomo non si trova mai in questo Vangelo! Vi è un altro senso che spiega sufficientemente protos, ed è che Andrea è qui ricordato fra i discepoli come il primo il quale, dopo aver personalmente trovato il Signore, lo annunziò ad altri come essendo il Messia, e la sua prima conquista fu suo fratello Simone, il quale ebbe dipoi, nella Chiesa cristiana, una parte assai più importante della sua. Se si adotta questa interpretazione, nel condurre le anime a Cristo, Andrea avrebbe preceduto Pietro! Ma Lachinann, Tregelles, Brown ed altri considerano che la lezione più autorevole qui è proton, neutro, usato avverbialmente e significante il primo in quanto a tempo, cioè: "la prima cosa" che Andrea fece ecc. Questa spiegazione ci sembra preferibile. Lo zelo per la diffusione della buona novella della salute, e l'amore per le anime, sentimenti che si svegliano in coloro che hanno trovato in Gesù la loro vita e la loro felicità, risplendono in questo versetto ed in Giovanni 1:45. Andrea, avendo conosciuto Gesù, non si dà requie che non l'abbia annunziato a Pietro, e Filippo non è contento che dopo aver partecipato la lieta notizia a Natanaele. Questo è naturale in chiunque ha realmente scoperto Cristo. Il primo impulso è di correre in cerca dei nostri parenti ed amici e di dir loro: "Abbiam trovato il Messia".
e gli disse: Noi abbiamo trovato il Messia, (il che, interpretato, vuol dire: il Cristo)
Il plurale non indica necessariamente che Giovanni fosse presente, quando Andrea trovò suo fratello Simone, ma solo che entrambi erano convinti che in colui, col quale avevano lungamente parlato, si doveva riconoscere l'aspettato Messia. Questo titolo si trova un'altra sola volta in questo Vangelo, sulle labbra cioè della donna di Samaria Giovanni 4:25. I due termini Messia e Cristo significano Unto; ma siccome i profeti, i sacerdoti, e i re erano tutti consacrati al loro uffizio mediante l'unzione, l'articolo il è qui enfatico, e significa che Gesù era l'UNTO per eccellenza, Colui che "Iddio, l'Iddio suo ha unto d'olio di letizia sopra i suoi conservi" Salmi 45:8. La preparazione dei loro cuori, sotto il ministero di Giovanni Battista, li condusse rapidamente a questa benedetta convinzione mentre altri rimasero titubanti, finche il dubbio non divenne indurimento. La conversazione del Salvatore non solo li aveva convinti che egli era veramente il Messia, ma aveva pure cambiato il loro cuore, come si poté vedere dalla susseguente loro vita.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:36-37,45; 4:28-29; 2Re 7:9; Isaia 2:3-5; Luca 2:17,38; Atti 13:32-33
1Giovanni 1:3
Giovanni 1:25; Daniele 9:25-26
Salmi 2:2; 45:7; 89:20; Isaia 11:2; 61:1; Luca 4:18-21; Atti 4:27; 10:38
Ebrei 1:8-9
42 42. E lo menò da Gesù
E quasi certo che Pietro pure era stato discepolo di Giovanni, e aveva diviso le speranze e i desideri di suo fratello, intorno al Messia; ma per giudicare da se stesso delle prove che avevano convinto Andrea, egli volentieri acconsente ad andare da Gesù.
E Gesù, riguardatolo in faccia,
indica uno sguardo che penetrava fino al cuore, che leggeva il carattere di Pietro e che lo doveva preparare alle parole che seguirono.
disse: Tu sei Simone, figliuol di Giona;
Benché il Signore non avesse mai veduto quell'uomo fino a quell'istante, non è assolutamente necessario considerare come un miracolo il fatto che egli ne proclama il nome e quello del padre, perché è possibile che Andrea gli avesse detto nella sua prima visita di chi era figlio, e ora gli abbia presentato Simone per nome, come suo fratello; tuttavia, confrontando questo incidente colla prova che Gesù dà più sotto a Natanaele della sua conoscenza Giovanni 1:48, dobbiamo considerarlo dallo stesso punto di vista. Così la pensano Bengel, Stier, Luthardt, Alford, e molti altri. Si suppone che Giona sia una contrazione di Ioannes, (Giovanni), e i revisori del Nuovo Testamento inglese hanno sostituito questo nome così in questo punto, come in Giovanni 21:15; ma Matteo 16:17, dà il nome di Giona esattamente come lo dà Giovanni, e se non lo si trova altrove nel Nuovo Testamento, occorre assai di frequente negli scritti talmudici.
tu sarai chiamato Cefa (che vuol dire Pietra)
Cefa è parola aramaica che significa pietra. Fuorché in questo passo, i Vangeli non danno mai questo nome a Pietro. Paolo glielo dà una volta in Galati 2:9, chiamandolo, insieme a Giovanni, colonna della Chiesa, e quattro volte nella 1Corinzi 1:12; 3:22; 9:5; 15:5, il che ha fatto credere, a torto, che Pietro non fosse noto in Corinto che sotto il nome di Cefa! Perché diede il Signore tal nome a Pietro nel loro primo incontro? Prima di tutto per indicare il cambiamento che la grazia opererebbe in lui. Di natura impulsivo, instabile, mutevole, doveva divenire infine una pietra solida nella Chiesa di Cristo, e dimostrare col martirio la fermezza della sua adesione al Signore. In secondo luogo, per annunziare quel che Pietro diverrebbe al servizio del Vangelo e qual parte avrebbe nell'edificare la Chiesa primitiva. Il suo doveva essere un primato di opera, non di rango. La sua confessione di Cristo è la verità fondamentale sulla quale doveva edificarsi la Chiesa (Vedi note Matteo 10:2; Matteo 16:18).
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:47-48; 2:24-25; 6:70-71; 13:18
Giovanni 21:15-17
Matteo 16:17
1Corinzi 1:12; 3:22; 9:5; 15:5; Galati 2:9
Giovanni 1:2; Matteo 10:2; 16:18; Marco 3:16; Luca 5:8; 6:14
43
43. Il giorno seguente (il quarto giorno, vedi Giovanni 1:19, 29, 35), Gesù volle andare in Galilea
forse a casa in Nazaret per chiudervi la sua vita privata e aspettare la prossima pasqua, in cui doveva inaugurare il suo pubblico ministero in Gerusalemme; benché sappiamo Matteo 4:13; Giovanni 2:12 che nel frattempo egli trasferì il suo domicilio in Capernaum. Le parole volle andare significano che Gesù era sul punto di partire, ma ancora non si era messo per via quando
trovò Filippo, e gli disse: Seguitami
Filippo era forse egli pure discepolo del Battista, e chi sa che non parlasse appunto con Andrea e con Pietro del trovato Messia, allorquando Gesù uscì di casa per mettersi in viaggio? E, se così non fosse, non ci resta che da ammettere che Gesù lo abbia chiamato a sé, in qualche luogo, lungo la strada di Galilea. I tre primi discepoli avevano cercato Gesù; qui per la prima volta troviamo Gesù che chiama un discepolo: "Gesù trovò Filippo". "Seguitami", s'intende primieramente del viaggio, e va senza dubbio congiunto alle parole che precedono: "Gesù volle andare, in Galilea"; ma racchiude pare l'atto interno e spirituale con cui uno segue il Signore per tutta la vita, per effetto della chiamata efficace di Cristo. La voce vivificante di un potente Salvatore subito fece di Filippo un discepolo, e lo aggiunse a quelli già mentovati nei versetti precedenti. La vocazione all'apostolato venne più tardi. Di Filippo, però, i Sinottici ricordano solo il nome fra quelli dei dodici; Giovanni però ci svela alcuni particolari del suo carattere Giovanni 1:45; 6:5; 12:21-22; 14:8. La tradizione è, sul conto suo, confusa, contraddittoria, e immeritevole affatto di fiducia. Clemente di Alessandria, Eusebio ed altri padri lo hanno confuso con Filippo l'Evangelista, e come teatro del suo apostolato si nomina ora la Tracia, ora la Frigia, ora la Scizia.
PASSI PARALLELI
Isaia 65:1; Matteo 4:18-21; 9:9; Luca 19:10; Filippesi 3:12; 1Giovanni 4:19
44 44. Or Filippo era da Betsaida, della città d'Andrea e dì Pietro
(Per la posizione di Betsaida, Vedi nota Matteo 11:21). Tutti e tre vi erano nati, ma Pietro e Andrea si erano dipoi trasferiti a Capernaum Marco 1:29. L'apostolo mentova questo particolare per spiegare la loro intimità, e come Filippo fosse preparato a ricevere il Messia. Questi minuti particolari di persone e di località danno a questo Vangelo il colore e la vividezza che solo un testimone oculare può impartire ai fatti che egli racconta. Uno scrittore del secondo secolo non li avrebbe saputi, né si sarebbe dato pensiero di inventarli.
PASSI PARALLELI
Giovanni 12:21; 14:8-9; Matteo 10:3; Marco 3:18; Luca 6:14; Atti 1:13
Matteo 11:21; Marco 6:45; 8:22; Luca 9:10; 10:13
45
45. Filippo trovò Natanaele, e gli disse:
Si crede generalmente che questo Natanaele sia la stessa persona che l'apostolo Bartolomeo:
1) Perché, qui e in Giovanni 21:2, egli è messo assieme a quelli che erano evidentemente chiamati all'apostolato.
2) Perché il nome di Natanaele non si trova mai nei Sinottici, né quello di Bartolomeo in Giovanni; ma ammettendo che si possa sostituire uno di questi nomi all'altro, le liste concordano.
3) Perché Bartolomeo, benché non sia che un nome patronimico (figlio di Tolomeo), facilmente poteva essere sostituto dai suoi compagni al nome individuale, Natanaele.
4) Perché nelle liste dei Sinottici il nome di Bartolomeo sta sempre accoppiato a quello di Filippo, che è il primo del secondo gruppo di Apostoli (Vedi Nota Matteo 10:3).
Natanaele abitava in Cana di Galilea Giovanni 21:2, dove il Signore giunse il terzo giorno Giovanni 2:1, dopo esser partito da Betabara (Betania); ma non sappiamo se Filippo lo incontrasse in casa o per via verso il Giordano.
Noi abbiamo trovato colui, del quale Mosè nella legge, e i profeti hanno scritto; Gesù, figliuol di Giuseppe, che è da Nazaret
Il carattere lento, preciso, accurato di Filippo, che si dimostra nella sua domanda in Giovanni 14:8, si ritrova pure in questa sua comunicazione a Natanaele. Andrea annunzia in modo breve, incisivo e trionfante: "Abbiamo trovato il Messia" Giovanni 1:41; Filippo invece fortifica quanto sta per rivelare, riferendosi alla legge e ai profeti che trovato il loro compimento in Gesù, figliuol di Giuseppe, della vicina terra di Nazaret. Conversando per via coi discepoli che aveva pure allora chiamati a sé, Gesù aveva forse toccato quanto Mosè e i profeti avevano scritto del Messia, e ciò produsse nella mente di Filippo la convinzione che egli ora comunica al suo amico. L'uso del plurale noi col quale egli si unisce al piccolo gruppo dei discepoli, rende questa supposizione molto probabile. "Mosè nella legge (il Pentateuco), e i profeti", non vuol dir già che Mosè scrisse così nella legge come nei profeti, come potrebbero supporre dei lettori superficiali, bensì che Mosè, nella legge e i profeti nei loro scritti, testimoniarono indipendentemente, di quel Messia che Filippo e i suoi amici avevano trovato nella persona di Gesù. In Deuteronomio 18:15,18, nelle promesse fatte ad Abrahamo, e nei suoi tipi in genere, Mosè ha in vista il Messia, e questo vien confermato dalle parole del Signore ai Giudei. "Se voi credeste a Mosè credereste ancora a me, conciossiaché esso abbia scritto di me" Giovanni 5:46. Le riferenze riportate più sopra mostrano quanto fossero numerose nell'Antico Testamento le profezie messianiche, e Pietro le riassume così. "Testimoniavano innanzi le sofferenze che avverrebbero a Cristo, e le glorie che poi appresso seguirebbero" 1Pietro 1:11; Vedi pure Luca 24:27. "È interessante notare qui, e nel caso di Andrea, la conoscenza familiare delle Scritture posseduta da quei poveri pescatori della Galilea. Capivano perfettamente che Mosè e i profeti annunziavano un Redentore" (Ryle). Le parole: "Gesù, figliuol di Giuseppe che è di Nazaret", non sono del nostro Evangelista bensì di Filippo, il quale diede a Gesù il nome sotto il quale egli era comunemente conosciuto in tutta quella contrada, e che esprimeva pure forse quanto egli (Filippo), stesso conoscesse di Gesù, in quel momento. E ingiustificabile il procedere di Strauss, il quale le attribuisce a Giovanni, per trarne poi la conclusione che il nostro Evangelo ignora la nascita miracolosa del Redentore in Betleem, e le vere relazioni di Giuseppe e di Gesù. Abbiam qui piuttosto un esempio della accuratezza di Giovanni come storico, poiché, ci riferisce le parole di Filippo, tali e quali furono pronunziate, senza aggiungervi verbo di proprio, e senza cercar d'interpretarle con eventi posteriori, o mediante quanto sapeva egli medesimo Giovanni 7:42,52.
PASSI PARALLELI
Giovanni 21:2
Giovanni 5:45-46; Genesi 3:15; 22:18; 49:10; Deuteronomio 18:18-22
Luca 24:27,44
Isaia 4:2; 7:14; 9:6; 53:2; Michea 5:2; Zaccaria 6:12; 9:9
Luca 24:27
Giovanni 18:5,7; 19:19; Matteo 2:23; 21:11; Marco 14:67; Luca 2:4; Atti 2:22; 3:6; 10:3
Atti 22:8; 26:9
Matteo 13:55; Marco 6:3; Luca 4:22
46 46. E Natanaele gli disse: Può egli esservi bene alcuno da Nazaret?
Questa domanda di Natanaele ha fatto credere a molti che gli abitanti di Nazaret fossero meno religiosi, o anche più immorali degli altri Galilei. Può esser vero; però le sue parole non giustificano una accusa così generale, e il Nuovo Testamento non contiene nulla che la giustifichi, all'infuori del fatto che essi non vollero ricevere come Messia il loro concittadino Gesù. Nazaret era una piccola ed insignificante città posta in mezzo alle colline della Galilea, laddove esse si abbassano assai rapidamente nella pianura di Esdraelon. Non ne parla l'Antico Testamento; non la ricorda neppure Flavio, cosa notevole se aveva una così cattiva fama, poiché egli fortificò il Monte Tabor sei miglia distante, e guerreggiò contro ai Romani in tutta quella regione. Il fatto sta', che i Giudei del mezzodì sprezzavano i loro concittadini Galilei, a motivo della loro ignoranza, del rozzo loro dialetto, e dei loro più frequenti contatti coi Gentili. Da ciò l'espressione proverbiale: "Profeta alcuno non sorse mai di Galilea" Giovanni 7:52. I Galilei erano per i Giudei, quello che i Beoti erano per gli Ateniesi. Se Natanaele avesse voluto dare ad intendere che i costumi di Nazaret erano più corrotti di quelli di altre città e paesi della Palestina, si potrebbe vedere nelle sue parole l'effetto dei pregiudizi e delle gelosie che talvolta esistono fra paesi vicini; ma il vero senso ne è semplicemente la meraviglia che da una borgata così povera ed insignificante come Nazaret, che non era neppur nominata nelle profezie messianiche, potesse sorgere quella grande salvazione per Israele.
Filippo gli disse: Vieni, e vedi
Questa è la cura radicale per i pregiudizi e la incredulità. Di più, queste parole esprimono la piena certezza di fede di Filippo. Egli aveva visto ed era rimasto convinto; così pur certamente accadrebbe al suo amico. Adam, vecchio teologo inglese, deriva da questo passo l'insegnamento seguente: "Le discussioni non producono granché di buono. L'orgoglio vi è una parte maggiore di quella della carità o dell'amor del vero. La moderazione e il candore ne scompaiono presto, e ciò produce cattivissimi effetti. Val meglio una parola detta a tempo opportuno, e lasciata con pazienza finché la pioggia del cielo non l'abbia fertilizzata".
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:41-42,52; Luca 4:28-29
Giovanni 4:29; Luca 12:57; 1Tessalonicesi 5:21
47 47. Gesù vide venire Natanaele a sé, e disse di lui: Ecco veramente un israelita, nel quale non vi è frode alcuna
Il Signore rivolse queste parole agli altri discepoli, quando Natanaele era già abbastanza vicino per ridirle, e l'Evangelista ce le dà come l'espressione di quanto Gesù aveva letto nel carattere di lui. Così pare si spiegano le parole: "Tu sarai chiamato Cefa" dette nel caso di Pietro. Le parole: "vide venire", suppongono che Natanaele era ad una certa distanza, sicché non ha fondamento la supposizione che Cristo parlò così per aver udito le parole di Natanaele relativamente a Nazaret. Il senso di queste parole di Cristo ci vien dato alla separazione, già indicata nell'Antico Testamento, e più chiara ancora nel Nuovo, fra quelli che erano Israeliti solo secondo la carne, e i veri Israeliti secondo la elezione divina, cui venivano confermate le benedizioni del patto stretto da Dio coi loro antenati (Confr. Salmo 73:1; Isaia 1:4; 56:4-5; Romani 2:28-29; 1Corinzi 6:16; Galati 6:16). Natanaele era un uomo pio; come Anna e Simeone, egli l'aspettava la consolazione d'Israele; come Zaccaria ed Elisabetta, era "giusto nel cospetto di Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore senza biasimo". Le parole: "nel quale non vi è frode alcuna", non significano già che egli fosse assolutamente senza peccato, bensì semplicemente che non era ipocrita, ma di mente e cuore retti e semplici, pronto a ricevere insegnamento e ad accettare la verità, se gli veniva chiaramente rivelata. Un tal carattere era ben diverso da quello dei rettori dei Giudei, i quali, per interesse e pregiudizio, ricusavano di credere in Gesù, benché fossero convinti che egli era il Messia.
PASSI PARALLELI
Giovanni 8:31,39; Romani 2:28-29; 9:6; Filippesi 3:3
Salmi 32:2; 73:1; 1Pietro 2:1,22; Apocalisse 14:5
48 48. Natanaele gli disse: Onde mi conosci?
Questa domanda conferma la franchezza del carattere attribuitogli da Gesù. Udendosi lodare da uno straniero, non rifiuta ipocritamente quella lode, né l'accetta con orgoglio, ma desidera sapere come uno sconosciuto avesse potuto acquistare tal conoscenza del suo carattere.
Gesù rispose, e gli disse: Avanti che Filippo ti chiamasse, quando tu eri sotto il fico
Da questa risposta risulta chiaramente che non solo Gesù sapeva quanto era passato fra Filippo e Natanaele, ma pure quali pensieri occupavano Natanaele sotto il fico. Né Gesù, né gli Evangelisti ci dicono che cosa facesse Natanaele sotto l'albero; ma siccome i Giudei usavano ricercare la solitudine sotto l'ombra di qualche albero remoto, per pregare e meditare, è probabile che egli si fosse ritirato nel suo giardino o in qualche vicino vigneto, a quel medesimo scopo. Se ricordiamo quale impressione l'annunzio fatto dal Battista della imminenza della venuta del Messia aveva prodotto in tutto il popolo, è lecito pensare che Natanaele volgesse questo soggetto nella sua mente e che egli agognasse per se medesimo l'adempimento delle parole profetiche: "la luce si leva nelle tenebre a quelli che sono diritti" Salmi 112:4.
io ti vedevo,
non coll'occhio del corpo, perché il semplice fatto che qualcuno lo aveva visto, mentre si credeva solo" non poteva produrre la profonda impressione espressa nelle parole di Giovanni 1:49. Si fu la certezza che l'occhio onniveggente di Dio aveva penetrato i suoi più intimi pensieri, e le intenzioni del suo cuore Salmi 139:1-3, che lo condusse a darsi con intera ubbidienza a Cristo.
PASSI PARALLELI
Giovanni 2:25; Genesi 32:24-30; Salmi 139:1-2; Isaia 65:24; Matteo 6:6; 1Corinzi 4:5; 14:25
Apocalisse 2:18-19
49 49. Natanaele rispose, e gli disse: Maestro, tu sei il Figliuol di Dio; tu sei il Re d'Israele
L'effetto prodotto sulla donna di Samaria dalle parole colle quali Gesù le svelava la sua vita passata e presente, fu quello pure che Natanaele sentì, allorquando il Signore gli rivelò la sua onniscienza. Essa chiamò i Samaritani: "Venite, vedete un uomo che mi ha detto tutto ciò che io ho fatto, non è costui il Cristo?" Egli espresse la sua profonda emozione colle parole: "Rabbi, tu sei il Figliuol di Dio; tu sei il re d'Israele". Il primo di questi nomi indica la dignità personale del Messia, l'altro la sua dignità officiale il "Figlio di Davide" era il nome dato comunemente al Messia; ma già il Battista avealo chiamato: "Figliuolo di Dio", e così pure lo chiama Natanaele, dopo che la sua mente fu Illuminata dallo Spirito Santo. Il secondo di questi titoli era dato comunemente esso pare al Messia. Egli era il Re che doveva sedere "sopra il trono di Davide, e sopra il suo regno; per istabilirlo, e poi fermarlo in giudizio e in giustizia, da ora fino in eterno", in Isaia 9:6. Questi due titoli si completano a vicenda, il secondo essendo la conseguenza del primo. Li troviamo l'uno accanto all'altro in Salmi 2:6-7, da dove traggono la loro origine. L'evangelista adduce questo fatto accaduto a Natanaele, come un'altra prova che Gesù era il Figliuolo di Dio. Il grande suo scopo nello scrivere questo Vangelo era di mostrare come andasse ognora crescendo la fede nel Figliuol di Dio, e ciò egli fa raccogliendo tutte le prove che Gesù era riconosciuto come tale Giovanni 20:31; e invero il veder Gesù che legge nei cuori, e in questo modo convince un pio Israelita, è a suo favore una testimonianza importante.
PASSI PARALLELI
Giovanni 1:38
Giovanni 1:18,34; 20:28-29; Matteo 14:33
Giovanni 12:13-15; 18:37; 19:19-22; Salmi 2:6; 110:1; Isaia 9:7; Geremia 23:5-6
Ezechiele 37:21-25; Daniele 9:25; Osea 3:5; Michea 5:2; Sofonia 3:15; Zaccaria 6:12-13; 9:9
Matteo 2:2; 21:5; 27:11,42; Luca 19:38
50 50. Gesù rispose, e gli disse: Perciocché io ti ho detto che io ti vedeva sotto il fico, tu credi; tu vedrai cose maggiori di queste
Tu credi può essere una domanda o una affermazione; il primo senso è probabilmente preferibile in questo caso. Queste parole non implicano biasimo; anzi contengono piuttosto una lode per la semplice ed onesta confessione fatta da Natanaele del suo convincimento, mentre che erano destinate principalmente ad accertarlo che se egli aveva creduto in seguito a questa piccola prova della sua onniscienza, la sua fede crescerebbe in forza di prove ben maggiori. "Sei così presto convinto Natanaele, e per questa sola prova! È una espressione di ammirazione. Gesù vide nella prontezza e nell'entusiasmo di questo Israelita "senza frode", una nobile capacità per le cose spirituali, per la quale, egli lo assicura, che non mancherebbe quanto la poteva soddisfare" (Brown).
PASSI PARALLELI
Giovanni 20:29; Luca 1:45; 7:9
Giovanni 11:40; Matteo 13:12; 25:29
51 51. Poi gli disse: In verità, in verità, Io vi dico, che da ora innanzi voi vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio saglienti, e discendenti sopra il Figliuol dell'uomo
L'attestazione "in verità" che non si trova meno di cinquanta volte nei Sinottici, è sempre raddoppiata in questo Vangelo, quando è usata da Cristo. Ce la troviamo venticinque volte, e sempre introduce qualche verità di speciale importanza, affermandone solennemente la certezza. Giovanni solo ci offre questa reduplicazione, e qui la troviamo per la prima volta. Nello stile allegorico dell'Apocalisse essa diviene un nome proprio di Gesù Giovanni 3:14. "L'Amen, il fedel testimonio e verace". Le parole che seguono, benché rivolte a Natanaele ("tu vedrai"), erano pure intese per gli altri discepoli presenti, come lo prova il cambiamento dal singolare al plurale: gli disse, io vi dico, "Da ora innanzi", benché mancante in tre MSS. antichi, è abbondantemente stabilito da altri, e segnatamente dal Codice Sinaitico. Rigettiamo il senso dato alle parole che seguono dagli scrittori della scuola premillenaria, i quali le riferiscono letteralmente al ritorno del Signore in gloria sia perché quella spiegazione limita troppo le promesse benedizioni, sia perché non va d'accordo colle stesse loro teorie, secondo le quali, a quel tempo, "la santa città, la nuova Gerusalemme" già dovrebbe esser scesa dal cielo d'appresso a Dio, "per essere il tabernacolo di Dio con gli uomini", ove "egli abiterà con loro" Apocalisse 21:2-3; e perciò l'idea di una scala per cui scendono gli angeli è fuor di proposito ed assurda per sostenere quella loro teoria citano Matteo 26:64, dove essi asseriscono che può applicarsi solo alla fine del mondo; ma benché quello sia senza dubbio il senso finale del Signore in quel versetto, il Sinedrio poté vedere, non molti anni dopo, le parole di Gesù tremendamente verificate nella distruzione di Gerusalemme. Benché sia assurdo supporre, come fanno alcuni, che il nostro Signore fosse passato da Betel, che si trovava una buona giornata di cammino fuori della sua via, e ne avesse preso questa illustrazione (quasiché non potesse avere un'idea in proprio senza qualche oggetto terreno per suggerirgliela), non v'ha dubbio che in questo versetto il Signore fa allusione al sogno di Giacobbe, e se ne vale per illustrare la grande verità, che da ora in poi saranno ristabilite le buone relazioni fra l'uomo e Dio. La scala di Giacobbe era un tipo di Cristo poiché egli è "la via recente e vivente, la quale egli ci ha dedicata, per la cortina, cioè per la sua carne" Ebrei 10:20. Prima della incarnazione, l'uomo vedeva "per ispecchio, in enigma", e non immaginava altro accesso a Dio se non mediante i sacrifici tipici; ma da ora in poi, (dal giorno cioè in cui cominciò il pubblico ministero Cristo), cominciano giorni migliori per il popolo di Dio, essendo Gesù il mediatore fra il Creatore e la creatura, "la via, la verità e la vita" Giovanni 14:6. Varie spiegazioni sono state date di queste parole:
1. Che gli angeli hanno, alla lettera, servito a Gesù;
2. Che essi rappresentano i miracoli di Cristo;
3. Che essi rappresentano il potere personale e l'attività dello Spirito;
4. Che sono gli strumenti della Provvidenza per la protezione della Chiesa ecc.
Alcune di queste idee riposano sull'idea sbagliata che le parole sopra il Figliuol dell'Uomo rappresentino il Signore come l'oggetto di queste visitazioni angeliche; mentre che, come la scala nel sogno di Giacobbe, egli ne è il mezzo; egli è sopra lui, ossia per mezzo di lui come scala, che dal cielo scendono in terra le grazie di Dio. Egli è il solo Mediatore fra Dio e l'uomo; il cielo ci è ora aperto, e le nostre preghiere e le nostre lodi trovano accesso alla presenza di Dio, al di là del velo, unicamente per il merito della sua espiazione e per la sua intercessione. Per lo stesso canale, le benedizioni celesti, e fra le altre anche le ministrazioni degli angeli Ebrei 1:14 vengono accordate ai figli degli uomini. Con Milligan, prendiamo quelle parole conte "una semplice e simbolica rappresentazione del fatto che, mediante la incarnazione e le sofferenze di Gesù, il cielo è aperto, ed entra in intima e costante comunicazione colla terra". "Il Figliuol dell'uomo" è un nome nuovo, scelto da Gesù stesso, e da lui quasi sempre usato dal principio alla fine del suo ministerio. Gesù si dà questo nome più di ottanta volte. Non gli vien però mai dato né dai discepoli, né da altri, e trovasi solo due volte nel Nuovo Testamento, all'infuori dei Vangeli Atti 7:56; Apocalisse 1:13. "Nessuno degli evangelisti fa notare questa stretta limitazione nell'uso di questo nome; il loro accordo su questo punto notevole non è certo premeditato, ed è perciò una forte prova della loro veracità" (Plummer). Molti commentatori suppongono che il Signore tolse questo nome dalla nota profezia Messianica Daniele 7:13, dove trovansi le parole "Simile ad un figliuol d'uomo ecc." tanto più che Gesù fa evidentemente allusione a quel passo nella sua dichiarazione al Sinedrio Matteo 26:64; ma lo scopo della profezia di Daniele sembra piuttosto di contrastare i regni prima descritti in quel capitolo, e che erano rappresentati da animali selvaggi, coll'aspetto umano di colui cui doveva esser dato il dominio universale negli ultimi giorni. Se Daniele avesse voluto rivelare il nome che il Messia sceglierebbe per sé stesso, non avrebbe omesso l'articolo definito, e avrebbe scritto: "Simile al figliuol dell'uomo". Di più, benché alcuni Scribi in conseguenza di questa profezia, parlino del Messia, come di "colui che viene colle nuvole", è provato che i Giudei in generale non confondevano i due nomi, come se fossero appartenenti alla medesima persona (Confr. Giovanni 5:27; 12:34; Matteo 16:13,15). "In tutto il Vangelo di Giovanni, Gesù evita con cura di chiamarsi il Messia, dinanzi al popolo, usando sempre qualche parafrasi in luogo di quello, perché conosceva il significato politico che si dava generalmente a quella parola e avea luogo di temere un malinteso fatale per l'opera" (Godet). Se dunque il titolo "Figliuol dell'uomo" fosse stato generalmente ricevuto come l'equivalente di "Messia", Gesù avrebbe danneggiato l'opera sua adottandolo per se stesso. Siamo perciò condotti ad abbandonare l'idea che quel nome derivi dalla profezia di Daniele. L'idea che questo nome esprime deve cercarsi piuttosto nella progenie della donna Genesi 3:15 e nel "figliuol dell'uomo" Salmo 8:4 ecc. Con esso il Messia si mette all'infuori dell'umanità comune, e si proclama non quale Messia dei Giudei, o quale ristoratore del regno di Davide, ma come il secondo Adamo, il rappresentante della intera razza umana, nella cui persona l'umanità è stata rialzata e redenta, come, nella persona del primo Adamo, era caduta in rovina. "La parola qui usata è non homo non vir. È l'uomo quale uomo, non il Giudeo come più santo del Greco, noti il franco come più nobile del servo, non l'uomo come distinto dalla donna; ma l'umanità in ogni tempo luogo e circostanza, nella sua debolezza come nella sua forza, nei suoi dolori e nelle sue gioie, in morte non meno che in vita" (Watkins).
PASSI PARALLELI
Giovanni 3:3,5; 5:19,24-25; 6:26,32,47,53; 8:34,51,58; 10:1,7; 12:24; 13:16
Giovanni 13:20-21,38; 14:12; 16:20,23; 21:18
Ezechiele 1:1; Matteo 3:16; Marco 1:10; Luca 3:21; Atti 7:56; 10:11; Apocalisse 4:1; 19:11
Genesi 28:12; Daniele 7:9-10; Matteo 4:11; Luca 2:9,13; 22:43; 24:4; Atti 1:10-11
2Tessalonicesi 1:7-9; 1Timoteo 3:16; Ebrei 1:14; Giuda 14
Giovanni 3:13-14; 5:27; 12:23-24; Daniele 7:13-14; Zaccaria 13:7; Matteo 9:6; 16:13-16
Matteo 16:27-28; 25:31; 26:24; Marco 14:62; Luca 22:69
RIFLESSIONI
1. Nessuno rese mai a Gesù testimonianza più completa di quella resagli da Giovanni Battista, in presenza dei suoi discepoli, e delle folle accorse a udirlo. Egli gli dà un nome speciale "L'Agnello di Dio", non solo per indicare che egli era dolce e mansueto come un agnello (questo sarebbe stato solo una piccolissima parte della verità riguardo a Cristo), ma ancora e soprattutto per farlo conoscere come il gran sacrifizio per il peccato; colui che era sceso dal cielo, affin di offrire la espiazione per la colpa, versando il proprio sangue. Egli era il vero Agnello di cui Abrahamo disse ad Isacco, in Moria, che Dio stesso lo provvederebbe; l'Agnello cui accennava il sacrifizio del mattino e della sera nel tempio; colui del quale l'agnello della Pasqua in Egitto era stato un tipo vivente. Ne descrive poi l'opera speciale: "Egli toglie il peccato dei mondo"; ne toglie il peso di sopra ai suoi, ne assume la colpa su di sé: ne porta l'ira e il castigo nella sua morte in croce. Questo egli fa non per i Giudei solamente, ma per i Gentili altresì; non per alcuni privilegiati, ma per chiunque, nel mondo intero, e nel corso dei secoli, sentirà il suo bisogno di salvezza. Finalmente descrive il suo ufficio speciale. "Egli battezza collo Spirito Santo". I ministri di Cristo sono autorizzati a battezzare con acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; ma questo è un battesimo che niun uomo può dare; che il Capo supremo della Chiesa ha riservato per se stesso. Esso consiste nell'impiantare la grazia nell'uomo interno; è identico colla nuova nascita. Ricordati, lettore, che chi muore senza che il cuor suo sia stato battezzato collo Spirito Santo non può essere salvato; prendi adunque guardia allo stato del tuo proprio cuore.
2. Troviamo nella condotta di Andrea e di Filippo un bell'esempio dell'effetto potente prodotto nel cuor dell'uomo dell'amore di Cristo. Avendo essi "trovato il Messia", per se medesimi, essendo da lui stati fatti nuove creature, così grande fu la loro gioia che non la poterono tener per sé soli, e si sentirono costretti di annunziarlo a tutti e specialmente ai loro cari. Lo stesso zelo per condurre altri a Cristo si troverà sempre, dal momento della nuova nascita, in chiunque è stato veramente convertito. Ma purtroppo le influenze del mondo scemano questo zelo. E un cattivo sintomo del nostro stato spirituale se il sapere quanto Cristo ha fatto per noi, non ci spinge a comunicare ad altri la gioia che noi stessi abbiamo provata. Non si deve lasciare ai soli ministri di rendere testimonianza all'evangelo. Quanto maggiore sarebbe il numero dei peccatori salvati, se ogni convertito, uomo o donna, parlasse ai suoi parenti ed amici dell'evangelo, facendo loro conoscere il bene che hanno trovato! Paolo rimprovera i Corinzi perché non aveano questo fervido amore alle anime, e non facevano conoscere abbastanza il vangelo che possedevano 1Corinzi 14:36. Egli è questo grande e nobile principio che anima tutte le Società Bibliche, e tutte le opere missionarie. Esse si propongono di combattere l'errore e la superstizione, di dissipare le nuvole di tenebre morali che coprono il mondo, e di farvi sorgere in tutta la sua gloria, il Sole di giustizia.
3. Se Cristo è Emanuele, Dio con noi possiamo comprendere che egli sia la scala mediatoria fra il cielo e la terra, poiché unisce la natura di entrambi nella propria persona gloriosa. Ma chi non ritiene Cristo Dio non può averlo neppure mediatore, e invero tutti quelli che mettono in questione la divinità di Cristo, non credono realmente all'opera sua redentrice. "Quali pensieri non ci suggerisce questa immagine della Scala? Non uno dei nostri sospiri segreti giunge all'orecchio del Signore degli eserciti, se non per questa scala, imperocché niuno viene al Padre se non per lui; nessun raggio di luce, nessun soffio d'amore irradia e consola un'anima tenebrosa ed afflitta, se non passa per quella scala, imperocché il Padre ama il Figliuolo e gli ha dato ogni cosa in mano; e se siamo benedetti di ogni benedizione spirituale lo siamo in Cristo. Ben possono gli angeli di Dio farsi i messaggieri alati di tali comunicazioni" (Brown).
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