1 Giovanni 5
PARTE TERZA

LA FEDE IN GESÙ: LE SUE CONSEGUENZE ED IL SUO FONDAMENTO


1Giovanni 5:1-21

Lo scritto di Giovanni non contiene distinzioni ben marcate tra le parti che lo compongono e, quindi, le transizioni tra lo svolgimento di due serie di pensieri avviene per lo più in modo quasi inavvertito. I due primi versetti Del quinto capitolo sono, infatti, da alcuni esegeti, connessi con quel che precede, perchè vi si ragiona ancora dell'amore per i fratelli. Ma, d'altra parte, si sente già qui la nota dominante dell'ultima parte dell'Epistola, cioè quella della fede in Gesù qual Messia e Figliuol di Dio. Di questa fede l'autore espone, in una rapida serie di pensieri le conseguenze ed il fondamento divino.

Sezione Prima. 1Giovanni 5:12. LA FEDE IN CRISTO COSTITUISCE I CREDENTI FIGLI DI DIO E FRATELLI GLI UNI DEGLI ALTRI

'Il v. 1 mostra che il credente, essendo nato da Dio, ama necessariamente il proprio fratello. I due elementi fondamentali della vita cristiana, la fede e l'amore, sono qui presentati nella loro sostanziale unità' (Huther).

Chiunque crede che Gesù è il Cristo è nato da Dio;

In 1Giovanni 4:15, l'autore avea detto: "Chi avrà confessato che Gesù è il Figliuol di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio"; e in 1Giovanni 5:5 dirà: "Chi è che vince il mondo se non colui che crede che Gesù è il Figliuol di Dio?" Per Giovanni, Gesù non potrebbe essere il Messia se non fosse il Figliuol di Dio: e, infatti, come potrebbe egli essere il Profeta, il Sacerdote e il Re perfetto, se non in virtù della sua natura divina? Chi crede di cuore in Gesù quale Messia o Cristo venuto da presso a Dio a salvare, è nato da Dio, è figlio di Dio. Ritroviamo qui il pensiero espresso nel Vangelo Giovanni 1:12-13: "A quanti l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figliuoli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non son nati da sangue, nè da volontà di carne, nè da volontà d'uomo, ma son nati da Dio". La fede li unisce a Cristo e li costituisce figliuoli di Dio; ma più che un diritto, essi ricevon una natura nuova, un germe di vita divina che li fa essere, in certa, guisa, partecipi della natura divina, membri effettivi della famiglia di Dio e quindi, fratelli di tutti coloro che Dio ha adottati a figli suoi. Segue la conseguenza pratica:

e chiunque ama Colui che ha generato,

cioè Dio,

ama anche chi è stato da lui generato,

cioè, gli altri credenti nel Salvatore. Se c'è nella famiglia terrestre affetto filiale verso i genitori e affetto fraterno tra i nati dagli stessi genitori, molto più devono esistere simili affetti nella sfera superiore della parentela spirituale ch'è più profonda e più duratura di quella carnale.

Da questo conosciamo che amiamo i figliuoli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.

Altrove 1Giovanni 2:3; 3:23, l'apostolo ha dato l'osservanza dei comandamenti fra cui, principale, l'amore per i fratelli, come segno certo che uno conosce veramente Iddio, ch'è quanto dire: ama Dio; qui invece, egli dà l'amore per Dio e la conseguente osservanza dei comandamenti come segno da cui uno conosce che ama veramente i figliuoli di Dio, cioè i propri fratelli. Da questo fatto appare quanto inseparabili siano l'amor di Dio e l'amor dei figli di Dio. La presenza dell'uno è segno certo della presenza dell'altro; l'assenza dell'uno implica l'assenza dell'altro. Sono, in fondo, uno medesimo amore perchè l'amor per i fratelli rampolla necessariamente dall'amore per Dio di cui sono figli. Chi ama Dio e mostra la sincerità del suo amore coll'ubbidienza ai comandamenti di Dio, deve amar i figli di Dio che son da Dio amati e che son partecipi della di lui natura. Chi ama veramente i fratelli, non li ama per i loro pregi esterni e all'infuori della loro relazione con Dio; ma li ama in Dio, perchè son figli di Dio; li ama, nonostante le loro attuali imperfezioni, per amor di Dio e in vista di Dio. È questo il fondamento più saldo e più duraturo dell'amor fraterno.

Sezione Seconda. 1Giovanni 5:3-5. LA FEDE CI RENDE CAPACI D'OSSERVARE I COMANDAMENTI DI DIO E DI VINCERE IL MONDO

Perchè questo è l'amor di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti.

Questa osservazione è occasionata dal fatto che in 1Giovanni 5:2, l'autore ha unito l'amor di Dio all'osservanza dei comandamenti. Le due cose non ne formano che una sola; non esiste un amor disubbidiente; i comandamenti danno l'occasione di mostrare che uno ama Dio. Ed aggiunge a mo' d'incoraggiamento:

e i suoi comandamenti non son gravosi.

Per chi ama Dio i suoi comandamenti non han l'effetto di un peso insopportabile da cui uno resta oppresso; ma, come Gesù lo disse Matteo 11:30, sono un "giogo dolce e un carico leggero". Il cristiano ne comprende la giustizia, la santità, l'utilità, la bellezza, il fine buono, ne vede o ne intuisce le conseguenze benefiche; egli impara a "conoscere per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà" Romani 12:2. I comandamenti di Dio gli son dolci al cuore come il miele al palato e trova gioia nell'osservarli (Cfr. Salmi 119).

La ragione sta in questo:

poichè tutto quel ch'è nato da Dio vince il mondo.

La natura nuova creata da Dio nel credente ristabilisce in lui l'immagine di Dio, lo riconduce allo stato normale che Dio aveva in vista creando l'uomo. La legge di Dio è scritta dallo Spirito sulle tavole del cuore rinnovato, e l'osservarla gli diventa cosa naturale, cosa facile. I comandamenti diventano per lui, non una legge imposta dal di fuori, ma una legge di libertà che si osserva con gioia. Idealmente è questo il caso per tutto quel ch'è nato da Dio, cioè per la totalità dei rigenerati a vita nuova: Ma a questo risultato non si giunge senza lotta col mondo del male ch'è la potenza avversa, contrastante allo sviluppo della vita cristiana nei figli di Dio. Il mondo abbraccia non solo gli uomini estranei alla vita divina, ma comprende qui anche le tendenze malvagie della nostra propria natura, le concupiscenze di vario genere accennate in 1Giovanni 2:16. Chi è nato da Dio vince il mondo in proporzione dell'energia di vita divina ch'è in lui. A misura che la vita nuova prende il sopravvento, i comandamenti di Dio diventan più facili, perchè quel che li rende gravosi non è altro che la vecchia natura, "la carne" Romani 7 che ancor rimane nel credente e che rende doloroso e tragico il conflitto. Il vecchio uomo che rappresenta il mondo in noi ha da esser fatto morire. Ma la vittoria è ad ogni modo assicurata al figliuol di Dio.

E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.

L'espressione insolita: la vittoria che ha vinto torna a dire questa è la forza attiva, l'energia di vita spirituale che ha riportato, fin dalla battaglia che iniziò la nostra carriera cristiana (cfr. 1Giovanni 2:13-14), e che continua a riportare la vittoria sul mondo, sui suoi principi, sulle sue tendenze, sui suoi dispregi, sulle sue persecuzioni, come sui suoi piaceri ed allettamenti. E la nostra fede di cristiani; se la serbiamo fino alla fine, ci darà la vittoria definitiva sul male. Paolo lo sentiva quando sul finir della sua carriera scriveva: "Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbata la fede: del rimanente mi è riserbata la corona di giustizia..." 2Timoteo 4:7-8.

E qui Giovanni può, in tono di trionfo, fare appello all'esperienza:

Chi è colui che vince il mondo, se non colui che crede che Gesù è il Figliuol di Dio?

"Percorrete il mondo intero, esclama un antico commentatore, e mostratemi un sol uomo del quale si possa dire che vince il mondo, e che non sia, cristiano e munito di questa fede!" La ragione di un tal fatto sta in questo: che la fede unisce il credente a Gesù, il Figliuol di Dio, che è più potente di colui ch'è nel mondo, che ha vinto per proprio conto il principe di questo mondo ed ha promesso di dare la vittoria anche ai suoi Giovanni 14:30; 16:33. In Lui e con Lui vincono i credenti. "Io posso, ogni cosa, dice Paolo, in Colui che mi fortifica". "Fuor di me, dice Cristo, non potete far nulla". "Uno solo, nella storia, ha vinto il mondo ed egli non era del mondo ma da Dio. Chi sta saldo su quella roccia, non è sommerso dai flutti del mondo" (Schlatter).

AMMAESTRAMENTI

1. Sono da notare alcune cose importanti intorno alla fede quale ce la presenta Giovanni in 1Giovanni 5:1-5.
Anzitutto l'oggetto della fede non è semplicemente una dottrina che si afferri coll'intelletto, ma è una persona vivente, umana e divina: Gesù, il Figliuol di Dio, il Cristo venuto nel mondo a salvare i peccatori.
La fede in Gesù ha per primo effetto insieme colla pace del perdono, un principio di vita nuova. Cristo che è la vita comunica la vita spirituale. "Chiunque crede... è nato da Dio" e come tale non trova gravosi i comandamenti di Dio.
La fede in Gesù che ci assicura la riconciliazione col Padre, è accompagnata dall'amore filiale verso Colui che ci ha ricevuti quali figli suoi, e in pari tempo dall'amore fraterno per i figli di Dio. Essa è operante per mezzo dell'amore.
La fede nel Figliuol di Dio è fede vittoriosa sul mondo e sul peccato in noi medesimi. Non che una tal vittoria si ottenga d'un tratto, o si ottenga senza lotta, senza vigilanza, senza rinunziamenti e senza dolori; ma si ottiene, come lo prova l'esperienza dei credenti sinceri di tutti i tempi.
Se la nostra fede non è accompagnata da una vita nuova di amore per Dio e per i nostri fratelli; se la nostra fede non è vittoriosa sul male in noi e intorno a noi, vuol dire ch'essa o non è genuina o è profondamente anemica. La fede che ci unisce al glorioso Figliuol di Dio venuto a distruggere le opere del diavolo e a stabilire il regno di Dio abbattendo tutti i nemici, è fede dall'accento non dubbioso e timido, ma dall'accento e dall'atteggiamento trionfatore. Non che da per noi stessi possediamo la forza vittoriosa; ma "siamo più che vincitori in colui che ci ha amati" Romani 8. Se la cristianità fosse animata della fede di cui discorre l'apostolo, quali vittorie non potrebbe ella riportare alla gloria di Dio e del suo Cristo?

Sezione terza. 1Giovanni 5:6-12. LA FEDE IN CRISTO, FONDATA SU DI UNA TRIPLICE TESTIMONIANZA PROVVEDUTA DA DIO, CI ASSICURA LA VITA ETERNA

1Giovanni 5:6-8 sono da annoverare fra i passi del N.T. che hanno dato luogo alle più vive controversie e alla maggior varietà d'interpretazioni. La controversia relativa all'autenticità del così detto Comma Iohanneum (v. 5:7b-8a) si può dire oramai definitivamente risolta, salvo per una frazione della chiesa romana. Il testo ordinario (receptus) recava v. 7: «Poichè tre son quelli che rendon testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito santo; e questi tre sono una stessa cosa. v. 8. Tre ancora son quelli che rendon testimonianza sulla terra: lo Spirito, l'acqua e il sangue...» Le parole in corsivo e che costituiscono il Comma sono oggi ritenute inautentiche da tutti i maggiori critici del testo; Griesbach, Lachmann, Tischendorf, Tregelles, Westcott & Hort, Nestle, ecc. Le versioni moderne inglesi, francesi, italiane ecc. le hanno eliminate dal testo. Vero è che una decisione del S. Uffizio del 13 Gennaio 1897, confermata da Leone XIII, dichiarava non esser lecito «negare o anche solo mettere in dubbio l'autenticità del testo» in questione; e la decisione è conforme al canone tridentino che dichiara la Vulgata sola autentica; ma non è in potere di alcuna autorità ecclesiastica di distruggere i fatti sui quali poggia il verdetto della critica biblica. E i fatti sono questi: Nessun codice unciale del N.T. porta la minima traccia del comma; nessuna versione antica lo contiene ed anche la Vulgata, nei due manoscritti più antichi che se ne hanno, l'amiatinus del 541 e l'harlejanus del 7° secolo non lo porta; solo due msc. minuscoli, sopra un 200 che contengono l'epistola, hanno il comma, e quei due sono del principio del XVI secolo. Nessun padre della chiesa greca cita il passo o vi allude, sebbene non ne mancasse l'occasione specialmente nelle dispute ariane e trinitarie. I più autorevoli padri latini: Ilario, Novaziano, Ambrogio, Gerolamo, Agostino ecc. non vi alludono. Secondo le ricerche del Dr. Künstle pubblicate nel 1905, il comma sarebbe comparso come glossa o interpretazione della parte autentica, in Ispagna, verso il 390, per opera di Priscilliano. La glossa marginale che rispondeva all'opinione di Cipriano (+ 258) e di Agostino, sarebbe poi passata dal margine nel testo latino del N.T. Non lo si trova citato fino al 5° secolo, in Vigilio di Thapsus. La prima comparsa del passo in veste greca risale alla Complutense del card. Ximenes (1514). Erasmo nelle due prime edizioni del N.T. greco, 1516 e 1518, come pure Aldo Manuzio nell'edizione veneziana del 1518, non lo includono nel testo. Lutero non l'introdusse nella sua versione. Nella edizione erasmiana del 1522 venne stampato, perchè Erasmo s'era impegnato a riprodurlo se gli si mostrava un solo manoscritto che lo contenesse e siccome gli si fece vedere un msc. minuscolo britannico che lo portava, egli lo stampò e d'allora in poi fu riprodotto, finchè la critica del testo non ebbe dimostrata, in modo assoluto, la sua inautenticità.

Quanto all'interpretazione del testo autentico di 1Giovanni 5:6-8, sono da scartare non poche opinioni che non rispondono allo scopo della sezione o fanno violenza alle parole stesse dell'apostolo. Ad esempio, quando nell'acqua e nel sangue si son veduti i due elementi della vita fisica di Gesù, o quando nell'acqua s'è veduta simboleggiata la vita purissima di Cristo o la santa dottrina congiunta alla vita; o quando vi si è veduto semplicemente una allusione al sangue e all'acqua che usciron dal costato di Gesù, come narra Giovanni nel Vangelo Giovanni 19:34, o quando si scorge nell'acqua il sacramento del battesimo e nel sangue quello della S. Cena, sebbene i due sacramenti cristiani non siano mai designati nel N. T: coi due termini di acqua e sangue senz'altro. Inoltre quei due riti istituiti da Cristo sul finire del proprio ministerio non costituiscono, per se stessi, delle prove della messianità di Gesù. Ora le parole di Giovanni mirano appunto a dimostrare come la fede in Gesù qual Messia e Figliuol di Dio, poggi sopra un fondamento saldo.

Questi,

l'oggetto della nostra fede,

colui ch'è venuto con acqua e con sangue, cioè Gesù il Cristo,

il Messia promesso ab antico, il quale era presso Dio qual suo diletto Figliuolo ed è venuto nel mondo, a suo tempo, «affinchè chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna». È venuto con acqua e sangue. Due proposizioni sono usate in questo verso nell'originale e rese ambedue coll'italiano con. La prima (δια col genit.) vale letteralmente per mezzo dio fra mezzo a, la seconda (εν) vale: in e con. Ambedue accennano alle credenziali di fatto colle quali Gesù si è presentato nel mondo quale vero Messia. Abbiamo le due stesse preposizioni in Ebrei 9:12,25: «Ma venuto Cristo, sommo Sacerdote dei futuri beni... e non mediante il sangue di becchi... ma mediante il proprio sangue, è entrato»... "entra nel santuario con sangue non suo..."
Storicamente è vero che Gesù è stato solennemente introdotto nel suo ufficio messianico mediante il battesimo d'acqua di Giovanni Battista, da lui accettato per solidarietà colla razza peccatrice. E in quell'occasione lo Spirito scese su di lui e il Padre dichiarò che Gesù era il suo diletto Figliuolo. Dopo quella consacrazione, il Battista lo proclamò apertamente "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", "colui che battezza con lo Spirito Santo", "il Figliuol di Dio" Giovanni 1. Ma se Gesù "è venuto con acqua" quando si trattava d'inaugurare l'opera sua, "è venuto con sangue" quando si trattò di coronare l'opera sua col sacrifizio di se stesso; e il Getsemani vide scender dalla sua fronte il sudor sanguigno, e il pretorio vide zampillare il sangue sotto la corona di spine e la croce fu bagnata del sangue uscito dalle mani e dai piedi inchiodati e dal costato aperto dalla lancia del soldato. Fu allora che Gesù potè gridare: "Tutto è compiuto" e poi rendè lo spirito. Nè mancarono i fenomeni straordinari ad attestare che quella morte era la morte del Giusto, tanto che il centurione pagano, ebbe ad esclamare: «Veramente, quest'uomo era Figliuol di Dio» Marco 15:39. La risurrezione di Cristo, al terzo giorno, confermò gloriosamente la testimonianza del centurione; e lo Spirito S. sceso alla Pentecoste sui discepoli, venne ad adempier la promessa fatta loro da Cristo prima della sua morte: «Ma quando sarà venuto il Consolatore che io vi manderò da parte del Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli testimonierà di me; e anche voi mi renderete testimonianza...» Giovanni 15:26. Nè solo per mezzo degli apostoli lo Spirito attestò che Gesù è il Cristo, ma per mezzo di tutti i credenti che lo ricevevano al loro battesimo ed in ispecie per mezzo dei credenti a cui lo Spirito comunicava dei doni miracolosi o cariami: Nessuno, parlando per lo Spirito di Dio, diceva: Gesù è anatema! e nessuno poteva dire: Gesù è il Signore, se non per lo Spirito Santo (Cfr. 1Corinzi 5:2-3). Così, dal lato storico, si spiega anche il seguito del v. 6:

non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e col sangue. E lo Spirito è colui che ne rende testimonianza, perchè lo Spirito è la verità.

verità in se stesso e attesta la verità. Lo Spirito, per mezzo degli organi da lui scelti, ha proclamato che Gesù, introdotto solennemente nell'ufficio in occasione del battesimo di Giovanni, e resosi ubbidiente alla volontà del Padre fino alla morte in croce, Gesù è il Messia, il Salvatore del mondo.
Tuttavia, per quanto valenti interpreti si fermino ai fatti storici ora accennati, nell'interpretare i versi 1Giovanni 5:6-8, non possiamo tacere la convinzione che questa interpretazione è lungi dall'esaurire il senso delle parole di Giovanni, la cui mente contemplativa era avvezza ad adombrare grandi verità mediante simboli esterni. Tenendo conto di quanto già notarono Clemente Aless. (2° secolo), Calvino nel 16° ed altri ancora, non ci pare dubbio che l'apostolo. quando chiama Gesù "colui ch'è venuto con l'acqua e col sangue", ha inteso caratterizzarlo come il vero Messia promesso, che ha recato al mondo le realtà spirituali, adombrate nei simboli dell'antica legge rituale, promesse nei profeti, esposte da Cristo e dai suoi apostoli nel loro insegnamento, e ricordate continuamente alla Chiesa nei suoi sacramenti. Queste realtà spirituali che sono la purificazione delle anime dalla sozzura del peccato e la loro liberazione dalla colpa mediante l'espiazione della croce, costituiscono i due aspetti essenziali della salvezza recata da Cristo e lo proclamano, col fatto, meglio di ogni prova esterna, il Salvatore divino che dovea venire. Appunto perchè Cristo è per gli uomini la fonte di quei beni inestimabili, Giovanni era rimasto colpito dal fenomeno verificatosi sulla croce, quando un soldato avea forato colla lancia il costato di Gesù. Subito n'era uscito sangue ed acqua Giovanni 19:34. In quel sangue e in quell'acqua, più che la prova della morte reale di Gesù, Giovanni vede il simbolo dei beni spirituali che sgorgano dal sacrificio di Cristo.
Non è necessario metter qui in rilievo la parte essenziale che l'acqua ed il sangue avevano nei riti mosaici; non v'era contaminazione rituale che non dovesse essere purificata colle abluzioni, come non v'era colpa che non dovesse venir espiata col sangue delle vittime animali. "Senza spargimento di sangue non c'è remissione" Ebrei 9:22. Ora, come lo espone l'Ep. agli Ebrei, la legge non avea che "l'ombra dei futuri beni, non la realtà stessa delle cose" Ebrei 10:1; la realtà spirituale è stata recata da Cristo che mediante il proprio sangue ci ha acquistato una redenzione eterna. "Una sola volta, alla fine dei secoli, è stato manifestato per annullare il peccato col sacrificio di se stesso" Ebrei 9:26. Egli purifica la coscienza dal senso tormentoso della colpa e purifica il cuore dalla sozzura del peccato comunicandogli una vita nuova.
Nei profeti l'opera messianica è presentata pure come una purificazione dei cuori simboleggiata dall'acqua: «Spanderò su voi dell'acqua pura e sarete purificati; vi purificherò di tutte le vostre sozzure... vi darò un cuor nuovo» Ezechiele 37:25-28. E basta ricordare Isaia 53 per convincersi che il Messia dovea "venir col sangue", e "dar la propria vita come sacrifizio per il peccato" Isaia 53:10. Lo conferma l'ultimo dei profeti, Giovanni Battista, quando addita Gesù come "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo" Giovanni 1:29,37.
Gesù parla del "nascer d'acqua" e di Spirito, come di cosa necessaria per entrar nel regno di Dio; e a Pietro: "Se non ti lavo, gli dice, non hai meco parte alcuna"; e ancora: "Chi è lavato tutto non ha bisogno che d'aver lavati i piedi; è netto tutto quanto; e voi siete netti, ma non tutti" Giovanni 13:8-10. Della propria morte, egli parla di frequente, sopra tutto negli ultimi tempi del suo ministerio (Cfr. Giovanni 6; 10), e gli ultimi discorsi. Anche qui, dunque, l'acqua e il sangue stanno a significare le grazie della salvezza recata da Cristo. Sono così essenziali agli occhi suoi la grazia del perdono procurata dal sangue dell'espiazione e la grazia della rigenerazione dell'anima purificata dal peccato che la deturpa, che il Signore ha voluto che fossero raffigurate e ricordate del continuo alla Chiesa sotto i simboli del pane e del vino della S. Cena, e sotto il simbolo dell'acqua nel Battesimo, i due soli sacramenti istituiti da lui. Giovanni non allude a questi sacri riti nel passo che esaminiamo; ma non è men vero che il Battesimo e la S. Cena tengono presenti alla mente e al cuore dei fedeli le due grandi grazie spirituali recate al mondo dal Salvatore e rappresentate dall'acqua e dal sangue. La realtà di questi beni recati da Cristo all'anima credente è materia d'esperienza. Lo Spirito che convince di peccato, che produce pentimento e fede in Cristo, riempie l'anima di pace e le comunica una vita nuova ch'è vittoriosa sul mondo del male. Lo Spirito rende così nel cuore di ogni figlio di Dio testimonianza (cfr. 1Giovanni 5:10) alla potenza salutare che emana da Cristo e proclama coll'evidenza dei fatti che Gesù è il vero Messia. Egli è venuto coll'acqua e col sangue, purifica e rinnova i cuori, assicura il perdono alle coscienze; egli reca la realtà della salvazione; qual maggior prova ch'egli è il Salvatore promesso?

Poichè tre son quelli che rendon testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e i, tre sono concordi.

In senso proprio, il solo attivo e vivente Spirito è quel che testimonia; egli è che apre gli occhi della mente per comprendere il valore dell'acqua e del sangue considerati come credenziali storiche del Cristo; ed egli è che fa sentire e sperimentare al cuore le grazie spirituali simboleggiate dall'acqua e dal sangue. L'acqua ed il sangue, alla luce dello Spirito, diventano anch'essi dei testimoni che Gesù è il Cristo e così si hanno tre testimoni della verità. Due o tre, era il numero dei testimoni richiesti dalla legge.
Il greco dice letteralmente: i tre sono per un'unica cosa, cioè: convergono ad un unico punto, sono concordi nell'attestare la stessa verità, ch'è la messianità di Gesù.

e accettiamo la testimonianza degli uomini, maggiore è la testimonianza di Dio; e la testimonianza di Dio è quella ch'egli ha resa circa il suo Figliuolo.

Il ragionamento di Giovanni va dal minore al maggiore. Se, come avviene tutti i giorni davanti ai tribunali e nelle relazioni sociali, noi accettiamo come valida e degna di fede, anche in cose importantissime, la testimonianza degli uomini che pure sono peccatori e di limitate capacità, con molto maggior ragione dobbiamo accettare, quando si tratta della nostra salvezza, la testimonianza di Dio ch'è maggiore, che ha maggiore autorità, maggior competenza e maggior verità: Stando al testo emendato, la seconda parte del verso corre letteralmente così: poichè questa è la testimonianza di Dio, che [cioè] egli ha testimoniato... Il senso è: la testimonianza di Dio sta nel fatto ch'egli ha testimoniato circa il suo Figliuolo, mediante lo Spirito, l'acqua ed il sangue. Tutti i mezzi esterni ed interni, celesti e terrestri, di cui Dio si è valso per convincere gli uomini che Gesù è il Cristo, costituiscono la testimonianza di Dio relativamente al suo Figliuolo.

10 Chi crede nel Figliuol di Dio ha quella testimonianza in sè;

La testimonianza, di Dio ha per fine di crear nei cuori la fede nel suo Figliuolo; chi crede nel Figliuol di Dio ha nella sua propria esperienza personale la prova più convincente che Gesù è la fonte, della vita eterna; il credente ha in certa guisa sentito fluire dal costato di Cristo nella sua propria anima, la pace con Dio, insieme con una nuova vita. Egli può quindi, come i Samaritani divenuti credenti, esclamare: "Non è più a motivo di quello che tu ci hai detto, che crediamo; perchè abbiamo udito da noi, e sappiamo che questi è veramente il Salvator del mondo" Giovanni 4:42; o come il cieco nato che è stato guarito da Cristo: "Una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo". La testimonianza esterna è divenuta testimonianza interna, cosa d'esperienza per virtù dello Spirito della vita.

Chi non crede a Dio l'ha fatto bugiardo, perchè non ha creduto alla testimonianza che Dio, ha resa circa il proprio Figliuolo.

In 1Giovanni 1:10 l'autore s'è servito della stessa espressione per mettere in piena luce la colpa di chi, contrariamente alle dichiarazioni di Dio nelle Scritture, osa proclamarsi senza peccato. Qui fa risaltare la gravità del peccato di chi, nonostante tutte le prove somministrate da Dio circa il suo Figliuolo, osa negare la messianità di Gesù. Egli dà una insolente ed empia smentita alla verità attestata, da Dio medesimo.

11 E la testimonianza è questa: che Iddio vi ha data la vita eterna, e questa vita è nel suo Figliuolo.

Il contenuto essenziale della testimonianza divina è qui riassunto in una frase comprensiva, profonda e pur trasparente per semplicità. Essa risponde a quella di Paolo: "Il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore" Romani 6:23. La vita, nel senso suo più alto, vita spirituale, vita eterna, è nel suo Figliuolo in quanto egli è il Mediatore per mezzo del quale la vita è comunicata ai credenti. Questo hanno sperimentato Giovanni ed i cristiani ai quali scrive, e il fatto che nell'unione col Figliuolo hanno trovato la vita, dà una certezza assoluta alla loro fede.

12 Chi ha il Figliuolo ha la vita; chi non ha il Figliuolo di Dio, non ha la vita.

L'avere il Figliuolo è il possederlo per fede, l'essere uniti a lui. Aver la vita non significa il possederla immediatamente nella sua perfetta e gloriosa pienezza, ma il possederla però nella sua realtà, fin da questa terra. Si posson confrontare parole analoghe in Giovanni 3:16,36. Chi crede nel Figliuolo ha vita eterna; ma chi rifiuta di credere al Figliuolo non vedrà la vita, ma l'ira di Dio resta sopra lui" Giovanni 6:34-40; 11:25-27.

AMMAESTRAMENTI

1. La fede in Gesù, il Cristo, il Figliuol di Dio, la fonte della vita eterna, poggia sopra un saldo fondamento Gesù stesso parlando coi Giudei adduce parecchie prove della sua messianità e le chiama testimonianze. Cita la testimonianza di Giovanni Battista che l'avea battezzato con acqua ma l'avea veduto consacrato dal battesimo dello Spirito; cita la testimonianza del Padre, la testimonianza fornita dalle sue opere cioè dai suoi miracoli, la testimonianza delle Scritture. che s'adempiono in lui (Cfr. Giovanni 5), la sua propria santità perfetta. Ciononostante i Giudei, usando nel modo più tragicamente funesto della loro libertà, non credono in lui. Perchè? Perchè le prove della messianità di Gesù non possono essere sentite e comprese che dalle anime sincere, senza frode, disposte ad ubbidire alla verità, aspiranti a Dio e ad una vita superiore di pace, di giustizia, di amore; dalle anime, che, secondo l'espressione di Gesù, "sono da Dio", "insegnate da Dio", che "sono per la verità" e sono, quindi disposte ad accettarla, disposte a "venire a Cristo"; mentre chi "odia la luce" non vuol venire a lui per aver la vita. Le prove morali e religiose non sono efficaci che nei cuori ove esiste un certo grado di recettività morale e religiosa. Ciò non toglie che l'incredulità di fronte alla testimonianza divina relativa a Cristo, costituisca una grave colpa; tanto più grave quanto maggiore è stata la luce di verità goduta, e la perversità cosciente della resistenza.

2. Gesù è venuto coll'acqua e col sangue; egli ha recato la realtà simboleggiata dai riti della legge; egli ha, qual vittima propiziatoria, espiato il peccato del mondo sulla croce e ci ha assicurata la remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio; egli purifica le anime rinnovandole alla propria immagine. Questa è l'essenza dei benefizi che fluiscono da Cristo e da nessun altro: questa è l'essenza del cristianesimo; questo è che va predicato ai mondo e ripetuto ai credenti. Una vita che porti il suggello spirituale del sangue che assicura pace e dell'acqua che purifica da ogni sozzura è vita cristiana, e attesta coi fatti che Gesù è veramente il Salvatore mandato da Dio e che non v'è salvezza in alcun altro.

3. I due sacramenti istituiti da Cristo ricordano a tutte le età quali siano i supremi bisogni dell'anima umana e come a questi bisogni risponda l'opera salutare del Figliuol di Dio venuto coll'acqua e col sangue. Essi devono quindi essere celebrati con pia reverenza. Sono segni, son memoriali e suggelli delle grazie recate da Cristo e, se celebrati sotto l'influenza dello Spirito, riconducono del continuo al Salvatore i pensieri e gli affetti dei credenti. Chi, per fede, ha il Figliuolo, ha la vita. Più diventa profonda e completa l'esperienza che facciamo dei benefizi recatici da Cristo e più diventa incrollabile, assoluta, la certezza della nostra fede in lui.

13 Sezione Quarta. 1Giovanni 5:13-21. LA FEDE CI DA GRAN LIBERTÀ E FIDUCIA NELLA PREGHIERA

Io v'ho scritto queste cote affinchè sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figliuol di Dio.

Ha detto nei versi che precedono come Gesù il Figliuol di Dio venuto coll'acqua e col sangue è la fonte della vita per quelli che lo hanno nel cuore, mentre "chi non ha il Figliuolo non ha la vita". L'apostolo sa che i suoi lettori sono dei credenti e, come fin dal principio ha dichiarato che scriveva loro affinchè la loro è la sua allegrezza fosse compiuta 1Giovanni 1:4, così egli dichiara qui di aver scritto quanto precede affinchè i suoi fratelli possedessero in modo sempre più cosciente la certezza d'essere in possesso della vita eterna. Fra gl'interpreti, v'è chi riferisce il "queste cose" a tutta la lettera che Giovanni s'appresta a chiudere; mentre altri lo riferiscono soltanto alla terza sezione 1Giovanni 5:6-12 che precede immediatamente e nella quale si parla appunto della vita eterna data da Dio a chi crede nel Figliuolo. Quest'ultima riferenza è da preferire. I lettori sono insidiati nella loro fede dai falsi dottori e non esenti dalle tribolazioni della vita che possono oscurar la loro pace e la loro allegrezza; Giovanni col riaffermare il dono della vita eterna assicurato a chi crede, mira a rinsaldare la loro tranquilla e preziosa certezza riguardo alla cosa essenziale.

14 Con la certezza del possesso della vita eterna essi possono affrontar con calma le traversie della vita presente e guardar senza timore all'avvenire.

E questa è la confidanza che abbiamo in lui che se domandiamo qualcosa secondo la sua volontà, Egli ci esaudisce.

In 1Giovanni 3:21-22 l'autore dava come incoraggiamento all'amor fraterno sincero, l'accresciuta confidanza nella preghiera: «Diletti, se il cuor nostro non ci condanna, noi abbiam confidanza, dinanzi a Dio; e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da Lui...» Qui la confidanza nell'esaudimento della preghiera è intimamente connessa colla certezza di posseder la vita eterna mediante la fede in Cristo, quasi si potrebbe dire che fa parte di questa certezza perchè i due sentimenti poggiano sulla relazione intima, filiale tra il credente ed il suo Dio salvatore e Padre. C'è però una riserva circa le cose che possiam chiedere a Dio... devono essere secondo la sua volontà. Il credente ha ricevuto lo Spirito d'adozione per il quale grida: Abba, Padre. Ma quel medesimo Spirito, dice Paolo, «sovviene alla nostra debolezza, perchè noi non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili...» e "intercede per i santi secondo Iddio" Romani 8:26-27. La nostra debolezza può indurci a chieder cose che non sarebbero nè per il nostro bene nè per il bene altrui; ed è atto di bontà da parte di Dio il non esaudire siffatte domande; ma quando, sotto la guida dello Spirito, chiediamo cosa conforme ai disegni di Dio solo savio, ed è largo il campo, abbiamo la dolce confidanza ch'egli ci ascolta e ci esaudisce.

15 E se sappiamo ch'Egli ci esaudisce in quel che gli chiediamo, noi sappiamo di avere le cose che gli abbiamo domandate.

Non le vediamo, il più delle volte, perchè si tratta di grazie invisibili, come fede, amore, pazienza, sapienza, protezione, ecc.; ma ci è dolce aver la certezza che in una forma o in un'altra, Dio ha esaudite le nostre domande per noi, per i fratelli, per la sua chiesa nel mondo. Le preghiere del credente non sono fatte inutilmente e non sono un grido che si perda nello spazio.

16 Se uno vede il suo fratello commettere un peccato che non meni a morte, pregherà, e Dio gli darà la vita; a quelli, cioè, che commettono peccato che non meni a morte.

Come esempio di confidanza nella preghiera, Giovanni cita la preghiera d'intercessione per il fratello errante e pericolante, non per quello però che sia indurito nell'apostasia. Per fratello ha da intendersi come in tutta l'epistola, non il prossimo in genere per, il quale d'altronde è dovere di pregare (Cfr. 1Timoteo 2:1-7), ma il fratello in fede. Col dire: se alcuno vede... l'apostolo ammette non solo la possibilità della cosa (cfr. 1Giovanni 1:8-2:2), ma accenna a peccati che non sono soltanto di sentimento, ma che si rendono manifesti negli atti o nelle parole. Quando in questi versi paria di morte e di vita è evidente che non si tratta di morte corporale o di vita fisica, ma di morte spirituale che si prolunga nella morte eterna, e di vita spirituale ch'è quanto dire vita eterna. L'espressione dell'originale: "peccante un peccato" pare indicare non tanto un atto isolato quanto un complesso di atti, indizio di uno stato pericoloso, perchè il peccato è la negazione della vita di comunione con Dio; è l'azoto che la spegne. Di fronte a siffatta constatazione, il cristiano che ama il fratello e vive in relazione filiale col suo Dio, non può rimanere insensibile ed inerte ammonirà il fratello per ricondurlo sulla retta via e pregherà (letteralmente chiederà), farà una domanda speciale per il suo fratello affinchè Dio che opera sul cuore, gli mostri il suo peccato e gli dia di ravvedersi, restituendolo alla vita normale del cristiano. Il greco porta semplicemente: e gli darà da vita. Chi? Gli uni rispondono colui che prega, in quanto colla sua preghiera a Dio, diventa strumento per ridare al fratello la pienezza della vita di comunione col Padre. Altri rispondono Colui che dà la vita, anche se il soggetto è sottinteso, non può essere che Dio al quale è rivolta la preghiera. Più di una volta nell'Epistola, l'autore passa da un soggetto all'altro senza avvertirlo e il contesto è quello che deve guidare il lettore. Nei versi precedenti ha parlato di Dio che esaudisce le preghiere, di Dio che ci ha dato la vita eterna.
C'è però una restrizione circa l'esaudimento e l'utilità della preghiera a favore dei fratelli che peccano a morte.

V'è un peccato che mena a morte; non è per quello che dico di pregare.

17 Ogni iniquità

letteralmente ogni ingiustizia, cioè ogni atto morale non conforme alla santa e giusta legge di. Dio,

è peccato; e v'è un peccato che non mena a morte

necessariamente e senza possibile rimedio. Certo, il salario del peccato è la morte e se non fosse intervenuta la grazia di Dio e l'opera del Salvatore, ogni peccato, ogni ribellione alla volontà di Dio menerebbe alla morte eterna. Ma la grazia di Dio assicura la vita al peccatore che si pente e crede in Cristo. Finchè c'è possibilità di ravvedimento, c'è possibilità di perdono e quindi, di vita. Solo dove non è più possibile il pentimento, cessa la possibilità del perdono. Perciò Gesù, ammonendo i Farisei che resistevano volontariamente alla verità, intorno al pericolo estremo cui si esponevano, parla della bestemmia contro lo Spirito Santo come di un peccato che non sarà perdonato nè in questo mondo nè in quello a venire Matteo 12:31-32. Tenendo presente quell'insegnamento del Signore, il peccato che mena alla morte eterna non si può ravvisare in uno di quelli che la legge mosaica puniva colla morte corporale perchè per essi non si faceva luogo ad espiazione; per es. l'idolatria, l'omicidio volontario, l'adulterio, la bestemmia. Neanche si può ravvisare, in genere, nei peccati che si considerano più gravi e che in seno alla chiesa cattolica si chiamano peccati mortali perchè meritevoli di scomunica. Gesù dichiara che «ogni peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini», anche la bestemmia contro il Figliuol dell'uomo; e la sua condotta verso i peccatori lo dimostra. Egli accoglie i peccatori e i pubblicani, perdona alla peccatrice piangente e alla donna adultera, apre il cielo al ladrone che l'invoca sulla croce. Ma avverte che, la responsabilità, quindi il pericolo, di chi ha conosciuto la verità è maggiore. Parimente l'autore dell'Epistola agli Ebrei Ebrei 6 ammonisce che «quelli che sono stati una volta illuminati e hanno gustato il dono celeste e sono stati fatti partecipi dello Spirito santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le potenze dei mondo a venire, se cadono, è impossibile rinnovarli da capo a ravvedimento, poichè crocifiggono di nuovo per, conto loro il Figliuol di Dio e lo espongono ad infamia». Li paragona alla terra che beve la pioggia celeste, ma non produce che spine e triboli ed è perciò riprovata, vicina ad esser maledetta, la cui fine è d'essere arsa. (Cfr. Ebrei 10:26-30). Tale è il peccato che mena a morte, perchè, essendo commesso in modo cosciente contro la luce della verità e contro la grazia offerta in Cristo e accettata, non lascia luogo a pentimento. È una volontaria apostasia dal Cristo per parte di chi si è professato cristiano; è uno sprezzante respingere la grazia della salvazione. Di tal peccato si rendevano colpevoli i falsi profeti di cui parla Giovanni in 1Giovanni 4, e gli anticristi di cui in 1Giovanni 2; 2Giovanni 7-11, i quali non solo internamente, ma apertamente rinnegavano il Salvatore colle parole e cogli atti, divenendo nemici suoi e del cristianesimo ch'essi cercavano di sovvertire. Certo non è possibile al cristiano di pronunziare un giudizio sicuro sullo stato spirituale dei suoi fratelli e la carità non si affretta di ritenere irrimediabile lo stato del fratello; ognuno si regola in questo secondo la propria coscienza illuminata dalla verità. D'altronde, Giovanni non proibisce di pregare per chi pecca a morte; ma nemmeno lo consiglia perchè sa che una tal preghiera è condannata a restare senza esaudimento.

18 Noi sappiamo che chiunque è nato da Dio non pecca; anzi, colui che nacque da Dio preserva se stesso, e il maligno non lo tocca.

Nell'avvicinarsi alla fine della lettera, Giovanni riassume ancora in poche frasi brevi precedute tutte da un sappiamo, la condizione del cristiano di fronte al peccato, di fronte al mondo e di fronte a Dio ed al suo Figliuolo Gesù Cristo Sappiamo, per la rivelazione e per l'esperienza, che chiunque è stato da Dio rigenerato a vita nuova non pecca. In 1Giovanni 3:9 ha detto: «Chiunque è nato da Dio non commette peccato perchè il seme d'Esso dimora in lui; e non può peccare perchè è nato da Dio». La vita divina creata nel credente è la negazione del peccato, come il peccato è in se stesso, la negazione della vita divina. Il rigenerato come tale, e nella esplicazione normale della propria vita nuova, non pecca; ma questo non esclude che, date la complessità del suo essere morale che comprende in sè due uomini: l'uomo nuovo e l'uomo vecchio, quest'ultimo colle sue inclinazioni peccaminose si manifesti ancora nella vita del cristiano in sentimenti, in parole, e in atti che vengon dalla carne e non dallo spirito, che il cristiano rimpiange e rinnega, per trionfar dei quali ha bisogno delle preghiere dei fratelli e dell'intercessione dell'Avvocato celeste. Idealmente però, e conformemente alla legge del suo essere nuovo, chi è nato da Dio non pecca. Il seguito del verso assume sensi un po' diversi secondo che si accetta o no una variante portata dal codice vaticano (B) e dalla Volgata. Quel codice legge αυτον (lui) invece di εαυτον (se stesso) che trovasi nel Sinaitico e nell'Alessandrino nonchè nei msc. posteriori. Secondo la lezione vaticana il senso è: colui che nacque da Dio, cioè Gesù Cristo, lo preserva, cioè preserva e custodisce il cristiano, talchè il maligno non arriva a toccarlo per nuocergli. Il pensiero è conforme alla Scrittura. Gesù nella preghiera sacerdotale dice: «Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno» e ancora: «Conservali (τηρησον) nel tuo nome... io li conservavo nel tuo nome... li ho anche custoditi...» Giovanni 17:11-15. «Le mie pecore... non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano» Giovanni 10:28. Nessun dubbio che il cristiano non può, colle sue proprie forze, difendersi dagli assalti del nemico, e che sola la forza dall'alto lo può preservare. Ma è vero pure che la Scrittura insiste sul dovere della vigilanza, della resistenza all'avversario "stando fermi nella fede" 1Pietro 5:8-9; Giacomo 4:7. È vero del pari, che il chiamar Cristo "colui che nacque da Dio" è cosa affatto insolita; nè si può trascurare il fatto che il testo ordinario è fondato sulla quasi totalità dei msc. Riteniamo quindi che sia da preferirsi. Chi è nato da Dio preserva se stesso colla vigilanza, col seguir la legge del proprio essere nuovo, col rifugiarsi in Cristo e dimorare in lui. Quivi il maligno non giunge a nuocergli, per quanto lo possa tentare.

19 Noi sappiamo che siam da Dio e che tutto il mondo giace nel maligno.

I cristiani sono nel mondo ma non appartengono più al mondo del male; mediante la fede in Cristo son nati da Dio ed entrati in un mondo nuovo ch'è il regno di Dio; mentre gli uomini non rigenerati restano sotto al potere del diavolo ch'è il principe di questo mondo. Il giacere nel maligno esprime lo stato di passiva e completa sottomissione al dominio che Satana esercita sul mondo alieno da Dio.

20 Ma sappiamo che il Figliuol di Dio è venuto e ci ha dato intendimento per conoscere Colui ch'è il vero;

In questo terzo noi sappiamo Giovanni riassume la fede dei credenti nel Salvatore e termina così l'epistola glorificando colui del quale si è proclamato il testimone fin dalle prime linee. Il mondo è sotto il dominio del maligno; ma da questo stato di tenebre e di schiavitù è venuto a liberarci il Figliuol di Dio coll'abbassarsi, col farsi uomo simile a noi. Ha dissipato le tenebre che oscuravano le menti dei pagani adoratori della creatura invece del Creatore, ed anche dei Giudei. Ci ha dato intendimento cioè la facoltà di conoscere e di capire la verità religiosa, di discernere il vero dal falso che dilaga nel mondo quando si tratta della divinità; ci ha fatti capaci di conoscere Colui ch'è il vero, cioè il vero Dio, per opposizione agli dèi falsi e bugiardi, creati dall'immaginazione umana.
Ripetutamente il Vangelo di Giovanni presenta Cristo come il rivelatore del Padre: «Nessuno ha mai veduto Iddio; l'unigenito Figliuolo che è nel seno del Padre, è quel che l'ha fatto conoscere». «Chi ha visto me ha visto il Padre... Non credi tu ch'io son nel Padre e che il Padre è in me?» Giovanni 1:18,14,9. Gesù ch'è la luce del mondo ha fatto conoscere il vero Dio col suo insegnamento e colla sua vita; mediante il dono dello Spirito egli ha "aperto la mente" ai suoi discepoli per conoscere l'Iddio ch'è spirito e ch'è Padre, l'Iddio che è amore ed ha amato il mondo perduto fino a dare per la salvezza di esso il proprio Figliuolo.

E noi siamo in Colui ch'è il vero (Dio), nel suo Figliuolo Gesù Cristo.

Nella comunione col Figliuolo, i credenti godono della comunione col Padre, col vero Dio. Non solo, lo conoscono coll'intelligenza, ma lo conoscono col cuore essendo entrati con lui in relazione intima, di fede e di amore. Perciò dice: Siamo in Colui ch'è il vero, cioè in comunione col vero Dio. «Niuno conosce appieno il Padre se non il Figliuolo e colui al quale il Figliuolo avrà voluto rivelarlo» Matteo 11:27. "Chi... non dimora nella dottrina di Cristo non ha Iddio" 2Giovanni 9. «Niuno viene al Padre se non per mezzo di me»
Giovanni 14:6.

Questo è il vero Dio e la vita eterna.

Gl'interpreti, fin dai tempi antichi, hanno inteso questa breve proposizione gli uni del Figlio di Dio, Gesù Cristo, gli altri di Dio Padre; e bisogna riconoscere che vi sono ragioni serie da far valere così a sostegno dell'uno come dell'altro senso. Coloro che applicano l'ὁυτος (questi, esso, questo) al Figlio insistono sul fatto ch'egli è la persona nominata immediatamente prima e quindi, secondo le norme ordinarie della sintassi, ad essa va riferito il questo; inoltre si fa notare ch'è più naturale il riferire il predicato: "la vita eterna" a Cristo che disse di sè: "Io son la vita" e di cui Giovanni ha detto in 1Giovanni 5:12: "chi ha il Figlio ha la vita". D'altra parte si osserva che non sempre Giovanni si attiene alle più rigide regole della sintassi e qui potrebbe riferirsi al soggetto principale mentovato due volte colla locuzione il vero [Dio] (Cfr. 1Giovanni 2:22; 2Giovanni 7). Si osserva pure che, pur essendo esplicitamente riconosciuta negli scritti di Giovanni la divinità di Cristo, non è mai chiamato il vero Dio, quasi lo si volesse sostituire al Padre; che, essendo Dio la fonte e il datore supremo della vita eterna, ben può l'apostolo dire del Padre ch'esso è la vita eterna. Si fa notare inoltre l'analogia tra questa proposizione e quella che si legge nel Vangelo Giovanni 17:3: «E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo». Da ultimo, si fa notare che, intesa di Dio Padre, la frase conduce più naturalmente all'esortazione che segue di guardarsi dagli idoli. Tutto considerato, ci pare che le ragioni in favore di quest'ultima interpretazione abbiano maggior peso. Il vero Dio, la fonte prima della vita eterna è Colui che Cristo ci ha fatto conoscere e al quale ci ha condotti.

21 Figliuoletti, guardatevi dagli idoli.

Questa ultima brevissima ed affettuosa esortazione di Giovanni sorprende, perchè non è stata fatta allusione alcuna nel corso dell'epistola all'idolatria pagana nè ad un pericolo che minacciasse i lettori da quel lato. Perciò non pochi espositori, pur ammettendo una riferenza agli idoli veri e propri, cioè alle rappresentazioni materiali delle false divinità del paganesimo, hanno allargato e spiritualizzato il concetto estendendolo a tutte le false concezioni della divinità sorte sia nel paganesimo sia fra gli eretici gnostici od altri; estendendolo perfino a tutti quegli oggetti che possono prender, nel cuore, il posto dovuto a Dio solo. Crediamo, tuttavia, che l'esegesi non deve lasciar la briglia sciolta all'immaginazione. Se teniamo conto che i lettori asiatici dell'epistola vivevano in un ambiente tutt'ora saturo di paganesimo; se teniamo conto che Giovanni ha, pur ora, ricordato che il mondo dal quale erano usciti i cristiani "giace nel maligno" moralmente e religiosamente, non parrà strano che, in relazione colla conoscenza del vero Dio a cui sono stati condotti dalla fede in Cristo, l'apostolo esorti i lettori a guardarsi, a tenersi lontani dagli errori, dai traviamenti, dalle pratiche del paganesimo idolatra ch'è la negazione del vero Iddio, della conoscenza, del culto, della salvazione, del servizio di lui.

AMMAESTRAMENTI

1. Giovanni scrive la sua lettera perchè i lettori appiano ch'essi hanno la vita eterna. Non già che l'abbiano per alcun merito loro, ma unicamente perchè credono "nel nome del Figliuol di Dio"; giacchè non v'è salvezza in alcun, altro e chi "non ha il Figliuolo non ha la vita". Per contro, non è fondamento di rena la solenne promessa di Dio ripetuta in tante guise: "Chi ha il Figliuolo ha la vita"; "Chi crede in me ha vita eterna". Porre in dubbio la promessa di Dio è, un fargli ingiuria; mentre l'attenersi con salda fede alla promessa non è orgogliosa e vana prosunzione, ma è un dar gloria a Dio. E quanta pace, quanta dolcezza spande nel cuore cristiano la certezza del possesso della vita eterna! Nel mondo essi hanno afflizioni, tribolazioni; la loro felicità terrena, i loro beni, la loro riputazione, la loro libertà possono esser loro tolti; ma se hanno la beata certezza della vita eterna posseggono un tesoro che nessuno può loro rapire. I fedeli dottori del Vangelo devono mirare a fortificare nel cuor dei credenti la certezza della salvezza in Cristo, e combattere l'astuzia di Satana che mira a distoglier lo sguardo della fede da Cristo e a tenerli sempre nella paurosa ansietà del dubbio riguardo alla cosa essenziale. Insistano su queste due condizioni della certezza: piena fede in Cristo e buona coscienza.

2. Altro privilegio del credente è la fiduciosa libertà filiale nella preghiera ch'è tanta parte della vita interiore del cristiano e ch'è la forma terrena della comunione dell'anima con Dio. Va da sè che, nel concetto di S. Giovanni, la preghiera cristiana non consiste nel recitar formule o nell'usar «soverchie dicerie» come i pagani; ma la preghiera è un esporre a Dio le nostre domande. E queste domande possono estendersi ad ogni sorta di cose: a cose temporali come a cose spirituali, a cose piccole come a cose grandi. Gesù ha insegnato a chiedere il pane quotidiano pel corpo, il perdono e la santificazione dell'anima, e l'avvento nel mondo del regno di Dio. V'è una sola restrizione da fare circa le richieste che possiamo presentare a Dio: devono essere secondo la sua volontà. Mentre ci sono delle domande che sappiamo essere sicuramente tali, ce ne sono altre, specialmente nella categoria delle cose temporali, per cui non possiamo aver la medesima certezza e per l'esaudimento delle quali dobbiam rimetterci alla sapienza e bontà del nostro Padre. Fra le preghiere del cristiano tiene largo posto la preghiera d'intercessione a favore dei membri delle nostre famiglie, a favore dei nostri fratelli in fede specialmente se li vediamo o sappiamo pericolanti; a favore di tutti gli uomini. La preghiera d'intercessione è manifestazione d'amor fraterno. Meglio parlare a Dio dei difetti del fratello che non agli altri uomini. Anche se l'esaudimento non viene immediatamente in quella forma e in quel modo che, aspettiamo, non ne segue che la nostra preghiera sia stata inutile. Dio esaudisce in molti modi e sempre mira al nostro bene. Egli è amore.

3. La possibilità per chi ha conosciuto e professato il Vangelo, di finire col rinnegarlo commettendo il peccato che preclude ogni via al pentimento e mena alle tenebre della morte eterna, contiene un ammonimento a vigilanza per tutti i credenti. Ogni peccato è un attentato alla vita nuova creata da Dio perchè interrompe la comunione colla fonte della vita e tende ad addormentare la coscienza. Il consentire al male, il peccar volontariamente, lo spegnere la luce dello Spirito in noi, conducono gradatamente allo stato morale che rende possibile, l'apostasia da Cristo, il disprezzo della grazia.

4. La reale conoscenza del vero Dio e la vita nuova di comunione con lui ci sono state procurate dalla venuta del Figliuol di Dio nel mondo e dall'opera sua. Ma conoscenza e vita hanno bisogno di crescere e d'essere difese dai pericoli che le minacciano in un mondo ch'è sotto il dominio del maligno. Chi è nato da Dio deve preservar se stesso dal peccato ch'è fatale alla vita nuova. Chi ha conosciuto il vero Dio ch'è spirito, luce, e amore, deve guardarsi dagl'idoli. Certo l'adoratore del vero Dio non salta d'un tratto all'adorazione degli idoli; ma l'esperienza religiosa dell'umanità in genere e in ispecie della chiesa cristiana ci ammonisce a stare in guardia contro le alterazioni della verità che paiono a prima vista innocue, anzi utili, ma conducono gradatamente a deviazioni più gravi e funeste. L'uso delle immagini ha condotto alla loro venerazione e questa alla loro adorazione. La venerazione per i santi e per la madre di Gesù, ha condotto al culto dei santi e a tutte le aberrazioni della mariolatria, giunta al punto da oscurar la conoscenza del vero Dio e da spegner in migliaia di cuori la preghiera fiduciosa al Padre nel nome dell'unico Mediatore Gesù Cristo. È questo un fatto che nessuna sottile distinzione teologica può distruggere.