2 Corinzi 6
2Corinzi 6:1-2
Oltre a ciò, come collaboratori suoi, vi esortiamo [a far sì] che non abbiate ricevuta in vano la grazia di Dio.
Si potrebbe rendere pure: «Come suoi collaboratori, poi, vi esortiamo eziandio...». La missione d'ambasciatore di Cristo presso i non salvati per invitarli ad accettare la riconciliazione con Dio, non esaurisce il compito dell'apostolato. Paolo ha un'opera da compiere anche presso coloro che hanno accettata la grazia di Dio e sono con lui riconciliati. Quella grazia che hanno ricevuta credendo in Cristo, si tratta di far sì che non l'abbiano ricevuta in vano. Alla riconciliazione deve tener dietro la santificazione; al mutamento avvenuto nelle relazioni con Dio deve accompagnarsi il mutamento delle disposizioni morali e della vita tutta quanta. La fede in Cristo morto e risorto contiene in germe una morte al peccato ed una risurrezione a vita nuova. Chi è in Cristo è una «nuova creatura» e chi, dopo ricevuta la grazia della riconciliazione, non camminasse in novità di vita, non potrebbe giungere alla mèta della salvazione ch'è l'affrancamento dal peccato e dalla morte. Avrebbe ricevuta la grazia «in vano», in quanto che essa resterebbe in lui infruttuosa, come il seme che levato si secca, o vien soffocato dalle spine prima di giungere a maturità. «Riceve invano la grazia di Dio, chi, nel Nuovo Patto, non è nuovo (rinnovato)» (Pelagio). Cfr. Romani 6; Filippesi 2:12-13; Ebrei 12:14. Gli stessi alti moventi che spingono Paolo a compiere la prima parte del suo ministerio, lo muovono a compiere la seconda di natura educativa; e con quale serietà, con quale amore, con quale tatto egli vi si accinga lo dimostrano le sue esortazioni ai Corinzi ed in genere le lettere alle chiese da lui fondate. In codest'opera egli è un collaboratore, ma di chi? La risposta più semplice pare essere: di Cristo o di Dio. Ambasciatore suo presso i non credenti, egli è presso i credenti un operaio che Cristo adopera per coltivare il campo, per tirar su l'edificio. Cfr. 1Corinzi 3. Nei cuori dei cristiani opera di già lo Spirito di Cristo ed i ministri sono strumenti per secondar quest'opera.

In appoggio della sua esortazione, Paolo reca, di passata, una dichiarazione della Scrittura tolta da Isaia 49:8.
Dice infatti
(Dio nella Scrittura):
«Nel tempo accettevole, io ti ho esaudito, e nel giorno della salvezza, io ti ho soccorso».
La promessa divina è rivolta al Servo dell'Eterno che, abbattuto e beffato, si lamenta d'aver lavorato invano presso Israele. In un quadro profetico raffigurante come adempiuto quanto è promesso, Dio dichiara che viene il tempo della manifestazione del suo favore (in tempo accettevoli o favorevole), viene «il giorno della salvezza» in cui Dio esaudirà il suo servo e gli largirà ogni abbondanza di grazia, lo glorificherà nel mondo e lo farà strumento per la salvazione d'Israele. La promessa fatta al servo di Jehova, al capo e rappresentante del popolo fedele, Paolo l'applica al popolo di Dio nel nuovo Patto, a coloro che sono, per fede, uniti a Cristo. Il giorno promesso della salvezza è venuto; è l'epoca messianica che corre tra la prima e la seconda venuta di Cristo.
Ecco,
dice Paolo,
ora [è] il tempo veramente accettevole
(l'aggettivo greco ha senso intensivo);
ecco, ora è il giorno della salvezza.
È questo l'ultimo periodo della storia del mondo, in cui ha da scender sulla terra tutta l'abbondanza delle grazie divine. Ma l'epoca propizia per ricevere, insieme col perdono, lo Spirito di vita e di santità in tutta la pienezza della sua potenza, quanto durerà? Paolo lo ignora e la crede breve 1Corinzi 7:29; Romani 13:11, ecc. Si tratta dunque di attinger largamente alle fonti della salvezza e di non lasciar trascorrere per negligenza, per incredulità, o per segreta connivenza col peccato, l'ora propizia.

2Corinzi 6:3-10
La missione ricevuta da Dio, sia che trattisi di invitare i non credenti a ricever la grazia, o di esortare i credenti a non riceverla in vano, Paolo si sforza di adempierla in modo irreprensibile. Egli ha coscienza che la sua condotta personale non fornisce pretesto ad alcuno di vituperare l'ufficio apostolico e di scusare la propria incredulità od il proprio rilassamento; essa è, al contrario, la massima raccomandazione del messaggio ch'egli reca.
Non dando intoppo alcuno in veruna cosa, affinchè il ministerio non sia vituperato:
Il participio si riannoda ai verbi precedenti: esortiamo, preghiamo, ecc. Nell'adempiere alle varie funzioni del suo apostolato, Paolo tiene una condotta tale da non essere d'inciampo ad alcuno sulla via della fede o della santificazione. Cfr. 1Corinzi 10:32-33. Il ministerio apostolico dev'esser senza macchia morale, non dev'essere disonorato, che altrimenti non sarebbe più atto a recare il messaggio di Dio con frutto.

Non basta però a Paolo l'evitar ciò che recherebbe disonore all'ufficio che copre; egli nulla risparmia per renderlo commendevole sotto ogni aspetto, con una costanza a tutta prova nelle sofferenze ch'egli affronta volonteroso nell'esercizio dell'apostolato 2Corinzi 6:4-5; con uno spiegamento di svariate virtù cristiane e doni straordinarii dello Spirito 2Corinzi 6:6-7; e tutto ciò, nelle circostanze esterne più diverse: favorevoli o sfavorevoli 2Corinzi 6:8-10. Nelle 28 parole od espressioni contenute in 2Corinzi 6:4-10, non c'è d'altronde da cercare un'ordine strettamente logico; vi è associazione di idee determinata dall'analogia fra i tanti ricordi che si affollano alla mente di Paolo mentre getta uno sguardo sulla sua carriera missionaria.
Anzi, in ogni cosa, raccomandando noi stessi come [si conviene a] dei ministri di Dio.
Il raccomandar sè stesso con una condotta irreprensibile, è ben diverso dal raccomandar sè stesso a parole 2Corinzi 3:1; 5:12; quello è non solo cosa legittima, ma doverosa. Lo è per tutti, ma specialmente per coloro che sono «ministri di Dio»; cioè incaricati della più alta missione che creatura umana possa ricevere. L'originale significa non che raccomandino sè stessi in modo da dimostrare che sono «ministri di Dio», ma che raccomandano sè stessi «come (essendo) ministri di Dio», come si conviene a persone che sono realmente investite di quell'alto ufficio.
in molta costanza, in afflizioni, in necessità, in distrette,

in battiture, in prigioni, in sommosse, in fatiche, in veglie, in digiuni.
Alcuni considerano le ultime nove parole come dipendenti dalla prima. Paolo raccomanderebbe sè stesso colla paziente perseveranza dimostrata nelle afflizioni, ecc. Questo però rompe la simmetria della frase ove ogni parola esprime un qualche tratto che torna ad onore del ministerio di Paolo. Resta vero, tuttavia, che l'ὑπομονη (il perdurare sotto agli sforzi avversi o dinanzi alle difficoltà) esprime un concetto più generale che non i termini seguenti. Le afflizioni cagionate da nemici o da falsi amici, le necessità materiali in cui Paolo trovasi spesso, le distrette o situazioni pericolose in cui sembra preclusa ogni via di scampo (esempio: quella d'Asia), le battiture cfr. 2Corinzi 11:23-25; Atti 16:23, le prigioni come ad es. in Filippi e più tardi in Gerusalemme, Cesarea e Roma, raccomandano l'Apostolo in quanto attestano non solo la sua perduranza, ma il suo zelo nella diffusione del Vangelo, la sua devozione assoluta al servizio di Cristo, l'ardente amore che lo muove. Non c'è pericolo nè sofferenza che lo faccia indietreggiare. In molti luoghi la sua presenza provoca sommosse o tumulti popolari organizzati dai nemici del Vangelo, e l'Apostolo sarà in pericolo di vita, sarà maltrattato e dovrà cercare uno scampo nella fuga, come ad es. in Antiochia di Pisidia, in Iconio, Listra, Filippi, Tessalonica, Berea e soprattutto Efeso Atti 13:50; 14; 16:19-22; 17:5,13; 19:28; ma ciò non lo smuove. L'annunziare il Vangelo di paese in paese, di città in città, di casa in casa, congiunto colla necessità di provvedere col lavoro manuale al proprio sostentamento e colle ansietà procurategli dalle chiese, impongono all'apostolo gravi fatiche cfr. 2Corinzi 11:23,27;1Corinzi 4:11-12; 2Tessalonicesi 3:8, e veglie, e digiuni, non volontarii, ma forzati, causati da mancanza o grande scarsità di cibo Filippesi 4:12; 1Corinzi 4:11; 2Corinzi 14:27; ma non fa conto di nulla pur di adempiere al ministerio ricevuto.

Le virtù cristiane ed i doni cospicui dello Spirito raccomandano del pari l'Apostolo.
In purità, in conoscenza, in longanimità, in benignità, in Ispirito Santo, in carità non finta, in parola di verità, in potenza di Dio, colle armi della giustizia, di destra e di sinistra.
Purità può intendersi nel senso più ristretto di castità, ossia purità di costumi per opposizione alla licenza Tito 2:5; 1Pietro 3:2, ovvero nel senso più largo di sincerità e santità dei moventi di una vita incontaminata cfr. 2Corinzi 7:11; 1Timoteo 5:22; 1Giovanni 3:3. Conoscenza indica l'alto grado d'intelligenza spirituale della verità cui Paolo era giunto mercè l'illuminazione dello Spirito 2Corinzi 11:6; 1Corinzi 12:8; 2:1-16. Egli potea parlar sapienza fra i cristiani maturi. Longanimità di fronte ad avversarii o nelle difficoltà 1Corinzi 13:4; Galati 5:22, in Ispirito Santo, cioè per le grazie ed i doni speciali con cui lo Spirito manifesta nell'uomo la sua presenza ed efficacia. Paolo li avea ricevuti in abbondanza. In parola di verità non vuol dir soltanto «con veracità» aliena da frodi ed inganni; ma significa che il contenuto del suo insegnamento è la verità nel senso più alto, la verità divina che Paolo comunica senza adulterarla. in potenza di Dio che opera, per mezzo dell'apostolo, in molti modi: nei miracoli che lo accreditano 2Corinzi 12:12, nell'efficacia data alla sua predicazione, nei poteri speciali con cui regge le chiese esercitandovi la disciplina con mezzi anche sovrannaturali 1Corinzi 2:4; 5:5; 2Corinzi 13:3-4. Le armi adoperate da Paolo nell'esercizio del suo ministerio sono armi di giustizia, non perchè somministrate dalla giustizia di fede 2Corinzi 5:21; Romani 1:17, ma perchè consistono nella giustizia, sono mezzi moralmente giusti e retti. Sia che attacchi colla destra, sia che si difenda colla sinistra, le armi di cui si serve non sono indegne d'un servo di Dio, nè della causa di Dio. Non adopera nè slealtà, nè astuzia, nè frode, nè adulazione, nè adescamenti d'interesse materiale.

La costanza e l'abnegazione di cui in 2Corinzi 6:4-5, le virtù e i doni divini di cui in 2Corinzi 6:6-7, Paolo li spiega nelle circostanze più diverse, approfittando, con gioia, di quelle propizie come di un vento favorevole alla sua nave; ma senza lasciarsi spaventare od arrestare quando i venti sono contrarii.
In mezzo alla gloria
che gli viene dalle chiese le quali apprezzano il suo lavoro,
ed al disonore
che gli viene dagli avversarii i quali lo coprono di disprezzo, od anche dal mondo giudaico e pagano estraneo al Vangelo cfr. 1Corinzi 4:11-13.
traverso alla cattiva ed alla buona fama,
non essendo mancate all'apostolo le maldicenze e le calunnie, ma neppure l'ammirazione per la nobiltà del suo carattere, anche per parte di persone non credenti.

Come seduttori, eppur veraci.
I contrasti che offre la carriera di Paolo, secondo il punto di vista dal quale la si giudica, vengono presentati nella fine della frase con degli aggettivi e dei participii. Ma si tratta sempre delle condizioni in cui si svolge la sua attività. Dai Giudei e dai giudaizzanti, come dai pagani, è giudicato un seduttore «che induce altri in errore cfr. Matteo 27:63; Atti 21:28. Egli è, tuttavia, dinanzi a Dio ed agli uomini che lo conoscono meglio, verace, predicator di verità con mezzi leali e sinceri.
Come sconosciuti
non conosciuti e sconosciuti ad un tempo, per ignoranza o pregiudizio del mondo.
eppur riconosciuti
per quel che siamo veramente, per apostoli di Cristo, da chi ha ricevuta la verità;
come morenti
per i continui pericoli di morte cui si trova esposto,
eppur ecco viviamo
per la bontà e meravigliosa protezione di Dio cfr. perciò da 22 anni ch'egli evangelizza Cristo.
Come castigati, ma pur non fatti morire.
Cfr. 2Corinzi 6:4-7 e segg. Le sofferenze di Paolo parevano ai suoi avversarii dei segni dello sfavore divino ed erano anche una disciplina paterna usata da Dio per il bene del suo figlio cfr. 2Corinzi 12:7-9; Ebrei 12; ma pur la disciplina non giungeva fino a privarlo della vita, anzi era frammista a grandi liberazioni.

10 Come afflitti
dalle esterne persecuzioni e dagli interni dolori,
eppur sempre allegri
dinanzi all'esperienza della bontà del Padre, ai trionfi che egli ci dà di riportare 2Corinzi 7:14, alla certezza della salvezza, alla gloria ch'è oggetto della nostra speranza.
Come poveri
di beni materiali,
eppur arricchendo molti
dei beni della salvazione col condurli a Cristo 2Corinzi 8:9;
come non avendo nulla, eppur possedendo ogni cosa.
Più che povero, Paolo è agli occhi del mondo un nullatenente, e nel fatto non risulta che egli possedesse altro che il suo mestiere. Eppure, per fede, qual figlio ed erede di Dio, egli possiede ogni cosa; il suo tesoro è grande nei cieli. L'interna potenza di fede, di speranza e di carità che sostiene l'Apostolo in mezzo a circostanze esterne così difficili, è un'altra raccomandazione del suo ministerio.

AMMAESTRAMENTI
1. 2Corinzi 5:18-21 è ricco d'insegnamenti dottrinali importanti. Dio è santo e giusto; l'ingiustizia dell'uomo è quella che ha rotta l'armonia tra Dio e la sua creatura ed esposta quest'ultima alla giusta ira ed alla condannazione di Dio. «L'ira divina e la condannazione che colpisce il mondo peccatore non sono cose prive di realtà. Esse sono le cose più reali di cui l'umana natura abbia conoscenza prima di ricevere la riconciliazione. Sono reali quanto una cattiva coscienza, quanto la infelicità, l'impotenza e la disperazione. È gloria del Vangelo di trattarle come cose reali e non come illusioni» (Denney). «Ci dev'essere una verità profonda in espressioni simili, che altrimenti svanisce la personalità di Dio. Se fosse figura l'ira di Dio contro al malvagio, lo sarebbe del pari il suo compiacimento nel giusto. Se facciamo sfumare il senso di parole come questa, veniamo a perdere ogni distinzione tra il bene ed il male, perdiamo la fede in Dio, poichè col cancellare i suoi sentimenti, si finisce col credere che non c'è Dio» (F. Robertson).
Ma se reale è l'ira di Dio, reale è altresì l'amor suo che ha provveduto, in Cristo, alla riconciliazione del mondo con sè. A raggiungere un tal fine è stato necessario che il giusto fosse «fatto peccato per noi» ed espiasse i nostri falli. Solo in Cristo è possibile la riconciliazione con Dio. Essa è offerta a tutti, ma non diventa effettiva se non in coloro che l'accettano per fede nel Mediatore.
2. Il ministerio evangelico non è di natura sacerdotale, nè tampoco coercitiva. Esso è di natura morale: il suo fine è di «persuadere gli uomini». Grande è la sua dignità, poichè i ministri sono «ambasciatori» di Cristo, incaricati da lui di recare un messaggio di riconciliazione al mondo. Ma questo stesso implica che non devono nè aggiungere nè togliere al divino messaggio; esso è da Dio e non da loro. L'alterarlo in qualche guisa è un tradir la loro missione. E come potrebbero persuadere gli uomini ad accettare la riconciliazione con Dio, in Cristo, se non facessero l'ambasciata con uno spirito di compassione per le anime, d'insistenza amorevole, supplichevole, che non si stanca di parlare dell'amor di Dio e del sacrificio di Cristo? il ministerio evangelico mira ad un tempo a ricondurre a Dio chi è tuttora alieno da esso, ed a confermare nella grazia chi è già riconciliato. La conversione degli inconvertiti e la santificazione dei credenti sono ugualmente necessarie per il conseguimento della loro finale salvazione. Nel consacrarsi a quest'opera difficile, il ministro ricorderà con animo fiducioso ch'egli è «collaboratore» di Dio, il quale ha il potere di risvegliare le coscienze e di rinnovare i cuori.
L'essere però collaboratore ed ambasciatore di Dio, in un'opera di persuasione che mira alla salvazione degli uomini, gl'impone il dovere di raccomandare il suo messaggio con una vita irreprensibile. La sua condotta è parte della sua predicazione. «Le più gravi parole di Gesù furon dirette contro chi rende la fede difficile e facile l'incredulità» (Denney). Il quadro che Paolo traccia del proprio ministerio 2Corinzi 6:3-10 è tale da umiliare anche i maggiori servi di Dio. Chi cammina sulle sue pedate è successore degli apostoli. «La vera successione apostolica è e dev'essere spirituale. La potenza di Dio non è conferita per via di contatto fisico, ma col dono dello Spirito. Colui è un vero ministro che non lo è perchè è ordinato o perchè discende dagli apostoli, ma perchè partecipa allo spirito di un apostolo» (Robertson F.).
3. Che cosa poteva Iddio fare per la nostra salvezza, oltre a quello che ha fatto? Egli, l'offeso, ha provveduto il mezzo della riconciliazione per gli offensori, dando il suo proprio Figlio e trattandolo come il sostituto dei peccatori. Egli ha mandato quindi nel mondo i suoi ambasciatori ad invitare gli uomini, supplicandoli di esser riconciliati con Dio. «Come scamperemo noi se trascuriamo una cotanta salvezza?»
4. C'è un tempo di grazia per l'umanità, e ce n'è uno per ogni uomo. Quanto abbia da durare per noi individualmente non sappiamo. «Oggi» se udiamo la voce di Dio che c'invita a riconciliazione od a santificazione, non induriamo i nostri cuori. Il fatto che si può udir l'invito divino e perfino ricever la grazia di Dio «invano», contiene un grave avvertimento.

11 §5. Esortazione ai Corinzi a ricambiare santamente l'affetto e la fiducia che Paolo nutre a loro riguardo 2Corinzi 6:11-7:16
Il quadro riassuntivo 2Corinzi 6:3-10 dei travagli, delle virtù, dei doni spirituali che raccomandano il ministerio, così pieno di contrasti, di Paolo, è come la chiusa dell'esposizione apologetica ch'egli ha fatta del suo apostolato. Giunto a questo punto, e persuaso di aver sgombrato il terreno da ogni malinteso che ancor potesse sussistere fra lui ed i Corinzi, egli dà libero sfogo al suo cuore di padre e domanda ai suoi figli spirituali di ricambiare pienamente l'affetto e la fiducia ch'egli nutre verso loro. È questa come la perorazione della prima parte dell'Epistola. Le relazioni fra l'Apostolo e la chiesa erano diventate più tese dacchè Paolo era stato costretto a riprendere severamente la rilassatezza dei Corinzi, ed i dottori giudaizzanti avevano colta l'occasione propizia per denigrare e calunniare il loro avversario. Ma oramai la chiesa, nella sua gran maggioranza, aveva riconosciuto i suoi torti e si era persuasa che, nelle sue correzioni, Paolo aveva mirato unicamente al vero bene dei suoi figli. L'esortare a santificazione i credenti faceva parte, infatti, del ministerio affidatogli da Dio 2Corinzi 6:1; ed a codesto sacro dovere egli non può nè vuole venir meno. Anche ora, a scanso d'ogni equivoco, egli riafferma ai Corinzi l'assoluta incompatibilità della professione cristiana colle pratiche idolatriche. La riconciliazione fra l'Apostolo e la chiesa non può essere il frutto di una transazione in cui Paolo abbassi il livello della santità cristiana, ma dev'essere il frutto di un ritorno della chiesa nella retta via. Questo desiderato ritorno è in via di effettuazione in seguito all'ultima lettera di Paolo che ha addolorato, ma a salute, la chiesa. Per cui Paolo, che ha saputo questo da Tito, è pieno di allegrezza e di fiducia riguardo ai Corinzi.
Il § si può dividere in due sezioni. Nella prima 2Corinzi 6:11-7:1, Paolo domanda ai Corinzi di ricambiare il suo affetto, ricordando loro, in pari tempo, di separarsi dalle contaminazioni idolatriche. Nella seconda, domanda il loro affetto esponendo i sentimenti di allegrezza e di fiduciosa speranza di cui è pieno il suo cuore a loro riguardo 2Corinzi 7:2-16.

Sezione A 2Corinzi 6:11-7:1 MUTUO AFFETTO IN SANTITÀ
Paolo domanda ricambio d'affetti, esortando a santità.

Nelle pagine che precedono e specialmente nell'enumerazione finale 2Corinzi 6:3-10, Paolo ha versato il suo cuore, e sotto l'impero d'una interna commozione, egli esclama:
La nostra bocca è aperta inverso voi, o Corinzi, il nostro cuore s'è allargato.
Egli ha parlato loro con intiera franchezza e libertà, senza restrizioni e reticenze. Il suo cuore s'è allargato per il grande affetto che sente per una chiesa che gli ha costato molte fatiche ed ha corso grave pericolo. Quel che rende particolarmente espansivo il cuor dell'apostolo, al momento attuale, sono le buone notizie ricevute da Corinto per mezzo di Tito, come dirà in 2Corinzi 7. E infatti, la seconda ai Corinzi è la lettera più piena di sentimento che Paolo abbia scritto.


12 In forma negativa 2Corinzi 6:12 esprime lo stesso pensiero dell'2Corinzi 6:11.
Voi non siete allo stretto in noi,
occupate un largo posto nel nostro cuore;
ma ben siete stretti nelle vostre viscere;
il vostro cuore lo tenete tuttora semichiuso e diffidente, non l'avete aperto all'amore per noi. Le viscere sono la sede delle interne emozioni ed affetti.

13 Per [renderci] il contraccambio, ve lo dico come a dei figliuoli, allargatevi voi pure.
La frase è ellittica e si potrebbe anche rendere: «a mo' di contraccambio», ecc. Paolo li ha generati alla vita nuova mediante l'Evangelo; con affetto di padre ha lavorato al loro sviluppo spirituale, istruendoli e correggendoli 2Corinzi 12:14; 1Corinzi 4:14; non vorranno essi, come figli, contraccambiar l'affetto del loro padre allargando il loro cuore per fargli un posto più adeguato nei loro affetti? il non farlo sarebbe indizio poco buono del loro stato morale.

14 L'esortazione che segue, 2Corinzi 6:14-7:1, è stata considerata da molti critici come «un frammento fuori posto che si apparteneva forse alla Epistola perduta accennata 1Corinzi 5:9; e che ad ogni modo si potrebbe interpolare o dopo 1Corinzi 5:13 o dopo 1Corinzi 6:20 o dopo 1Corinzi 10:22» (Vers. Revel, nota). Gli argomenti posti innanzi a sostegno di codesta opinione sono i seguenti:
a) L'esortazione rompe bruscamente il nesso tra quanto precede 2Corinzi 6:13 «allargatevi...» e quanto segue 2Corinzi 7:2: «fateci posto...»;
b) si notano qui un certo numero di parole non adoperate altrove negli scritti di Paolo ed una diversa maniera d'introdurre le citazioni bibliche;
c) perfino qualche concetto in 2Corinzi 7:1 è parso antipaulinico.
Quanto a espressioni insolite, non se ne può ricavare un argomento contrario all'autenticità di questo brano, che d'altronde alcuni fra i critici più difficili attribuiscono a Paolo. Volendo egli insistere nella dimostrazione dell'incompatibilità tra il cristianesimo e l'idolatria, bisognava bene accumulare i sinonimi e variare le espressioni. Piuttosto è da vedere qui una prova del come Paolo padroneggiasse la lingua greca. A ragione notò Schmiedel, che le espressioni insolite non possono colpire se non quando, invece del termine solito ad usarsi dall'autore, per un dato concetto, se ne trovi un altro nuovo. Ci sono d'altronde parole comunissime che non s'incontrano negli scritti di Paolo; si vorrebbe forse concluderne ch'egli non le conoscesse? Resta la rottura del nesso la quale è più apparente che reale. L'aver ripreso i Corinzi per l'abuso che, in varie guise, facevano della libertà cristiana, spingendosi fino a partecipare alle feste ed ai conviti idolatrici era stata la cagione che aveva alienato dall'apostolo i cuori. Ora che i Corinzi hanno meglio compreso il suo intento, egli insiste nel mostrar loro quanto sia impossibile conciliare la professione cristiana con l'idolatria. Nell'esortarli, com'era dovere del suo ministerio 2Corinzi 6:1, egli non avea recato loro alcun danno 2Corinzi 7:2, aveva mirato unicamente a trarli da un grave pericolo che avrebbe messa in forse la lor finale salvazione. Non era questa una ragione valida di tenere il broncio al loro padre spirituale. Il nesso, adunque, tra l'esortazione ad allargare il cuore e quella a romperla coll'idolatria stava nei fatti successi ed era profondo. Se nella foga di un appello ch'è più affusion del cuore che ragionamento della mente, Paolo non fa notare il nesso, ma solo vi accenna nel 2Corinzi 7:2, i Corinzi lo sentivano molto bene. D'altronde, contro l'ipotesi dei critici, è decisivo il fatto che nessun documento, grande o piccolo, antico o moderno, contiene la minima traccia dell'interpolazione, nel testo dell'Epistola, di un brano estraneo.
Non vi lasciate andare a portare cogl'infedeli un giogo estraneo.
Il verbo ἑτεροζυγεω può significare semplicemente «aggiogarsi con altri», «appaiarsi». Però l'aggettivo corrispondente viene usato, in Levitico 19:19, parlando di animali di specie diverse che non si devono accoppiare. Si confr. Deuteronomio 22:10, ov'è proibito di aggiogare insieme il bue e l'asino. L'idea accennata sarebbe quindi che l'associarsi cogl'infedeli, ossia coi pagani non credenti, è cosa che non sta, cosa incongrua, contraria alla natura delle cose. La forma originale: «Non divenite aggiogati...» torna a dire: «Voi avete rinunziato all'idolatria e siete passati sotto al giogo di Cristo; non tornate indietro coll'associarvi ai pagani nelle cose che implicano una partecipazione all'idolatria o semplicemente un pericolo per la vostra vita cristiana. È questo un giogo che non va più per voi». Paolo non ritorna qui sugli aspetti varii di una questione ch'egli ha tratta a lungo nella prima Epistola, discorrendo della partecipazione ai conviti pagani, dei matrimonii misti, ed in genere del seguir l'andazzo della corruzione pagana.
Nelle cinque domande che seguono l'Apostolo mette in luce, sotto varii aspetti, l'incompatibilità morale esistente fra la professione cristiana e la partecipazione alle cerimonie ed ai costumi pagani.
Infatti qual comunanza hanno tra loro la giustizia e l'iniquità?
Lett. «qual partecipazione», cioè «che cosa hanno in comune», «che v'è egli di comune tra...». La risposta sottintesa è: Nessuna affatto. Sono agli antipodi l'una dell'altra. Per giustizia non s'intende la giustizia di fede imputata al credente; bensì la giustizia morale che n'è la conseguenza. Il cristiano unendosi a Cristo è divenuto servo della giustizia Romani 6:18; mentre il pagano seguita a vivere nelle sue abbominazioni. Due tendenze morali così opposte sono necessariamente inconciliabili. Chi è con Cristo ha per norma di vita la giustizia, cioè l'adempimento dei doveri verso Dio e verso gli uomini.
O qual comunione v'è egli tra la luce e le tenebre?
Dovunque penetra la luce, spariscono le tenebre. Non possono sussistere insieme, nè aver nulla in comune. Luce e tenebre sono l'immagine della verità e dell'errore, della conoscenza e dell'ignoranza, della santità e del peccato. Il concetto è più comprensivo che nel paio precedente, poichè l'incompatibilità tra paganesimo e cristianesimo è presentata, oltrechè dal lato morale, anche dal lato intellettuale.

15 E quale armonia v'è egli tra Cristo e Beliar?
L'ebraico «Belial» significa «uomo da nulla». I maggiori codici hanno qui la variante Beliar. È un nome del diavolo, cosicchè l'opposizione è qui presentata dal punto di vista dei capi dei due regni della luce e delle tenebre, della giustizia e dell'iniquità. Il primo regno s'incarna in Cristo; il secondo s'impersona in Satana. Tra i due non v'è armonia possibile, ma opposizione di natura e di fini, tanto che il Figliuol di Dio «è venuto per distruggere le opere del diavolo». Chi riconosce Cristo per capo dev'esser l'avversario di Satana e, per conseguenza, dell'idolatria che procede da lui cfr. 1Corinzi 10:20-21. L'idea si trova più direttamente espressa nel contrasto seguente:
O qual parte ha il fedele
(o credente)
coll'infedele
(od incredulo)? Dal lato religioso, per quanto concerne la sorgente della vita più intima dello spirito, la base delle speranze, non hanno nulla in comune; l'uno crede quel che l'altro rigetta, l'uno adora quel che l'altro maledice e sprezza; l'uno fa dipender la sua salvezza da Cristo mentre l'altro lo considera come un impostore. È il contrasto veduto dal lato religioso e soggettivo.

16 E quale accordo v'è egli fra il tempio di Dio e gl'idoli?
Il tempio di Dio era consacrato esclusivamente al culto del solo Dio vivente e vero. Gl'idoli non solo ne erano esclusi, ma dovevano esser distrutti in tutto il paese occupato dall'antico popolo di Dio. Essi rappresentavan l'apostasia dall'Eterno, la negazione del suo culto. Sotto al Nuovo Patto, il tempio in cui Dio vuol abitare ed esser glorificato, è la Chiesa sua. Cfr. 1Corinzi 3:10.
Infatti noi siamo (testo emend.) il tempio del Dio vivente; siccome Iddio disse: «Io abiterò in mezzo a loro e camminerò tra loro e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».
Noi, s'intende noi cristiani, adoratori del Dio vivente. Come società consacrata al servizio di Dio, la Chiesa di Cristo deve rifuggire da ogni partecipazione all'idolatria. Se non lo fa, cessa di essere il popolo di Dio, l'erede delle sue promesse. Questo dimostra l'Apostolo con alcune parole tolte da varii luoghi dell'A. T. e rivolte ad Israele. Le promesse ivi contenute con gli annessi doveri sussitono nella loro essenza per l'Israele di Dio sotto il Nuovo Patto. Per quanto sieno mutate le esterne circostanze in cui la Chiesa è chiamata a glorificare Iddio. Il primo passo è tolto da Levitico 26:11-12 citato liberamente dalla LXX: e contiene la promessa della presenza costante di Dio in mezzo al popolo ch'egli adotta per suo, in senso speciale. Ad esso si rivela, su di esso stende la sua protezione, in mezzo ad esso spande le sue grazie, e da esso riceve l'adorazione e l'ubbidienza. Il tabernacolo, colla colonna di fumo, era come il simbolo esterno della costante presenza di Dio.

17 Nel N. Patto Dio «è abitato fra noi» nella persona di Cristo ed abita nella Chiesa per mezzo del suo Spirito, il quale dimora nei credenti Giovanni 14:23. Essi sono, in senso più profondo. Il popolo redento e devono perciò glorificar Dio con una intiera consacrazione. Ora, la santità del popolo di Dio implica la separazione dal male sotto ogni sua forma. Questo dovere Dio lo ha inculcato sempre ad Israele, e l'Apostolo ne reca un esempio tratto da Isaia 52:11, ove Dio, rivolto al popolo captivo in Babilonia e ch'egli vuol liberare, lo invita ad uscire da quell'ambiente saturo di corruzione.
Perciò, «uscite di mezzo a loro e separatevene», dice il Signore, e «non toccate nulla d'impuro.
Il perciò, non fa parte della citazione, ma è introdotto da Paolo ad indicare come dal privilegio d'essere il popolo di Dio deriva il dovere della separazione dal male e dalla società dei malvagi. La citazione è libera e fatta a memoria. Per la Chiesa, l'uscir di Babilonia ed il non contaminarsi è un separarsi moralmente dal male che domina nel mondo in cui viviamo.

18 «Ed io vi accoglierò» e vi «sarò per padre», e voi «mi sarete per figliuoli e per figliuole, dice il Signore Onnipotente».
Queste promesse sono tolte da diversi luoghi come Ezechiele 20:34; Zaccaria 10:8; 2Samuele 7:14, ove si tratta imprima di Salomone, ma che Paolo applica ai seguaci del vero Re teocratico. Coloro che escono dal mondo contaminato, Dio li accoglie nella sua casa e ne fa la sua famiglia. Meraviglioso compenso per il sacrificio incorso. L'onnipotenza di Dio è garanzia dell'adempimento della sua promessa.