L'Evangelo è "potenza di Dio a salvezza" in quanto assicura al credente il suo totale affrancamento dalla potenza del peccato e della morte
Romani 6-8
Nei cinque primi capitoli, Paolo ha mostrato come il Vangelo sia potenza di Dio a salvezza in quanto ci rivela come il peccatore può essere, per la fede in Cristo, liberato dall'ira e giustificato. Ma siccome la liberazione dalla colpa del peccato non è la salvazione completa, egli dimostrerà, in Romani 6-8, come il Vangelo sia «potenza di Dio a salvezza» in quanto esso assicura a chi crede in Cristo la completa vittoria sul peccato e la conformità col Cristo elevato nella gloria. La santificazione colla conseguente glorificazione (Vid. Godet), non è la causa efficiente del perdono e della giustificazione quasichè sia giustificato solo chi è diventato santo (dottrina romana); non è soltanto la condizione per conservare lo stato di giustificazione; nè solo una conseguenza prodotta nei giustificati dalla gratitudine per il perdono ricevuto. La trasformazione del credente all'immagine di Cristo è il compimento della salvazione di cui la giustificazione è il principio, il fondamento. Il mezzo di questa trasformazione è l'unione con Cristo creata dalla fede. Come dalla solidarietà col primo Adamo è derivata a noi, non solo colpa, ma infermità morale che si manifesta col predominio della carne sullo spirito, così dalla solidarietà del credente col secondo Adamo deriva non solo la giustificazione, ma una nuova potenza di vita spirituale che trionfa della debolezza della carne. Chi è in Cristo è non solo giustificato, ma è «nuova creatura» 2Corinzi 5:17, poichè Cristo non ci è fatto soltanto sapienza e giustizia, ma altresì santificazione e finale redenzione 1Corinzi 1:30. «Il contrasto in cui si muove qui il pensiero dell'apostolo non è più, come nella prima parte, quello della condannazione e della giustificazione ma quello del peccato e della santità. Non si tratta più di cancellare il peccato come fallo, ma di vincerlo come potenza o malattia».
Questa parte dell'Epistola può dividersi in tre paragrafi in cui sono svolti i seguenti pensieri: § 1 - L'entrata nello stato di grazia, per la fede in Cristo, segna la rottura decisiva col peccato ed il principio d'una vita nuova, Romani 6:1-14; § 2 - Lo stato di grazia nell'unione con Cristo assicura il servire a Dio con ubbidienza del cuore, in novità di spirito; mentre il cessato regime della legge era, impotente a dar la vittoria sul peccato, di cui anzi provocava la manifestazione Romani 6:15-7:25; § 3 - Lo stato di grazia in Cristo assicura al credente l'abitazione in lui dello Spirito che comunica la vita ed è arra della futura gioia dei figli di Dio Romani 8. O più brevemente: La trasformazione del credente all'immagine dell'Adamo celeste si effettua: nell'unione con Cristo - sotto la grazia anzichè sotto la legge - per lo Spirito.
§1 - L'entrata nello stato di grazia, per la fede in Cristo, segna la rottura decisiva col peccato ed il principio d'una vita nuova (Romani 6:1-14)
Che direm dunque dinanzi, al trionfo della grazia che sovrabbonda dove il peccato è abbondato? (Romani 5:20), che cancella le innumerevoli colpe ed accoglie in grazia i peccatori giustificandoli? Vogliamo noi rimanere (tasto emend.) nel peccato in cui siamo vissuti fino alla nostra conversione a Cristo, e ciò affinchè la grazia abbondi? affin di dare occasione alla grazia di spiegare vie maggior ricchezza? Con questa domanda l'Apostolo accenna all'obbiezione che veniva, e tuttavia viene mossa alla dottrina della giustificazione per fede. Il credente, dicevasi, può dunque peccare, liberamente: la grazia cancellerà tutto (cfr. Romani 3:8,31). L'abuso della libertà cristiana per parte di taluni pareva dar ragione alla grave accusa (cfr. Galati 5:13; 1Pietro 2:16; Giuda 4; Giacomo 2:14 e segg.). Paolo la respinge mostrando come la fede che unisce il credente a Cristo implichi un morire al peccato e un risuscitare a vita nuova.
2 Così non sia. Noi che morimmo al peccato, come viveremmo ancora in esso? Morire al peccato è un romperla con esso in modo decisivo (1Pietro 2:24; cfr. Galati 6:14). Chi e morto al peccato è, divenuto insensibile ai suoi allettamenti e non ha più nulla da porre al servizio del peccato. La morte ha rotto il legame che lo teneva avvinto ad esso, come uno schiavo al suo padrone. Questa morte si effettua in realtà gradatamente, poichè i cristiani sono esortati a «far morire gli atti del corpo» (Romani 8:13; cfr. Colossesi 3:5), a «spogliar l'uomo vecchio», ecc. Ma la fede in Cristo che li introduce nello stato di grazia, è il colpo di morte dato al peccato. «La sentenza di morte con cui Dio ha colpito in Cristo il peccato del mondo, si ripercuote, a dir così, nella nostra coscienza come la sentenza di morte del nostro proprio peccato. Ci sentiamo costretti a romperla col peccato per il quale Cristo ha subito quella morte» (Godet). Il continuare a vivere nel peccato come nel proprio elemento, è quindi una impossibilità morale per chi è unito a Cristo il fatto concreto, visibile, decisivo, cui si riferisce il passato morimmo, è il battesimo che segnava, nella storia dei credenti dei primi tempi, il principio della carriera cristiana. Era stato infatti il momento della professione pubblica della lor fede in Cristo e della loro appartenenza ad esso. Tale atto esterno, per molti di essi, avea seguito immediatamente la nascita della fede. Esempi i tremila della Pentecoste Atti 2, Cornelio, il carceriere di Filippi. Era stato per lo più accompagnato dall'effusione dello Spirito, che avea lor fatto provare impressioni tali da non dimenticarsi. Talvolta il battesimo era stato anche il principio delle sofferenze per Cristo. Non potea riuscire cosa nuova ai lettori quanto dice loro l'Apostolo, a meno che ignorassero il valore morale del loro battesimo.
3 O ignorate voi che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? La formula completa del battesimo trovasi in Matteo 28:19; ma per lo più, vi si accenna in modo più breve, come: «esser battezzato nel nome di Cristo» Galati 3:27, «nel nome di Gesù» o «del Signor Gesù» (Atti 2:38; 8:16; 10:48; 19:5; cfr. 1Corinzi 1:13-15; 10:2). Il senso della formula è: in vista di..., per appartenere a Cristo, per essere incorporati nel Redentore in cui abbiam creduto. Il battesimo è il suggello della solidarietà con Cristo creata dalla fede, della unione intima con lui; perciò quel che Cristo fece per noi qual secondo Adamo deve ritenersi come fatto da noi. Nella sua morte morimmo, nella sua risurrezione risuscitammo. Esser battezzato in Cristo è un esser battezzato nella sua morte e nella sua risurrezione 2Corinzi 5:15. Non già che questi fatti spirituali si verifichino al momento e per virtù del battesimo, il che contraddice ai fatti narrati nel Nuovo Testamento; ma il battesimo è l'esterno segno ed il suggello di quanto internamente ha operato la fede in Cristo. (cfr. Galati 3:27; Colossesi 2:10-13). «Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo...». «. In lui siete anche stati circoncisi d'una circoncisione non fatta da mano d'uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne...».
4 E poichè la forma ordinaria, per quanto non necessaria, del battesimo, nella primitiva chiesa, era la immersione del battezzando nell'acqua, Paolo, scorgendo probabilmente in questo un'analogia col seppellimento che segue e suggella la morte, aggiunge: Siamo dunque stati con lui seppelliti, mediante il battesimo nella morte. Per il lato negativo del valore suo, il battesimo cristiano è un battesimo nella; morte al peccato, un rinunziamento ad esso. Chi è battezzato in Cristo, scende con lui nel sepolcro. Se si legge: «seppelliti nella morte», non varia gran fatto il senso. Ma, come Cristo non scese nel sepolcro per rimanervi e risorse al terzo dì, così i credenti, riproducendo nella loro esperienza morale i fatti della vita di Cristo, sono stati sepolti per risorgere a vita nuova, affinchè come Cristo risorse dai morti mediante la gloria del Padre, cioè lo splendore della potenza divina Romani 1:4; 1Corinzi 6:14; Efesini 1:20; Colossesi 1:20; 2Corinzi 13:4, così anche noi camminassimo in novità di vita. Il «camminare» è l'immagine della condotta, della vita pratica attiva. L'analogia tra la forma del battesimo per immersione col morire e risorgere spirituale mediante la fede, si ritrova in Colossesi 2:12: «...essendo stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede...». Il «rivestirsi di Cristo» di Galati 3:27 offre analogia piuttosto colla forma dell'aspersione più o meno abbondante. Ad ogni modo, la forma è cosa, secondaria e l'acqua del battesimo ha sempre il significato primo ed essenziale del lavare, del purificare dalle sozzure (cfr. Marco 7:4: i letti; Atti 22:16; 1Corinzi 10:1-2; 1Pietro 3:21; Tito 3:5; Efesini 5:26; ed anche Giovanni 3:5). Il morire al peccato ed il vivere a giustizia sono i due aspetti, negativo, e positivo, di uno stesso fenomeno spirituale che si verifica all'atto della fede. L'esperienza personale di Paolo illustra l'immagine qui adoperata per descrivere il mutamento interno prodotto dalla fede. Nel breve giro di tre giorni, a Damasco, morì Saulo e rivisse Paolo. Il nostro battesimo, pel valore suo spirituale, è stato una, sepoltura ed una risurrezione a vita nuova. Le due cose, infatti, non si possono disgiungere nell'esperienza del credente, più che, non siano state disgiunte in quella del secondo Adamo. Uniti con lui nella morte, non possiamo non essere uniti con lui nella risurrezione.
5 Poichè, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua... L'immagine qui adoperata (συμφυτοι) non è quella dell'innesto, bensì quella del crescere insieme di due piante che finiscono col fondersi e col formare un solo arganismo (cfr. Luca 8:7: le spine nate e cresciute insieme). Se siamo stati uniti con lui di una unione vitale, fatti una stessa cosa con lui col morire di una morte morale simile a quella fisica di Cristo, lo saremo anche per una risurrezione simile alla sua. Questa conformità principia quaggiù, ma non avrà il suo pieno effetto se non nel mondo avvenire Romani 8:29.
6 Romani 6:6-7 spiegano più ampiamente cosa sia l'esser battezzato nella morte di Cristo, sepolto con lui. Romani 6:8-10 spiegheranno più ampiamente cosa sia l'esser uno con lui per somiglianza colla sua risurrezione. Se riflettono, i lettori si devono rendere più esattamente conto della, radicale trasformazione implicata, o racchiusa in germe, nella lor fede in Cristo. Molte cose sono ammesse, infatti, e credute dai cristiani, alle quali non hanno però mai riflettuto. Sono conoscenze ingoiate, ma non digerite nè trasformate in forza vitale e pratica. Sapendo questo, rendendoci conto di questo, che il nostro vecchio uomo è stato con lui crocifisso, L'espressione «vecchio uomo» è adoperata anche in Efesini 4:22-24, ove i cristiani sono esortati a spogliarsi «dell'uomo vecchio» e a «rivestire l'uomo nuovo creato all'immagine di Dio nella giustizia e nella santità» (cfr. Colossesi 3:9-10). «Il vecchio uomo è l'io peccaminoso, l'io carnale di Romani 7:14. È vecchio dal punto di vista della nuova nascita Giovanni 3:3; Tito 3:15; è l'uomo antico, precedente, cui viene opposto il nuovo, o recente 2Corinzi 5:17, la nuova creatura. Si tratta dunque di una personificazione del primiero carattere peccaminoso, della tendenza che prima dominava tutta quanta la vita» (Philippi). Questo vecchio uomo morì sulla croce ove fu crocifisso il Cristo con cui siamo entrati in intima unione. La morte di Cristo è la morte del peccatore, qual peccatore. affinchè fosse annullato il corpo del peccato, Quest'ultima espressione viene intesa dagli uni in senso figurato, ed indicherebbe il peccato nella sua unità, la massa del peccato considerata come organismo. Altri l'intende in senso proprio e significa, allora, il corpo che apparteneva al peccato, che serviva di strumento all'uomo vecchio. Questo non implica che il male abbia la sua sorgente nel corpo, ma esso è l'organo dell'io corrotto e come tale ha da essere abolito. Lo è in senso morale, quando nella santificazione viene gradualmente sottratto all'antico padrone e posto al servizio, di Dio (cfr. Romani 6:12-13,19; 8:13,23; Colossesi 2:11; 3:5; 1Corinzi 6); e lo sarà in modo più completo, nel disfacimento cui dovrà sottostare nella morte fisica, perchè non adatto ad esser organo della vita superiore Romani 8:10; 1Corinzi 15. La morte del vecchio uomo, l'abolizione del corpo del peccato suo strumento, ha per risultato pratica di sottrarre l'attività umana alla schiavitù del male: onde noi non serviamo più al peccato, nostro antico padrone Giovanni 8:34; 2 Pietro 2:19.
7 Infatti chi è morto è affrancato dal peccato. lett. «è giustificato dal peccato», cioè è legittimamente dichiarato libero dalla signorina del peccato, da esso emancipato. La morte tronca i legami terrestri; quindi se il peccato è stato il padrone del corpo quando questo era vivo, ora che per l'unione con Cristo, è avvenuta la morte dell'uomo vecchio, il peccato ha perduto ogni diritto di dominazione sul suo schiavo d'una volta. Uno schiavo morto non serve più. Però uno stato morale negativo, di astensione dal peccato, ma privo di santa attività positiva, sarebbe psicologicamente impossibile e mal risponderebbe al fine della creazione e della salvazione. L'unione con Cristo è una morte, ma solo per l'uomo vecchio, non per la personalità umana in sè. Ci toglie alla illegittima tirannia del peccato, ma per restituirci al legittimo e filiale servizio di Dio. Questo il lato positivo della rivoluzione morale determinata dall'unione con Cristo, e che riproduce nel credente la «potenza della risurrezione di Cristo» Filippesi 3:10-11.
8 Ora, se siamo morti con Cristo, noi crediamo che altresì vivremo con lui, La partecipazione alla vita di Cristo risuscitato è oggetto di fede in quanto si realizza solo in parte nella esperienza terrestre del credente, mentre la vita in Cristo, nella sua pienezza, non sarà posseduta se non nell'eternità avvenire. Il camminar quaggiù in novità di vita è il necessario avviamento alla perfezione dello stato di gloria. Vera vita è per Paolo, vita eterna.
9 Su che si fonda la nostra fede nella partecipazione alla vita di Cristo? Sul fatto stesso che Cristo, il nostro capo, dopo esser morto, vive di vita imperitura. Viveremo, poichè come ben sappiamo, egli vive Giovanni 14:19. Non è risuscitato, come Lazzaro, per tornar sotto al poter della morte: sapendo che Cristo, essendo risuscitato dai morti, non muore più; la morte non lo signoreggia più. In un senso, non ebbe mai potere su lui, secondo l'affermazione di Gesù Giovanni 10:17-18: «Niuno mi toglie la vita, ma io la depongo da me stesso» (cfr. Matteo 20:28). Il dominino della morte su lui deriva dall'essersi non volontariamente assunto il peso dei peccati dell'umanità, per portarne la pena 2Corinzi 5:21; Filippesi 2; 1Pietro 1. Ma questo egli fece «una sola volta», avendo con quell'unica, morte, acquistata redenzione eterna Ebrei 9.
10 Poichè, il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre, Lett. ciò che egli morì» la morte ch'egli patì Galati 2:20. La relazione, però, di Cristo col peccato è diversa da quella che sosteniamo noi. Il peccato potè, esser posto sopra Cristo Isaia 53:11; Ebrei 9:28; 1Pietro 2:24; ma non abitò mai, nè mai entrò in lui. Quindi, il suo morir al peccato è diverso dal nostro. Egli morì al peccato, inquantochè, colla sua morte espiatoria, cessò ogni solidarietà sua col peccato degli uomini. Egli ha «tutto compiuto» colla sua morte, quel ch'era necessario per l'espiazione dei peccati e, per «distruggere le opere del diavolo» 1Giovanni 3:8. Quindi se apparve, sulla croce, «carico dei peccati del mondo», «fatto peccato», «fatto maledizione», ora è rientrato nella vita divina; e quando apparirà la seconda, volta, apparirà «senza, peccato a coloro che lo aspettano» Ebrei 9:28. Questa: vita di attività celeste, nella, immediata comunione e gloria di Dio, è quella che Paolo descrive col dire: ma il suo vivere è un vivere a Dio. Anche sulla terra visse a Dio, ma in contatto col peccato e colla morte; e sospirò: «fino a quando?» e pregò: «Padre, glorificami» Ma ora, vivo una vita su cui la, morte non stende più ombra alcuna. «Come Cristo, entrato in quella vita e in quell'attività celesti, non torna più indietro, così il fedele, morto al peccato e vivente a Dio in Cristo, non deve tornare alla sua vecchia, vita di peccato».
11 Passando dall'insegnamento più teorico per l'esortazione, Paolo adopera la seconda persona, e spinge i credenti a rendersi esatto conto della nuova situazione morale in cui li colloca la loro unione con Cristo. Essi ben sanno come Cristo morì al peccato e vive a Dio Romani 6:9-10. Ma devono imparare a considerar se stessi come par di Cristo, morti al peccato e, a somiglianza di Cristo, viventi a Dio. Così, anche voi, fate conto di esser morti al peccato, ma viventi a Dio in Cristo Gesù. Il considerarsi come morti al peccato e viventi a Dio deve avere delle conseguenze pratiche, visibili. Quali saranno? Da una parte, il peccato non dove più regnare nel nostro corpo mortale le membra non devono più essere armi d'ingiustizia a disposizione del vecchio padrone; d'altra parte, i credenti devono por sè stessi a disposizione di Dio e le lor membra devono essere armi di giustizia.
12 Non regni adunque il peccato, non la faccia più da re, nel vostro corpo mortale, poichè quel tiranno l'avete disertato per rifugiarvi all'ombra di Dio. Se, il vostro io, colla volontà e gli affetti, è morto al peccato, deve cessar la dominazione d'esso sul corpo ch'è l'organo visibile dell'attività dell'anima. Il corpo è detto mortale per la sua natura terrena, disadatta alla vita superiore. Sotto l'azione del peccato è divenuto un nido di concupiscenze d'istinti depravati che si trasmettono per via d'eredità, e che sussistono dopo la conversione quale pericolo, costante per la vita nuova. Perciò il corpo attuale è destinato al disfacimento, della morte. Il peccato non domini più sul corpo per ubbidirgli nelle sue concupiscenze, Tale la lezione meglio attestata, dai documenti antichi. Le concupiscenze del corpo sono gli appetiti e gl'istinti disordinati che trascinano l'anima per lasciarla poi delusa e vergognosa di sè.
13 e non prestate le vostre membra al peccato, non le mettete a sua disposizione quali armi d'ingiustizia; Armi ha talvolta nel Nuovo Testamento il suo senso proprio Giovanni 18:3: per lo più ha senso figurato, ma senza perdere mai il colore militare. Cfr. Romani 13:12; 2Corinzi 6:7; 10:4: «le armi della nostra guerra»: 1Pietro 4:1. Paolo ha una speciale predilezione per le immagini tolte da quel campo Efesini 6:11; 1Corinzi 9:7,25-26; 2Timoteo 2:3-4. Si non che è questione qui del regnare, del signoreggiare del peccato. Prima, cura dei re e dei signori era quella di aver sotto mano della gente armata. Traducendo strumenti si conserva il senso, ma si perde il colore speciale dell'immagine. «Armi d'ingiustizia» sono dunque armi, adoperate nel commettere il male, nello stabilire il regno dell'iniquità. Invece di far servire a questo le lor membra, essi devono presentare sè stessi, la loro persona intiera a Dio: ma presentate voi stessi a Dio come di morti, fatti viventi, come persone che, nella comunione di Cristo, sono passate dalla morte nel peccato ch'era il loro stato prima della conversione, a vita nuova. e le vostre membra quali armi di giustizia a Dio;
14 A guisa d'incoraggiamento a mandare risolutamente ad effetto le esortazioni pratiche ora fatte, Paolo aggiunge, che la posizione in cui si trovano per guerreggiar la santa guerra li fa sicuri della vittoria. perchè il peccato non vi signoreggerà, non avrà su di voi il sopravvento, per ricondurvi sotto alla sua signoria, poichè non siete sotto (l'impero, sotto il regime della) la legge, ma sotto la grazia. La legge condanna, mentre la, grazia giustifica. La legge nutre nell'uomo uno spirito di servile timore, mentre la grazia, nel darci la pace con Dio, produce il sentimento filiale che nasce dalla fiducia nell'amor del Padre riconciliato. Or questo è movente di attività superiore al timore. La legge traccia la regola del bene e ordina l'ubbidienza, ma lascia l'uomo, alle sue misere forze in presenza dell'obbligo impostogli. E l'uomo si consuma in una lotta disuguale, in aspirazioni che restano insoddisfatte. Anzi, per la mala inclinazione esistente in noi, la legge provoca, l'esplosione, del peccato e così ribadisce le catene che ci fanno sospirar: «Misero, me uomo! chi mi libererà?» Romani 7:24. Ma la grazia, non solo perdona, ma somministra potenza di vita nuova che spezza le catene del peccato. La grazia, insomma, comunica lo Spirito di vita che affranca dalla legge del peccato Romani 8:3. Talchè, anche qui, si applica la parola di trionfo Romani 5:20: ov'è abbondato il peccato per render l'uomo schiavo, la grazia, è soprabbondata per affrancarlo dal dominio d'esso. Nello stato di grazia in cui siamo entrati e seguitiamo a rimanere, abbiamo dunque la certezza che il peccato non potrà riprendere l'antico suo dominio su di noi.
RIFLESSIONI 1. I cristiani non possono impedire che venga fraintesa e calunniata la dottrina evangelica della giustificazione per grazia, mediante la fede in Cristo, senza merito d'opere. Certo, se si predicasse che l'esser giustificati equivale all'esser fatti moralmente giusti e santi, cadrebbe l'obbiezione di Romani 6:1; ma cadrebbe con essa una delle dottrine essenziali del cristianesimo evangelico quale Paolo l'avea proclamato dovunque con ogni franchezza. Non temano dunque i banditori del Vangelo di annunziare colla stessa franchezza la salvezza per grazia, sola capace di recar pace ai cuori angosciati. Ma mostrino, in pari tempo, come la fede che ci unisce a Cristo, implichi il morire al peccato per vivere una vita nuova e pongano i credenti ogni studio a non dare, colle loro infedeltà, alcuna occasione fondata al mondo di accusare la grazia, quasi favorisse il peccato. 2. La nozione, della fede, secondo Paolo, è profonda. Non si tratta di un assenso intellettuale, più o meno ragionato, a date dottrine, ma di un atto morale di fiducia, di abbandono a Cristo, che ci unisce a lui intimamente ci fa partecipi della sua vita. Se essa contiene il germe di una morte e di una risurrezione, ciò solo basta a dimostrare quale atto morale decisivo che sia. A noi sta di «provare noi stessi se siamo nella fede» che unisce il credente al Cristo. 3. Varie volte, in questi versetti, occorrono le espressioni: «Non sapete voi» - «conoscendo questo» - «sapendo che» - le quali suppongono nei lettori un grado di conoscenza e di esperienza spirituali che fanno arrossire i cristiani dell'oggi. Quanti infatti conoscono oggi il valore profondo della morte e della risurrezione di Cristo, quello del loro proprio battesimo e confermazione? A quanti si attaglia il rimprovero rivolto, ai cristiani Ebrei! Ebrei 5:11-14. 4. La base della santificazione è l'unione con Cristo. Vita cristiana non esiste senza Cristo. «Fuor di me, ha detto Gesù, voi non potete far nulla». Potrà parere un paradosso il parlare di santificazione per la fede in Cristo, ma l'esperienza di ogni cristiano dimostra che la nostra forza è vana; che più è intima la nostra unione con Cristo e più si spiega la di lui forza nella nostra debolezza. La comunione con Cristo non distrugge però la volontà umana, anzi la rafforza volgendola al bene. 5. «Chiunque non dà alla morte del Salvatore il significato qui datole da Paolo; chiunque considera la risurrezione di Cristo come dubbia o superflua, non ha compreso mai nulla all'essenza e neppure alla morale del Cristianesimo. Poichè appunto della morale del Vangelo l'Apostolo qui ragiona» (Bonnet). 6. Quel che Paolo dice del battesimo, in Romani 6:3-4, non tronca le controversie esistenti nella cristianità evangelica circa il modo di amministrarlo per immersione o per aspersione; giacchè, sebbene sembri alludere all'immersione come, al modo usuale praticato nelle chiese primitive, non si può escludere che, in certe circostanze, sia stata preferita l'aspersione più o meno abbondante. (I 3000 alla Pentecoste, il carceriere di Filippi coi suoi, ecc.). La Didachè (circa a. 100) attesta che si tenevano nel debito conto le circostanze di clima, di età, ecc. Non tronca neppure la controversia relativa alle persone da battezzare; giacchè, nel periodo di fondazione della Chiesa, non poteva essere questione di battezzare altri all'infuori dei credenti, e soltanto del battesimo di questi si fa parola nella storia missionaria degli Atti. Tuttavia si accenna qua e là al battesimo di «quei di casa», di «tutti i suoi», della «famiglia» di questo o quel credente Atti 16:15,33; 1Corinzi 1:14; e poco sappiamo di quel che di praticava sulla fine del periodo apostolico, allorchè si furon moltiplicate le famiglie cristiane e si rese più completa la legittima solidarietà spirituale fra i loro membri. Paolo stesso considerava come «santi» i figli di famiglie miste 1Corinzi 7:14. Mentre il battesimo accentua l'individualismo cristiano, il pedobattismo, accentua la solidarietà della famiglia cristiana e il battesimo è amministrato ai bambini in base alla fede dei genitori, salvo ai battezzati a confermare poi il loro battesimo colla professione individuale della fede in Cristo. Le due tendenze hanno delle buone ragioni da far valere e dovrebbero liberamente coesistere in seno alla Chiesa di Cristo. Quel che importa, tanto per i battisti come per i pedobattisti, è che la fede dei battezzandi adulti o dei genitori dei bambini, sia una cosa reale e che i battezzati e i confermati si rendano conto degli impegni che prendono e siano spesso richiamati al dovere di mantenerli. La questione essenziale riguardo al battesimo concerne l'efficacia che ad esso si attribuisce. «La Chiesa (romana), dice il P. Lagrange, ha sempre veduto, nelle parole di Paolo, indicato un sacramento, cioè un segno sensibile o simbolo, ma che opera quel ch'esso significa ex opere operato». Il battesimo, come bagno o lavacro più o meno completo, è simbolo della purificazione dell'anima dalla sozzura morale mediante la remissione dei peccati e il rinnovamento del cuore; ma, secondo la dottrina romana, non simboleggia soltanto, esso opera quel che rappresenta. Il battesimo rappresenta, coll'immersione e l'emersione, una sepoltura ed una risurrezione; ma non è soltanto simbolo, esso è anche causa strumentale della morte al peccato e del risorgere a giustizia. In esso si realizza la giustificazione intesa come infusione di giustizia. Da ciò l'importanza estrema data al sacramento, poichè da esso normalmente dipende la salvezza eterna dei piccoli e dei grandi. L'insegnamento di Paolo è ben diverso da codesto sacramentalismo. Per l'Apostolo il battesimo, oltrechè una pubblica professione di fede cristiana, è segno visibile di grazia invisibile; ma è anche il suggello di quella grazia, cioè l'attestato divino e la solenne conferma all'anima della grazia che si ottiene mediante la fede. Paolo chiama il sacramento antico della circoncisione un segno ed un «suggello della giustizia ottenuta per la fede» Romani 4:11. Cornelio ed i suoi credono all'evangelo annunziato da Pietro e ricevono lo Spirito Santo. Poi, il battesimo d'acqua è loro amministrato come suggello esterno della purificazione spirituale ricevuta mediante la fede. L'eunuco evangelizzato da Filippo crede e riceve il battesimo come suggello divino della grazia ricevuta da Cristo per fede. Quel che conta, per Paolo, è la fede che unisce il credente a Cristo fonte d'ogni grazia; il battesimo viene in second'ordine come conferma simbolica delle promesse fatte alla fede. L'essenziale nel suo mandato apostolico è l'evangelizzare per crear la fede nei cuori, non il battezzare 1Corinzi 1:17, sebbene il sacramento sia istituito come aiuto alla fede dinanzi alla quale esso presenta in figura la grazia ch'è in Cristo. Non è la stretta di mano quella che crea l'amicizia; essa ne è il simbolo ed il pegno esterno. Non è l'anello, infilato, al dito che crea il legame che unisce gli sposi; esso n'è soltanto il segno ed il pegno; non è la firma nè il sigillo apposto ad un trattato che creano il trattato; essi ne sono la conferma solenne. Dice Calvino: «Il battesimo essendoci dato da Dio per corroborare e confermare la nostra fede, bisogna riceverlo come dalla mano del suo Autore e tener per certo ch'è Lui che ci parla mediante il segno; è Lui che ci purifica e netta e cancella la memoria dei nostri peccati. Lui che ci fa partecipi della sua morte; e Lui che distrugge le forze di Satana e delle nostre concupiscenze, che si fa uno con noi onde siamo riconosciuti quali figliuoli di Dio... Nelle cose corporali contempliamo le cose spirituali come se ci fossero poste dinanzi agli occhi, giacchè è piaciuto al Signore di rappresentarcele sotto quelle figure. Non già che quelle grazie siano legate o rinchiuse nel sacramento o che ci siano conferite in virtù d'esso; ma solo perchè il Signore, per mezzo di un segno, ci attesta la sua volontà di darci tutte quelle cose». 7. La nostra lingua, i nostri occhi, le nostre mani, i nostri piedi, tutte le nostre membra sono armi che non sono mai neutrali. Servono al peccato o a Dio: sono armi d'ingiustizia o di giustizia. La parola e la penna d'un Paolo, quanto ha servito allo stabilimento del regno di Dio nel mondo! Si rifletta quanto male ha potuto fare colle stesse armi un Voltaire. In sfera più modesta, ognuno può combattere il buon combattimento con quelle armi di cui Dio lo ha fornito e che sono le membra. 8. «Se il peccato regna sul corpo, la pretesa indipendenza dello spirito non è se non lo sterile sforzo di una disordinata immaginazione, senza influenza sulla volontà, quindi senza moralità. Se, per contro (caso più frequente), si crede di vincere il male morale con macerazioni del corpo, è una illusione non meno funesta, per cui resta intatta la vera sede del peccato che si svilupperà sotto le forme diverse dell'egoismo e dell'orgoglio» (Bonnet). Così la Parola di Dio ci mette in guardia contro gli errori di destra e di sinistra. 9. Sotto la grazia è non solo possibile, ma certa la vittoria sul peccato. Lungi dal favorire il male, la grazia di Dio ch'è santità, lo sradica ed estirpa dal cuore del credente.
15 §2 - Lo stato di grazia, nell'unione con Cristo, assicura l'ubbidienza del cuore rinnovato a Dio; mentre il cessato regime della legge era impotente a dar la vittoria sul peccato, di cui, anzi, provocava la manifestazione (Romani 6:15-7:25)
L'entrare in unione con Cristo segna la rottura definitiva col peccato ed il principio d'una vita nuova. Questa vita nuova deve trionfare, perchè lo stato di grazia in cui è entrato il credente è garanzia di vittoria sul peccato che tenta sempre di ricondurre alla sua ubbidienza coloro che han disertato la sua bandiera. Con questa osservazione Paolo prendeva il toro per le corna; poichè egli non ignorava che il regime della grazia veniva da molti riguardato come favorevole alla libertà del peccare, mentre quello rigido della legge si giudicava per lo meno atto a frenare il male. L'Apostolo solleva egli stesso l'obbiezione dei giudaizzanti contro il Vangelo della grazia. E, confutandola, stabilisce che l'esser sotto la grazia è garanzia di vittoria, perchè implica una volontaria sottomissione del credente alla giustizia morale chè la via della vita Romani 6:15-23; perchè il credente, affrancato dal giogo della legge, mediante la morte di Cristo, è unito al Cristo vivente come la sposa al suo sposo, per portar dei frutti alla gloria di Dio Romani 7:1-6. Invece, il vecchio regime legale non ha avuto, malgrado la bontà intrinseca della legge, altro effetto che quello negativo di provocare lo sviluppo del peccato e di dimostrare la impotenza dell'uomo a scuoterne, da sè, il giogo Romani 7:7-25. Talchè, se l'esser sotto la grazia vuol dire servire di cuore e con spirito di amore al bene, mentre l'esser sotto la legge equivale ad esser servi, per quanto riluttanti, del male, resta dimostrata la superiorità della grazia in Cristo per la santificazione.
SEZIONE A Romani 6:15-23Chi riceve il Vangelo della grazia si pone volontariamente al servizio della giustizia
Che dunque? Siamo noi per peccare (testo emend.) perchè non siamo sotto la legge, ma sotto la grazia? Così non sia. Questa domanda riproduce in forma più attenuata l'obbiezione Romani 3:8,31; 6:1, la quale, in pari tempo, è una tentazione che l'avversario delle anime va insinuando sempre nel cuore dei credenti. «C'è un sottil veleno che s'insinua nel cuore del migliore tra i cristiani e sta nel dire, non già: pecchiamo affinchè la grazia abbondi; ma: perchè la grazia abbonda. Non si tratta già d'un odioso calcolo, ma di semplice rilassatezza» (Vinet). Il non essere sotto la tutela della legge, ma sotto la grazia, è stato di libertà fatto per chi è giunto all'età maggiore (cfr. Galati 4). Ma questa libertà equivale essa all'essere sciolti da ogni obbligo morale? «La libertà assoluta non può esser la condizione dell'uomo. Siamo fatti non per dare a noi stessi un principio morale qualunque, di nostra propria creazione, ma semplicemente per aderire all'una delle due potenze morali opposte, che ci sollecitano» (Godet). Cfr. Matteo 6:24. Ora, nella vita ordinaria, quando uno si pone, al servizio d'un altro per prestargli ubbidienza; esso è servo di colui al quale egli ubbidisce. Con un atto di libertà iniziale e decisivo, esso ha, in certo modo, impegnata la sua libertà e volontà per un tempo più o meno lungo, talvolta per la vita. Nel caso dei cristiani, la fede in Cristo suggellata nel battesimo è stata, nella lor vita, l'atto decisivo col quale hanno rotto ogni relazione col padrone sotto al quale erano nati, il peccato, per darsi a Dio.
16 Non sapete voi che se vi date a uno come servi per ubbidirgli, siete, servi di colui a cui ubbidite: o del peccato che mena alla morte, in tutti i sensi: morale, fisico ed eterno, o dell'ubbidienza che mena alla giustizia? Il peccato è disubbidienza Romani 5:19; chi lo rinnega, prende partito per l'ubbidienza a Dio che include la fede Romani 1:5; 15:18; 10:3 e che fa capo alla giustizia morale praticata con crescente fedeltà, e in fine, alla vita perfetta ed eterna. Posti, dalla predicazione evangelica, nel caso di scegliere tra i due padroni: il peccato cui avevano servito fino allora, e la giustizia cui li impegnava, la fede, i Romani, avevano volontariamente scelto il secondo. Per questa loro conversione a Cristo, Paolo rende grazie a Dio.
17 Ma sia ringraziato Iddio, ch'eravate bensì servi del peccato, ma avete di cuore ubbidito a quel tenore d'insegnamento che. v'è stato trasmesso; Il tipo o tenore (cfr. Atti 23:25; 2Timoteo 1:13) dell'insegnamento dato dagli Evangelisti che aveano fondato la chiesa di Roma, è l'Evangelo della grazia quale Paolo lo predicava. Le sue dottrine avevano carattere ben definito. Dice letteralmente: il tipo d'insegnamento «al quale siete stati consegnati, o dati in mano». S'intende: sotto all'influenza del quale siete stati collocati per opera della Provvidenza di Dio e per l'opera interna dello Spirito di Dio che, ha resa efficace la parola del Vangelo. Ovvero, si può rendere semplicemente: «che vi è stato trasmesso».
18 ed essendo stati affrancati dal peccato, in virtù della fede che vi ha uniti a Cristo, siete divenuti servi della giustizia. Emancipati dal peccato, essi non sono, secondo la massima posta in Romani 6:16, rimasti senza padrone, in istato di neutralità morale; ma sono stati fatti servi della giustizia. La loro conversione è stata un cambiamento di padrone; hanno lasciato il cattivo per darsi al buono. «Paolo è Così giunto a ritrovare una legge nella grazia stessa; ma una legge interna e spirituale come tutto l'Evangelo suo» (Godet).
19 L'espressione «fatti servi o schiavi della giustizia» l'Apostolo l'adopera a malincuore. Il servire alla giustizia ch'è la volontà di Dio, è infatti la destinazione dell'uomo; quindi l'esser posti in condizione di realizzarla, non è già schiavitù, ma libertà vera e gloriosa. Se dunque si è, servito di quella espressione, è stato per far intender meglio il suo pensiero: cioè l'incompatibilità tra il peccato e in situazione morale in cui si sono volontariamente collocati i cristiani colla loro conversione. Dicendo così io parlo alla maniera degli uomini: mi servo di immagini tolte dalla vita quotidiana, a motivo della debolezza della vostra carne; cioè: a motivo della debolezza d'intendimento inerente alla decaduta natura umana e che rende difficile anche ai credenti (specie al principio della carriera) l'afferrare le verità spirituali più profonde quando non siano vestite di forme tolte dalla vita terrena. Gesù si servì di parabole ed ebbe a dire ai suoi che molte cose «non erano per loro alla portata». Cfr. 1Corinzi 3:1. Poichè, praticamente, l'immagine di cui mi servo, torna a dir questo: come già prestaste le vostre membra a servizio dell'impurità (peccato cui si erano abbandonati i pagani, Romani 1), e, in genere dell'iniquità, per commetter l'iniquità, lett. per l'iniq. per arrivare cioè a una perversione crescente del vostro carattere, per ingolfarvi sempre più profondamente nel male, così, prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia, per la vostra santificazione. Lett. a santif. (cfr. 1Pietro 4:1-4). Non devono esser meno zelanti al servizio del bene di quel che lo siano stati al servizio del male. Ed al servizio del bene ha per primo risultato il nostro diventar migliori. Santificazione è il processo graduale verso la perfetta santità. Però, se questo è il frutto presente del servizio della giustizia, come l'iniquità è il frutto del servizio del male, c'è al di là del presente, un fine cui ciascuna delle due vie opposte fa capo. L'accenno a queste conseguenze ultime servirà a porre in risalto l'eccellenza della, via, per la quale i Romani si sono posti e seguitano a camminare pare, sorretti dalla grazia.
20 Quando, infatti, eravate servi (o schiavi) del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. avevate questa bella libertà di non dipendere per nulla dalla giustizia, d'essere estranei, di fatto alla sua autorità. «Il senso del giusto non intralciava affatto l'esercizio della lor libertà e l'appagamento dei loro gusti. Quella onorevole soggezione, essi non la conoscevano. Secondo il detto della Scrittura., bevevano il peccato, come l'acqua» (Godet). Come vi sono per l'uomo due sorta di servitù vi sono del pari due specie di libertà. Qual'è il frutto presente e qual'è il fine ultimo di queste due servitù e delle due corrispondenti libertà? Paolo pone ai lettori la domanda, non perchè dubiti della lor risposta, ma per appellarsene alla loro esperienza e così indirettamente confermarli.
21 Qual frutto, adunque, avevate allora dalle cose di cui ora vi vergognate? Altri punteggia così: Qual frutto avevate voi allora? Delle cose di cui ora vi vergognate - un frutto cioè pessimo, vergognoso. Meglio, però leggere come il Diodati e gran parte dei moderni. Se non c'è una risposta esplicita alla domanda, essa risulta: dal modo stesso in cui Paolo pone la questione. Qual profitto morale poteva mai derivare da cose che, ora al solo pensarci coprono di vergogna i convertiti? Manifestamente nessuno. Paolo parla del frutto dello spirito Galati 5:22, del frutto della luce Efesini 5:9; ma le opere delle tenebre sono, per loro natura, «senza frutto» (ivi; cfr. Giacomo 3:18; Romani 1:13; Filippesi 1:11,22; 4:17; Ebrei 12:11, ove la nozione del frutto è applicata al bene. Cfr. Meyer). Poichè la fine loro è la morte. Quel che ha per fine ultima la morte eterna, la perdizione, non può esser nel presente profittevole all'uomo. Quanto diverso il risultato presente e la fine ultima del servizio cui si sono impegnati unendosi a Cristo!
22 Ma ora, essendo stati affrancati dal peccato, e fatti invece servi di Dio, voi avete per frutto (fin d'ora) la vostra santificazione, il fare sempre nuovi progressi su quella via; e per fine la vita eterna. che include santità, felicità e gloria perfette. A questo conduce la grazia sotto alla quale essi han cercato rifugio e seguitano a stare;
23 poichè, il salarlo del peccato è la morte, ma il dono (dono di grazia) di Dio è la vita eterna, e quel dono ci è fatto in Cristo Gesù, nostro signore. Salario significa nell'originale il soldo in natura od in denaro che pagavasi ai militari Luca 3:14; 1Corinzi 9:7; 2Corinzi 11:8. Chi milita al servizio del peccato riceve per paga, in virtù della giusta legge di Dio, la morte nel senso più esteso; mentre, a chi crede in Cristo, è assicurato il dono della vita eterna che l'uomo non potrebbe mai per meriti propri, acquistarsi. Quel dono per eccellenza è in Cristo, poichè nel suo sacrificio per noi abbiamo la riconciliazione, e nell'unione con lui la vita nuova ed a suo tempo la gloria.
RIFLESSIONI 1. Non vi sono che due padroni possibili per l'uomo: il peccato o la giustizia, Satana o Dio. Al servizio dell'uno o dell'altro è necessariamente impegnata e adoperata la vita. «Voi non potete servire a due padroni», ha detto Cristo. «Chi non è per me è contro di me». Neutralità o indipendenza morale non è possibile. 2. Lo stato di grazia è uno stato di aperta guerra contro al peccato e di volontaria consacrazione a giustizia, ossia a Dio. Tale è fin dal suo principio: tale deve essere, in modo, sempre più assoluto, fino alla finale vittoria. Vi si entra con un atto d'ubbidienza del cuore all'Evangelo, vi si continua nell'ubbidienza alla giustizia. Colla conversione si voltano le spalle al peccato, colla santificazione lo si combatte, lo si estirpa dal cuore e dalla vita. Il tornare sotto al giogo del peccato è un tornare al vomito, un rinnegare la propria conversione, un uscire dallo stato di grazia. L'esperienza d'ogni cristiano attesta che la sua conversione è stata un mutamento di dizione morale. Ricordiamo le prime, emozioni, le lotte, i santi impegni della nostra conversione e sia l'opera morale di ogni giorno una conferma di quella decisione. 3. Finchè soltanto l'intelletto assente alle verità evangeliche, non c'è vera conversione. Convien che vi sia, come nei Romani, ubbidienza di cuore all'Evangelo conosciuto colla mente. Molto si parla di cambiamento di religione. Il cambiamento essenziale sta nel lasciare la schiavitù del peccato per divenire di cuore servi di Dio. 4. Le conseguenze del peccato nel presente, fanno presentire la fine alla quale esso mena il peccatore; mentre il benefico e sano frutto del servizio di Dio fa presentire altresì che alla fine, trovasi la vita eterna. Nei risultati presenti e visibili, da noi stessi in parte sperimentati, del servizio del peccato e di quello della giustizia, sta una costante esortazione a scegliere la via stretta che mena alla vita o a perseverare fedelmente in essa, quando già vi siamo entrati. «Anche se consideriamo solo la nostra presente felicità, faremo bene ad abbandonare il servizio del peccato. Poichè per quanto il frutto proibito sembri, a vederlo, di sapore gradevole, dobbiam presto riconoscere che il peccato non produce se non timori, tormenti e tribolazioni. Non c'è nè pace, nè riposo, nè gioia ove dominano le malvagie inclinazioni... Quale felicità può esservi per chi è in balia delle proprie passioni? Egli è lo schiavo della collera, dell'orgoglio, della gelosia, della concupiscenza o di tal altro colpevole sentimento che lo tiranneggia. E se leviamo lo sguardo verso l'eternità che si avvicina, quanto più serie ci parranno le conseguenze del nostro peccato! Siamo esseri immortali; gettiamo sulla terra il seme di cui raccoglieremo il frutto nell'eternità... Quanto diversa la posizione di coloro che, affrancati dal peccato, sono diventati servi di Dio!» (Anon.).
L'Evangelo è "potenza di Dio a salvezza"
in quanto assicura al credente il suo totale affrancamento dalla potenza del peccato e della morte
Romani 6-8
Nei cinque primi capitoli, Paolo ha mostrato come il Vangelo sia potenza di Dio a salvezza in quanto ci rivela come il peccatore può essere, per la fede in Cristo, liberato dall'ira e giustificato. Ma siccome la liberazione dalla colpa del peccato non è la salvazione completa, egli dimostrerà, in Romani 6-8, come il Vangelo sia «potenza di Dio a salvezza» in quanto esso assicura a chi crede in Cristo la completa vittoria sul peccato e la conformità col Cristo elevato nella gloria. La santificazione colla conseguente glorificazione (Vid. Godet), non è la causa efficiente del perdono e della giustificazione quasichè sia giustificato solo chi è diventato santo (dottrina romana); non è soltanto la condizione per conservare lo stato di giustificazione; nè solo una conseguenza prodotta nei giustificati dalla gratitudine per il perdono ricevuto. La trasformazione del credente all'immagine di Cristo è il compimento della salvazione di cui la giustificazione è il principio, il fondamento. Il mezzo di questa trasformazione è l'unione con Cristo creata dalla fede. Come dalla solidarietà col primo Adamo è derivata a noi, non solo colpa, ma infermità morale che si manifesta col predominio della carne sullo spirito, così dalla solidarietà del credente col secondo Adamo deriva non solo la giustificazione, ma una nuova potenza di vita spirituale che trionfa della debolezza della carne. Chi è in Cristo è non solo giustificato, ma è «nuova creatura» 2Corinzi 5:17, poichè Cristo non ci è fatto soltanto sapienza e giustizia, ma altresì santificazione e finale redenzione 1Corinzi 1:30. «Il contrasto in cui si muove qui il pensiero dell'apostolo non è più, come nella prima parte, quello della condannazione e della giustificazione ma quello del peccato e della santità. Non si tratta più di cancellare il peccato come fallo, ma di vincerlo come potenza o malattia».
Questa parte dell'Epistola può dividersi in tre paragrafi in cui sono svolti i seguenti pensieri:
§ 1 - L'entrata nello stato di grazia, per la fede in Cristo, segna la rottura decisiva col peccato ed il principio d'una vita nuova, Romani 6:1-14;
§ 2 - Lo stato di grazia nell'unione con Cristo assicura il servire a Dio con ubbidienza del cuore, in novità di spirito; mentre il cessato regime della legge era, impotente a dar la vittoria sul peccato, di cui anzi provocava la manifestazione Romani 6:15-7:25;
§ 3 - Lo stato di grazia in Cristo assicura al credente l'abitazione in lui dello Spirito che comunica la vita ed è arra della futura gioia dei figli di Dio Romani 8.
O più brevemente: La trasformazione del credente all'immagine dell'Adamo celeste si effettua: nell'unione con Cristo - sotto la grazia anzichè sotto la legge - per lo Spirito.
§1 - L'entrata nello stato di grazia, per la fede in Cristo, segna la rottura decisiva col peccato ed il principio d'una vita nuova (Romani 6:1-14)
Che direm dunque
dinanzi, al trionfo della grazia che sovrabbonda dove il peccato è abbondato? (Romani 5:20), che cancella le innumerevoli colpe ed accoglie in grazia i peccatori giustificandoli?
Vogliamo noi rimanere (tasto emend.) nel peccato
in cui siamo vissuti fino alla nostra conversione a Cristo, e ciò
affinchè la grazia abbondi?
affin di dare occasione alla grazia di spiegare vie maggior ricchezza? Con questa domanda l'Apostolo accenna all'obbiezione che veniva, e tuttavia viene mossa alla dottrina della giustificazione per fede. Il credente, dicevasi, può dunque peccare, liberamente: la grazia cancellerà tutto (cfr. Romani 3:8,31). L'abuso della libertà cristiana per parte di taluni pareva dar ragione alla grave accusa (cfr. Galati 5:13; 1Pietro 2:16; Giuda 4; Giacomo 2:14 e segg.). Paolo la respinge mostrando come la fede che unisce il credente a Cristo implichi un morire al peccato e un risuscitare a vita nuova.
2 Così non sia. Noi che morimmo al peccato, come viveremmo ancora in esso?
Morire al peccato è un romperla con esso in modo decisivo (1Pietro 2:24; cfr. Galati 6:14). Chi e morto al peccato è, divenuto insensibile ai suoi allettamenti e non ha più nulla da porre al servizio del peccato. La morte ha rotto il legame che lo teneva avvinto ad esso, come uno schiavo al suo padrone. Questa morte si effettua in realtà gradatamente, poichè i cristiani sono esortati a «far morire gli atti del corpo» (Romani 8:13; cfr. Colossesi 3:5), a «spogliar l'uomo vecchio», ecc. Ma la fede in Cristo che li introduce nello stato di grazia, è il colpo di morte dato al peccato. «La sentenza di morte con cui Dio ha colpito in Cristo il peccato del mondo, si ripercuote, a dir così, nella nostra coscienza come la sentenza di morte del nostro proprio peccato. Ci sentiamo costretti a romperla col peccato per il quale Cristo ha subito quella morte» (Godet). Il continuare a vivere nel peccato come nel proprio elemento, è quindi una impossibilità morale per chi è unito a Cristo il fatto concreto, visibile, decisivo, cui si riferisce il passato morimmo, è il battesimo che segnava, nella storia dei credenti dei primi tempi, il principio della carriera cristiana. Era stato infatti il momento della professione pubblica della lor fede in Cristo e della loro appartenenza ad esso. Tale atto esterno, per molti di essi, avea seguito immediatamente la nascita della fede. Esempi i tremila della Pentecoste Atti 2, Cornelio, il carceriere di Filippi. Era stato per lo più accompagnato dall'effusione dello Spirito, che avea lor fatto provare impressioni tali da non dimenticarsi. Talvolta il battesimo era stato anche il principio delle sofferenze per Cristo. Non potea riuscire cosa nuova ai lettori quanto dice loro l'Apostolo, a meno che ignorassero il valore morale del loro battesimo.
3 O ignorate voi che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
La formula completa del battesimo trovasi in Matteo 28:19; ma per lo più, vi si accenna in modo più breve, come: «esser battezzato nel nome di Cristo» Galati 3:27, «nel nome di Gesù» o «del Signor Gesù» (Atti 2:38; 8:16; 10:48; 19:5; cfr. 1Corinzi 1:13-15; 10:2). Il senso della formula è: in vista di..., per appartenere a Cristo, per essere incorporati nel Redentore in cui abbiam creduto. Il battesimo è il suggello della solidarietà con Cristo creata dalla fede, della unione intima con lui; perciò quel che Cristo fece per noi qual secondo Adamo deve ritenersi come fatto da noi. Nella sua morte morimmo, nella sua risurrezione risuscitammo. Esser battezzato in Cristo è un esser battezzato nella sua morte e nella sua risurrezione 2Corinzi 5:15. Non già che questi fatti spirituali si verifichino al momento e per virtù del battesimo, il che contraddice ai fatti narrati nel Nuovo Testamento; ma il battesimo è l'esterno segno ed il suggello di quanto internamente ha operato la fede in Cristo. (cfr. Galati 3:27; Colossesi 2:10-13). «Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo...». «. In lui siete anche stati circoncisi d'una circoncisione non fatta da mano d'uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne...».
4 E poichè la forma ordinaria, per quanto non necessaria, del battesimo, nella primitiva chiesa, era la immersione del battezzando nell'acqua, Paolo, scorgendo probabilmente in questo un'analogia col seppellimento che segue e suggella la morte, aggiunge:
Siamo dunque stati con lui seppelliti, mediante il battesimo nella morte.
Per il lato negativo del valore suo, il battesimo cristiano è un battesimo nella; morte al peccato, un rinunziamento ad esso. Chi è battezzato in Cristo, scende con lui nel sepolcro. Se si legge: «seppelliti nella morte», non varia gran fatto il senso. Ma, come Cristo non scese nel sepolcro per rimanervi e risorse al terzo dì, così i credenti, riproducendo nella loro esperienza morale i fatti della vita di Cristo, sono stati sepolti per risorgere a vita nuova,
affinchè come Cristo risorse dai morti mediante la gloria del Padre,
cioè lo splendore della potenza divina Romani 1:4; 1Corinzi 6:14; Efesini 1:20; Colossesi 1:20; 2Corinzi 13:4,
così anche noi camminassimo in novità di vita.
Il «camminare» è l'immagine della condotta, della vita pratica attiva. L'analogia tra la forma del battesimo per immersione col morire e risorgere spirituale mediante la fede, si ritrova in Colossesi 2:12: «...essendo stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede...». Il «rivestirsi di Cristo» di Galati 3:27 offre analogia piuttosto colla forma dell'aspersione più o meno abbondante. Ad ogni modo, la forma è cosa, secondaria e l'acqua del battesimo ha sempre il significato primo ed essenziale del lavare, del purificare dalle sozzure (cfr. Marco 7:4: i letti; Atti 22:16; 1Corinzi 10:1-2; 1Pietro 3:21; Tito 3:5; Efesini 5:26; ed anche Giovanni 3:5).
Il morire al peccato ed il vivere a giustizia sono i due aspetti, negativo, e positivo, di uno stesso fenomeno spirituale che si verifica all'atto della fede. L'esperienza personale di Paolo illustra l'immagine qui adoperata per descrivere il mutamento interno prodotto dalla fede. Nel breve giro di tre giorni, a Damasco, morì Saulo e rivisse Paolo.
Il nostro battesimo, pel valore suo spirituale, è stato una, sepoltura ed una risurrezione a vita nuova. Le due cose, infatti, non si possono disgiungere nell'esperienza del credente, più che, non siano state disgiunte in quella del secondo Adamo. Uniti con lui nella morte, non possiamo non essere uniti con lui nella risurrezione.
5 Poichè, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una morte somigliante alla sua...
L'immagine qui adoperata (συμφυτοι) non è quella dell'innesto, bensì quella del crescere insieme di due piante che finiscono col fondersi e col formare un solo arganismo (cfr. Luca 8:7: le spine nate e cresciute insieme). Se siamo stati uniti con lui di una unione vitale, fatti una stessa cosa con lui col morire di una morte morale simile a quella fisica di Cristo,
lo saremo anche per una risurrezione simile alla sua.
Questa conformità principia quaggiù, ma non avrà il suo pieno effetto se non nel mondo avvenire Romani 8:29.
6 Romani 6:6-7 spiegano più ampiamente cosa sia l'esser battezzato nella morte di Cristo, sepolto con lui. Romani 6:8-10 spiegheranno più ampiamente cosa sia l'esser uno con lui per somiglianza colla sua risurrezione.
Se riflettono, i lettori si devono rendere più esattamente conto della, radicale trasformazione implicata, o racchiusa in germe, nella lor fede in Cristo. Molte cose sono ammesse, infatti, e credute dai cristiani, alle quali non hanno però mai riflettuto. Sono conoscenze ingoiate, ma non digerite nè trasformate in forza vitale e pratica.
Sapendo questo,
rendendoci conto di questo,
che il nostro vecchio uomo è stato con lui crocifisso,
L'espressione «vecchio uomo» è adoperata anche in Efesini 4:22-24, ove i cristiani sono esortati a spogliarsi «dell'uomo vecchio» e a «rivestire l'uomo nuovo creato all'immagine di Dio nella giustizia e nella santità» (cfr. Colossesi 3:9-10). «Il vecchio uomo è l'io peccaminoso, l'io carnale di Romani 7:14. È vecchio dal punto di vista della nuova nascita Giovanni 3:3; Tito 3:15; è l'uomo antico, precedente, cui viene opposto il nuovo, o recente 2Corinzi 5:17, la nuova creatura. Si tratta dunque di una personificazione del primiero carattere peccaminoso, della tendenza che prima dominava tutta quanta la vita» (Philippi). Questo vecchio uomo morì sulla croce ove fu crocifisso il Cristo con cui siamo entrati in intima unione. La morte di Cristo è la morte del peccatore, qual peccatore.
affinchè fosse annullato il corpo del peccato,
Quest'ultima espressione viene intesa dagli uni in senso figurato, ed indicherebbe il peccato nella sua unità, la massa del peccato considerata come organismo. Altri l'intende in senso proprio e significa, allora, il corpo che apparteneva al peccato, che serviva di strumento all'uomo vecchio. Questo non implica che il male abbia la sua sorgente nel corpo, ma esso è l'organo dell'io corrotto e come tale ha da essere abolito. Lo è in senso morale, quando nella santificazione viene gradualmente sottratto all'antico padrone e posto al servizio, di Dio (cfr. Romani 6:12-13,19; 8:13,23; Colossesi 2:11; 3:5; 1Corinzi 6); e lo sarà in modo più completo, nel disfacimento cui dovrà sottostare nella morte fisica, perchè non adatto ad esser organo della vita superiore Romani 8:10; 1Corinzi 15. La morte del vecchio uomo, l'abolizione del corpo del peccato suo strumento, ha per risultato pratica di sottrarre l'attività umana alla schiavitù del male:
onde noi non serviamo più al peccato,
nostro antico padrone Giovanni 8:34; 2 Pietro 2:19.
7 Infatti chi è morto è affrancato dal peccato.
lett. «è giustificato dal peccato», cioè è legittimamente dichiarato libero dalla signorina del peccato, da esso emancipato. La morte tronca i legami terrestri; quindi se il peccato è stato il padrone del corpo quando questo era vivo, ora che per l'unione con Cristo, è avvenuta la morte dell'uomo vecchio, il peccato ha perduto ogni diritto di dominazione sul suo schiavo d'una volta. Uno schiavo morto non serve più. Però uno stato morale negativo, di astensione dal peccato, ma privo di santa attività positiva, sarebbe psicologicamente impossibile e mal risponderebbe al fine della creazione e della salvazione. L'unione con Cristo è una morte, ma solo per l'uomo vecchio, non per la personalità umana in sè. Ci toglie alla illegittima tirannia del peccato, ma per restituirci al legittimo e filiale servizio di Dio. Questo il lato positivo della rivoluzione morale determinata dall'unione con Cristo, e che riproduce nel credente la «potenza della risurrezione di Cristo» Filippesi 3:10-11.
8 Ora, se siamo morti con Cristo, noi crediamo che altresì vivremo con lui,
La partecipazione alla vita di Cristo risuscitato è oggetto di fede in quanto si realizza solo in parte nella esperienza terrestre del credente, mentre la vita in Cristo, nella sua pienezza, non sarà posseduta se non nell'eternità avvenire. Il camminar quaggiù in novità di vita è il necessario avviamento alla perfezione dello stato di gloria. Vera vita è per Paolo, vita eterna.
9 Su che si fonda la nostra fede nella partecipazione alla vita di Cristo? Sul fatto stesso che Cristo, il nostro capo, dopo esser morto, vive di vita imperitura. Viveremo, poichè come ben sappiamo, egli vive Giovanni 14:19. Non è risuscitato, come Lazzaro, per tornar sotto al poter della morte:
sapendo che Cristo, essendo risuscitato dai morti, non muore più; la morte non lo signoreggia più.
In un senso, non ebbe mai potere su lui, secondo l'affermazione di Gesù Giovanni 10:17-18: «Niuno mi toglie la vita, ma io la depongo da me stesso» (cfr. Matteo 20:28). Il dominino della morte su lui deriva dall'essersi non volontariamente assunto il peso dei peccati dell'umanità, per portarne la pena 2Corinzi 5:21; Filippesi 2; 1Pietro 1. Ma questo egli fece «una sola volta», avendo con quell'unica, morte, acquistata redenzione eterna Ebrei 9.
10 Poichè, il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre,
Lett. ciò che egli morì» la morte ch'egli patì Galati 2:20. La relazione, però, di Cristo col peccato è diversa da quella che sosteniamo noi. Il peccato potè, esser posto sopra Cristo Isaia 53:11; Ebrei 9:28; 1Pietro 2:24; ma non abitò mai, nè mai entrò in lui. Quindi, il suo morir al peccato è diverso dal nostro. Egli morì al peccato, inquantochè, colla sua morte espiatoria, cessò ogni solidarietà sua col peccato degli uomini. Egli ha «tutto compiuto» colla sua morte, quel ch'era necessario per l'espiazione dei peccati e, per «distruggere le opere del diavolo» 1Giovanni 3:8. Quindi se apparve, sulla croce, «carico dei peccati del mondo», «fatto peccato», «fatto maledizione», ora è rientrato nella vita divina; e quando apparirà la seconda, volta, apparirà «senza, peccato a coloro che lo aspettano» Ebrei 9:28. Questa: vita di attività celeste, nella, immediata comunione e gloria di Dio, è quella che Paolo descrive col dire:
ma il suo vivere è un vivere a Dio.
Anche sulla terra visse a Dio, ma in contatto col peccato e colla morte; e sospirò: «fino a quando?» e pregò: «Padre, glorificami» Ma ora, vivo una vita su cui la, morte non stende più ombra alcuna. «Come Cristo, entrato in quella vita e in quell'attività celesti, non torna più indietro, così il fedele, morto al peccato e vivente a Dio in Cristo, non deve tornare alla sua vecchia, vita di peccato».
11 Passando dall'insegnamento più teorico per l'esortazione, Paolo adopera la seconda persona, e spinge i credenti a rendersi esatto conto della nuova situazione morale in cui li colloca la loro unione con Cristo. Essi ben sanno come Cristo morì al peccato e vive a Dio Romani 6:9-10. Ma devono imparare a considerar se stessi come par di Cristo, morti al peccato e, a somiglianza di Cristo, viventi a Dio.
Così, anche voi, fate conto di esser morti al peccato, ma viventi a Dio in Cristo Gesù.
Il considerarsi come morti al peccato e viventi a Dio deve avere delle conseguenze pratiche, visibili. Quali saranno? Da una parte, il peccato non dove più regnare nel nostro corpo mortale le membra non devono più essere armi d'ingiustizia a disposizione del vecchio padrone; d'altra parte, i credenti devono por sè stessi a disposizione di Dio e le lor membra devono essere armi di giustizia.
12 Non regni adunque il peccato,
non la faccia più da re,
nel vostro corpo mortale,
poichè quel tiranno l'avete disertato per rifugiarvi all'ombra di Dio. Se, il vostro io, colla volontà e gli affetti, è morto al peccato, deve cessar la dominazione d'esso sul corpo ch'è l'organo visibile dell'attività dell'anima. Il corpo è detto mortale per la sua natura terrena, disadatta alla vita superiore. Sotto l'azione del peccato è divenuto un nido di concupiscenze d'istinti depravati che si trasmettono per via d'eredità, e che sussistono dopo la conversione quale pericolo, costante per la vita nuova. Perciò il corpo attuale è destinato al disfacimento, della morte. Il peccato non domini più sul corpo
per ubbidirgli nelle sue concupiscenze,
Tale la lezione meglio attestata, dai documenti antichi. Le concupiscenze del corpo sono gli appetiti e gl'istinti disordinati che trascinano l'anima per lasciarla poi delusa e vergognosa di sè.
13 e non prestate le vostre membra al peccato,
non le mettete a sua disposizione
quali armi d'ingiustizia;
Armi ha talvolta nel Nuovo Testamento il suo senso proprio Giovanni 18:3: per lo più ha senso figurato, ma senza perdere mai il colore militare. Cfr. Romani 13:12; 2Corinzi 6:7; 10:4: «le armi della nostra guerra»: 1Pietro 4:1. Paolo ha una speciale predilezione per le immagini tolte da quel campo Efesini 6:11; 1Corinzi 9:7,25-26; 2Timoteo 2:3-4. Si non che è questione qui del regnare, del signoreggiare del peccato. Prima, cura dei re e dei signori era quella di aver sotto mano della gente armata. Traducendo strumenti si conserva il senso, ma si perde il colore speciale dell'immagine. «Armi d'ingiustizia» sono dunque armi, adoperate nel commettere il male, nello stabilire il regno dell'iniquità. Invece di far servire a questo le lor membra, essi devono presentare sè stessi, la loro persona intiera a Dio:
ma presentate voi stessi a Dio come di morti, fatti viventi,
come persone che, nella comunione di Cristo, sono passate dalla morte nel peccato ch'era il loro stato prima della conversione, a vita nuova.
e le vostre membra quali armi di giustizia a Dio;
14 A guisa d'incoraggiamento a mandare risolutamente ad effetto le esortazioni pratiche ora fatte, Paolo aggiunge, che la posizione in cui si trovano per guerreggiar la santa guerra li fa sicuri della vittoria.
perchè il peccato non vi signoreggerà,
non avrà su di voi il sopravvento, per ricondurvi sotto alla sua signoria,
poichè non siete sotto
(l'impero, sotto il regime della)
la legge, ma sotto la grazia.
La legge condanna, mentre la, grazia giustifica. La legge nutre nell'uomo uno spirito di servile timore, mentre la grazia, nel darci la pace con Dio, produce il sentimento filiale che nasce dalla fiducia nell'amor del Padre riconciliato. Or questo è movente di attività superiore al timore. La legge traccia la regola del bene e ordina l'ubbidienza, ma lascia l'uomo, alle sue misere forze in presenza dell'obbligo impostogli. E l'uomo si consuma in una lotta disuguale, in aspirazioni che restano insoddisfatte. Anzi, per la mala inclinazione esistente in noi, la legge provoca, l'esplosione, del peccato e così ribadisce le catene che ci fanno sospirar: «Misero, me uomo! chi mi libererà?» Romani 7:24. Ma la grazia, non solo perdona, ma somministra potenza di vita nuova che spezza le catene del peccato. La grazia, insomma, comunica lo Spirito di vita che affranca dalla legge del peccato Romani 8:3. Talchè, anche qui, si applica la parola di trionfo Romani 5:20: ov'è abbondato il peccato per render l'uomo schiavo, la grazia, è soprabbondata per affrancarlo dal dominio d'esso. Nello stato di grazia in cui siamo entrati e seguitiamo a rimanere, abbiamo dunque la certezza che il peccato non potrà riprendere l'antico suo dominio su di noi.
RIFLESSIONI
1. I cristiani non possono impedire che venga fraintesa e calunniata la dottrina evangelica della giustificazione per grazia, mediante la fede in Cristo, senza merito d'opere. Certo, se si predicasse che l'esser giustificati equivale all'esser fatti moralmente giusti e santi, cadrebbe l'obbiezione di Romani 6:1; ma cadrebbe con essa una delle dottrine essenziali del cristianesimo evangelico quale Paolo l'avea proclamato dovunque con ogni franchezza. Non temano dunque i banditori del Vangelo di annunziare colla stessa franchezza la salvezza per grazia, sola capace di recar pace ai cuori angosciati. Ma mostrino, in pari tempo, come la fede che ci unisce a Cristo, implichi il morire al peccato per vivere una vita nuova e pongano i credenti ogni studio a non dare, colle loro infedeltà, alcuna occasione fondata al mondo di accusare la grazia, quasi favorisse il peccato.
2. La nozione, della fede, secondo Paolo, è profonda. Non si tratta di un assenso intellettuale, più o meno ragionato, a date dottrine, ma di un atto morale di fiducia, di abbandono a Cristo, che ci unisce a lui intimamente ci fa partecipi della sua vita. Se essa contiene il germe di una morte e di una risurrezione, ciò solo basta a dimostrare quale atto morale decisivo che sia. A noi sta di «provare noi stessi se siamo nella fede» che unisce il credente al Cristo.
3. Varie volte, in questi versetti, occorrono le espressioni: «Non sapete voi» - «conoscendo questo» - «sapendo che» - le quali suppongono nei lettori un grado di conoscenza e di esperienza spirituali che fanno arrossire i cristiani dell'oggi. Quanti infatti conoscono oggi il valore profondo della morte e della risurrezione di Cristo, quello del loro proprio battesimo e confermazione? A quanti si attaglia il rimprovero rivolto, ai cristiani Ebrei! Ebrei 5:11-14.
4. La base della santificazione è l'unione con Cristo. Vita cristiana non esiste senza Cristo. «Fuor di me, ha detto Gesù, voi non potete far nulla». Potrà parere un paradosso il parlare di santificazione per la fede in Cristo, ma l'esperienza di ogni cristiano dimostra che la nostra forza è vana; che più è intima la nostra unione con Cristo e più si spiega la di lui forza nella nostra debolezza. La comunione con Cristo non distrugge però la volontà umana, anzi la rafforza volgendola al bene.
5. «Chiunque non dà alla morte del Salvatore il significato qui datole da Paolo; chiunque considera la risurrezione di Cristo come dubbia o superflua, non ha compreso mai nulla all'essenza e neppure alla morale del Cristianesimo. Poichè appunto della morale del Vangelo l'Apostolo qui ragiona» (Bonnet).
6. Quel che Paolo dice del battesimo, in Romani 6:3-4, non tronca le controversie esistenti nella cristianità evangelica circa il modo di amministrarlo per immersione o per aspersione; giacchè, sebbene sembri alludere all'immersione come, al modo usuale praticato nelle chiese primitive, non si può escludere che, in certe circostanze, sia stata preferita l'aspersione più o meno abbondante. (I 3000 alla Pentecoste, il carceriere di Filippi coi suoi, ecc.). La Didachè (circa a. 100) attesta che si tenevano nel debito conto le circostanze di clima, di età, ecc.
Non tronca neppure la controversia relativa alle persone da battezzare; giacchè, nel periodo di fondazione della Chiesa, non poteva essere questione di battezzare altri all'infuori dei credenti, e soltanto del battesimo di questi si fa parola nella storia missionaria degli Atti. Tuttavia si accenna qua e là al battesimo di «quei di casa», di «tutti i suoi», della «famiglia» di questo o quel credente Atti 16:15,33; 1Corinzi 1:14; e poco sappiamo di quel che di praticava sulla fine del periodo apostolico, allorchè si furon moltiplicate le famiglie cristiane e si rese più completa la legittima solidarietà spirituale fra i loro membri. Paolo stesso considerava come «santi» i figli di famiglie miste 1Corinzi 7:14. Mentre il battesimo accentua l'individualismo cristiano, il pedobattismo, accentua la solidarietà della famiglia cristiana e il battesimo è amministrato ai bambini in base alla fede dei genitori, salvo ai battezzati a confermare poi il loro battesimo colla professione individuale della fede in Cristo. Le due tendenze hanno delle buone ragioni da far valere e dovrebbero liberamente coesistere in seno alla Chiesa di Cristo. Quel che importa, tanto per i battisti come per i pedobattisti, è che la fede dei battezzandi adulti o dei genitori dei bambini, sia una cosa reale e che i battezzati e i confermati si rendano conto degli impegni che prendono e siano spesso richiamati al dovere di mantenerli. La questione essenziale riguardo al battesimo concerne l'efficacia che ad esso si attribuisce. «La Chiesa (romana), dice il P. Lagrange, ha sempre veduto, nelle parole di Paolo, indicato un sacramento, cioè un segno sensibile o simbolo, ma che opera quel ch'esso significa ex opere operato». Il battesimo, come bagno o lavacro più o meno completo, è simbolo della purificazione dell'anima dalla sozzura morale mediante la remissione dei peccati e il rinnovamento del cuore; ma, secondo la dottrina romana, non simboleggia soltanto, esso opera quel che rappresenta. Il battesimo rappresenta, coll'immersione e l'emersione, una sepoltura ed una risurrezione; ma non è soltanto simbolo, esso è anche causa strumentale della morte al peccato e del risorgere a giustizia. In esso si realizza la giustificazione intesa come infusione di giustizia. Da ciò l'importanza estrema data al sacramento, poichè da esso normalmente dipende la salvezza eterna dei piccoli e dei grandi.
L'insegnamento di Paolo è ben diverso da codesto sacramentalismo. Per l'Apostolo il battesimo, oltrechè una pubblica professione di fede cristiana, è segno visibile di grazia invisibile; ma è anche il suggello di quella grazia, cioè l'attestato divino e la solenne conferma all'anima della grazia che si ottiene mediante la fede. Paolo chiama il sacramento antico della circoncisione un segno ed un «suggello della giustizia ottenuta per la fede» Romani 4:11. Cornelio ed i suoi credono all'evangelo annunziato da Pietro e ricevono lo Spirito Santo. Poi, il battesimo d'acqua è loro amministrato come suggello esterno della purificazione spirituale ricevuta mediante la fede. L'eunuco evangelizzato da Filippo crede e riceve il battesimo come suggello divino della grazia ricevuta da Cristo per fede. Quel che conta, per Paolo, è la fede che unisce il credente a Cristo fonte d'ogni grazia; il battesimo viene in second'ordine come conferma simbolica delle promesse fatte alla fede. L'essenziale nel suo mandato apostolico è l'evangelizzare per crear la fede nei cuori, non il battezzare 1Corinzi 1:17, sebbene il sacramento sia istituito come aiuto alla fede dinanzi alla quale esso presenta in figura la grazia ch'è in Cristo. Non è la stretta di mano quella che crea l'amicizia; essa ne è il simbolo ed il pegno esterno. Non è l'anello, infilato, al dito che crea il legame che unisce gli sposi; esso n'è soltanto il segno ed il pegno; non è la firma nè il sigillo apposto ad un trattato che creano il trattato; essi ne sono la conferma solenne. Dice Calvino: «Il battesimo essendoci dato da Dio per corroborare e confermare la nostra fede, bisogna riceverlo come dalla mano del suo Autore e tener per certo ch'è Lui che ci parla mediante il segno; è Lui che ci purifica e netta e cancella la memoria dei nostri peccati. Lui che ci fa partecipi della sua morte; e Lui che distrugge le forze di Satana e delle nostre concupiscenze, che si fa uno con noi onde siamo riconosciuti quali figliuoli di Dio... Nelle cose corporali contempliamo le cose spirituali come se ci fossero poste dinanzi agli occhi, giacchè è piaciuto al Signore di rappresentarcele sotto quelle figure. Non già che quelle grazie siano legate o rinchiuse nel sacramento o che ci siano conferite in virtù d'esso; ma solo perchè il Signore, per mezzo di un segno, ci attesta la sua volontà di darci tutte quelle cose».
7. La nostra lingua, i nostri occhi, le nostre mani, i nostri piedi, tutte le nostre membra sono armi che non sono mai neutrali. Servono al peccato o a Dio: sono armi d'ingiustizia o di giustizia. La parola e la penna d'un Paolo, quanto ha servito allo stabilimento del regno di Dio nel mondo! Si rifletta quanto male ha potuto fare colle stesse armi un Voltaire. In sfera più modesta, ognuno può combattere il buon combattimento con quelle armi di cui Dio lo ha fornito e che sono le membra.
8. «Se il peccato regna sul corpo, la pretesa indipendenza dello spirito non è se non lo sterile sforzo di una disordinata immaginazione, senza influenza sulla volontà, quindi senza moralità. Se, per contro (caso più frequente), si crede di vincere il male morale con macerazioni del corpo, è una illusione non meno funesta, per cui resta intatta la vera sede del peccato che si svilupperà sotto le forme diverse dell'egoismo e dell'orgoglio» (Bonnet). Così la Parola di Dio ci mette in guardia contro gli errori di destra e di sinistra.
9. Sotto la grazia è non solo possibile, ma certa la vittoria sul peccato. Lungi dal favorire il male, la grazia di Dio ch'è santità, lo sradica ed estirpa dal cuore del credente.
15 §2 - Lo stato di grazia, nell'unione con Cristo, assicura l'ubbidienza del cuore rinnovato a Dio; mentre il cessato regime della legge era impotente a dar la vittoria sul peccato, di cui, anzi, provocava la manifestazione (Romani 6:15-7:25)
L'entrare in unione con Cristo segna la rottura definitiva col peccato ed il principio d'una vita nuova. Questa vita nuova deve trionfare, perchè lo stato di grazia in cui è entrato il credente è garanzia di vittoria sul peccato che tenta sempre di ricondurre alla sua ubbidienza coloro che han disertato la sua bandiera. Con questa osservazione Paolo prendeva il toro per le corna; poichè egli non ignorava che il regime della grazia veniva da molti riguardato come favorevole alla libertà del peccare, mentre quello rigido della legge si giudicava per lo meno atto a frenare il male. L'Apostolo solleva egli stesso l'obbiezione dei giudaizzanti contro il Vangelo della grazia. E, confutandola, stabilisce che l'esser sotto la grazia è garanzia di vittoria, perchè implica una volontaria sottomissione del credente alla giustizia morale chè la via della vita Romani 6:15-23; perchè il credente, affrancato dal giogo della legge, mediante la morte di Cristo, è unito al Cristo vivente come la sposa al suo sposo, per portar dei frutti alla gloria di Dio Romani 7:1-6. Invece, il vecchio regime legale non ha avuto, malgrado la bontà intrinseca della legge, altro effetto che quello negativo di provocare lo sviluppo del peccato e di dimostrare la impotenza dell'uomo a scuoterne, da sè, il giogo Romani 7:7-25. Talchè, se l'esser sotto la grazia vuol dire servire di cuore e con spirito di amore al bene, mentre l'esser sotto la legge equivale ad esser servi, per quanto riluttanti, del male, resta dimostrata la superiorità della grazia in Cristo per la santificazione.
SEZIONE A Romani 6:15-23 Chi riceve il Vangelo della grazia si pone volontariamente al servizio della giustizia
Che dunque? Siamo noi per peccare (testo emend.) perchè non siamo sotto la legge, ma sotto la grazia? Così non sia.
Questa domanda riproduce in forma più attenuata l'obbiezione Romani 3:8,31; 6:1, la quale, in pari tempo, è una tentazione che l'avversario delle anime va insinuando sempre nel cuore dei credenti. «C'è un sottil veleno che s'insinua nel cuore del migliore tra i cristiani e sta nel dire, non già: pecchiamo affinchè la grazia abbondi; ma: perchè la grazia abbonda. Non si tratta già d'un odioso calcolo, ma di semplice rilassatezza» (Vinet). Il non essere sotto la tutela della legge, ma sotto la grazia, è stato di libertà fatto per chi è giunto all'età maggiore (cfr. Galati 4). Ma questa libertà equivale essa all'essere sciolti da ogni obbligo morale? «La libertà assoluta non può esser la condizione dell'uomo. Siamo fatti non per dare a noi stessi un principio morale qualunque, di nostra propria creazione, ma semplicemente per aderire all'una delle due potenze morali opposte, che ci sollecitano» (Godet). Cfr. Matteo 6:24. Ora, nella vita ordinaria, quando uno si pone, al servizio d'un altro per prestargli ubbidienza; esso è servo di colui al quale egli ubbidisce. Con un atto di libertà iniziale e decisivo, esso ha, in certo modo, impegnata la sua libertà e volontà per un tempo più o meno lungo, talvolta per la vita. Nel caso dei cristiani, la fede in Cristo suggellata nel battesimo è stata, nella lor vita, l'atto decisivo col quale hanno rotto ogni relazione col padrone sotto al quale erano nati, il peccato, per darsi a Dio.
16 Non sapete voi che se vi date a uno come servi per ubbidirgli, siete, servi di colui a cui ubbidite: o del peccato che mena alla morte,
in tutti i sensi: morale, fisico ed eterno,
o dell'ubbidienza che mena alla giustizia?
Il peccato è disubbidienza Romani 5:19; chi lo rinnega, prende partito per l'ubbidienza a Dio che include la fede Romani 1:5; 15:18; 10:3 e che fa capo alla giustizia morale praticata con crescente fedeltà, e in fine, alla vita perfetta ed eterna. Posti, dalla predicazione evangelica, nel caso di scegliere tra i due padroni: il peccato cui avevano servito fino allora, e la giustizia cui li impegnava, la fede, i Romani, avevano volontariamente scelto il secondo. Per questa loro conversione a Cristo, Paolo rende grazie a Dio.
17 Ma sia ringraziato Iddio, ch'eravate bensì servi del peccato, ma avete di cuore ubbidito a quel tenore d'insegnamento che. v'è stato trasmesso;
Il tipo o tenore (cfr. Atti 23:25; 2Timoteo 1:13) dell'insegnamento dato dagli Evangelisti che aveano fondato la chiesa di Roma, è l'Evangelo della grazia quale Paolo lo predicava. Le sue dottrine avevano carattere ben definito. Dice letteralmente: il tipo d'insegnamento «al quale siete stati consegnati, o dati in mano». S'intende: sotto all'influenza del quale siete stati collocati per opera della Provvidenza di Dio e per l'opera interna dello Spirito di Dio che, ha resa efficace la parola del Vangelo. Ovvero, si può rendere semplicemente: «che vi è stato trasmesso».
18 ed essendo stati affrancati dal peccato,
in virtù della fede che vi ha uniti a Cristo,
siete divenuti servi della giustizia.
Emancipati dal peccato, essi non sono, secondo la massima posta in Romani 6:16, rimasti senza padrone, in istato di neutralità morale; ma sono stati fatti servi della giustizia. La loro conversione è stata un cambiamento di padrone; hanno lasciato il cattivo per darsi al buono. «Paolo è Così giunto a ritrovare una legge nella grazia stessa; ma una legge interna e spirituale come tutto l'Evangelo suo» (Godet).
19 L'espressione «fatti servi o schiavi della giustizia» l'Apostolo l'adopera a malincuore. Il servire alla giustizia ch'è la volontà di Dio, è infatti la destinazione dell'uomo; quindi l'esser posti in condizione di realizzarla, non è già schiavitù, ma libertà vera e gloriosa. Se dunque si è, servito di quella espressione, è stato per far intender meglio il suo pensiero: cioè l'incompatibilità tra il peccato e in situazione morale in cui si sono volontariamente collocati i cristiani colla loro conversione. Dicendo così
io parlo alla maniera degli uomini:
mi servo di immagini tolte dalla vita quotidiana,
a motivo della debolezza della vostra carne;
cioè: a motivo della debolezza d'intendimento inerente alla decaduta natura umana e che rende difficile anche ai credenti (specie al principio della carriera) l'afferrare le verità spirituali più profonde quando non siano vestite di forme tolte dalla vita terrena. Gesù si servì di parabole ed ebbe a dire ai suoi che molte cose «non erano per loro alla portata». Cfr. 1Corinzi 3:1.
Poichè,
praticamente, l'immagine di cui mi servo, torna a dir questo:
come già prestaste le vostre membra a servizio dell'impurità
(peccato cui si erano abbandonati i pagani, Romani 1),
e,
in genere
dell'iniquità, per commetter l'iniquità,
lett. per l'iniq. per arrivare cioè a una perversione crescente del vostro carattere, per ingolfarvi sempre più profondamente nel male,
così, prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia, per la vostra santificazione.
Lett. a santif. (cfr. 1Pietro 4:1-4). Non devono esser meno zelanti al servizio del bene di quel che lo siano stati al servizio del male. Ed al servizio del bene ha per primo risultato il nostro diventar migliori. Santificazione è il processo graduale verso la perfetta santità. Però, se questo è il frutto presente del servizio della giustizia, come l'iniquità è il frutto del servizio del male, c'è al di là del presente, un fine cui ciascuna delle due vie opposte fa capo. L'accenno a queste conseguenze ultime servirà a porre in risalto l'eccellenza della, via, per la quale i Romani si sono posti e seguitano a camminare pare, sorretti dalla grazia.
20 Quando, infatti, eravate servi
(o schiavi)
del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia.
avevate questa bella libertà di non dipendere per nulla dalla giustizia, d'essere estranei, di fatto alla sua autorità. «Il senso del giusto non intralciava affatto l'esercizio della lor libertà e l'appagamento dei loro gusti. Quella onorevole soggezione, essi non la conoscevano. Secondo il detto della Scrittura., bevevano il peccato, come l'acqua» (Godet). Come vi sono per l'uomo due sorta di servitù vi sono del pari due specie di libertà. Qual'è il frutto presente e qual'è il fine ultimo di queste due servitù e delle due corrispondenti libertà? Paolo pone ai lettori la domanda, non perchè dubiti della lor risposta, ma per appellarsene alla loro esperienza e così indirettamente confermarli.
21 Qual frutto, adunque, avevate allora dalle cose di cui ora vi vergognate?
Altri punteggia così: Qual frutto avevate voi allora? Delle cose di cui ora vi vergognate - un frutto cioè pessimo, vergognoso. Meglio, però leggere come il Diodati e gran parte dei moderni. Se non c'è una risposta esplicita alla domanda, essa risulta: dal modo stesso in cui Paolo pone la questione. Qual profitto morale poteva mai derivare da cose che, ora al solo pensarci coprono di vergogna i convertiti? Manifestamente nessuno. Paolo parla del frutto dello spirito Galati 5:22, del frutto della luce Efesini 5:9; ma le opere delle tenebre sono, per loro natura, «senza frutto» (ivi; cfr. Giacomo 3:18; Romani 1:13; Filippesi 1:11,22; 4:17; Ebrei 12:11, ove la nozione del frutto è applicata al bene. Cfr. Meyer).
Poichè la fine loro è la morte.
Quel che ha per fine ultima la morte eterna, la perdizione, non può esser nel presente profittevole all'uomo. Quanto diverso il risultato presente e la fine ultima del servizio cui si sono impegnati unendosi a Cristo!
22 Ma ora, essendo stati affrancati dal peccato, e fatti invece servi di Dio, voi avete per frutto
(fin d'ora)
la vostra santificazione,
il fare sempre nuovi progressi su quella via;
e per fine la vita eterna.
che include santità, felicità e gloria perfette. A questo conduce la grazia sotto alla quale essi han cercato rifugio e seguitano a stare;
23 poichè, il salarlo del peccato è la morte, ma il dono
(dono di grazia)
di Dio è la vita eterna,
e quel dono ci è fatto
in Cristo Gesù, nostro signore.
Salario significa nell'originale il soldo in natura od in denaro che pagavasi ai militari Luca 3:14; 1Corinzi 9:7; 2Corinzi 11:8. Chi milita al servizio del peccato riceve per paga, in virtù della giusta legge di Dio, la morte nel senso più esteso; mentre, a chi crede in Cristo, è assicurato il dono della vita eterna che l'uomo non potrebbe mai per meriti propri, acquistarsi. Quel dono per eccellenza è in Cristo, poichè nel suo sacrificio per noi abbiamo la riconciliazione, e nell'unione con lui la vita nuova ed a suo tempo la gloria.
RIFLESSIONI
1. Non vi sono che due padroni possibili per l'uomo: il peccato o la giustizia, Satana o Dio. Al servizio dell'uno o dell'altro è necessariamente impegnata e adoperata la vita. «Voi non potete servire a due padroni», ha detto Cristo. «Chi non è per me è contro di me». Neutralità o indipendenza morale non è possibile.
2. Lo stato di grazia è uno stato di aperta guerra contro al peccato e di volontaria consacrazione a giustizia, ossia a Dio. Tale è fin dal suo principio: tale deve essere, in modo, sempre più assoluto, fino alla finale vittoria.
Vi si entra con un atto d'ubbidienza del cuore all'Evangelo, vi si continua nell'ubbidienza alla giustizia. Colla conversione si voltano le spalle al peccato, colla santificazione lo si combatte, lo si estirpa dal cuore e dalla vita. Il tornare sotto al giogo del peccato è un tornare al vomito, un rinnegare la propria conversione, un uscire dallo stato di grazia. L'esperienza d'ogni cristiano attesta che la sua conversione è stata un mutamento di dizione morale. Ricordiamo le prime, emozioni, le lotte, i santi impegni della nostra conversione e sia l'opera morale di ogni giorno una conferma di quella decisione.
3. Finchè soltanto l'intelletto assente alle verità evangeliche, non c'è vera conversione. Convien che vi sia, come nei Romani, ubbidienza di cuore all'Evangelo conosciuto colla mente. Molto si parla di cambiamento di religione. Il cambiamento essenziale sta nel lasciare la schiavitù del peccato per divenire di cuore servi di Dio.
4. Le conseguenze del peccato nel presente, fanno presentire la fine alla quale esso mena il peccatore; mentre il benefico e sano frutto del servizio di Dio fa presentire altresì che alla fine, trovasi la vita eterna. Nei risultati presenti e visibili, da noi stessi in parte sperimentati, del servizio del peccato e di quello della giustizia, sta una costante esortazione a scegliere la via stretta che mena alla vita o a perseverare fedelmente in essa, quando già vi siamo entrati. «Anche se consideriamo solo la nostra presente felicità, faremo bene ad abbandonare il servizio del peccato. Poichè per quanto il frutto proibito sembri, a vederlo, di sapore gradevole, dobbiam presto riconoscere che il peccato non produce se non timori, tormenti e tribolazioni. Non c'è nè pace, nè riposo, nè gioia ove dominano le malvagie inclinazioni... Quale felicità può esservi per chi è in balia delle proprie passioni? Egli è lo schiavo della collera, dell'orgoglio, della gelosia, della concupiscenza o di tal altro colpevole sentimento che lo tiranneggia. E se leviamo lo sguardo verso l'eternità che si avvicina, quanto più serie ci parranno le conseguenze del nostro peccato! Siamo esseri immortali; gettiamo sulla terra il seme di cui raccoglieremo il frutto nell'eternità... Quanto diversa la posizione di coloro che, affrancati dal peccato, sono diventati servi di Dio!» (Anon.).